I soldati del popolo: Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia
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I soldati del popolo - Claudia Piermarini
UNALTRASTORIA
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I soldati del popolo
di Claudia Piermarini
La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.
Prima edizione in «Unaltrastoria»: giugno 2013
Prima edizione in e-book: luglio 2016
Design Dario Morgante
Red Star Press
Società cooperativa
Via Tancredi Cartella, 63 – 00159 Roma
www.facebook.com/libriredstar
redstarpress@email.com | www.redstarpress.it
Claudia Piermarini
I SOLDATI
DEL POPOLO
Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni
del biennio 1919-1920 alle gesta
della Volante Rossa, storia eretica
delle rivoluzioni mancate in Italia
Prefazione di Pasquale Iuso
REDSTARPRESS
A Emiliano,
alle stimolanti discussioni che hanno accompagnato la mia ricerca
e al sentimento che ci lega
PREFAZIONE
Il Novecento italiano: il secolo delle «rivoluzioni mancate»
di Pasquale Iuso
Quando si parla e si discute dei diversi momenti in cui la storia italiana ha attraversato crisi e fratture, tornanti ed esplosioni, talvolta sfuggono le connessioni o le continuità che fra queste esistono. Maggiore attenzione si pone al momento in sé, al contesto all’interno del quale avviene questo o quell’avvenimento oppure alle sue cause e alle sue conseguenze. Se escludiamo i casi più evidenti o noti (dalla crisi di fine Ottocento, all’intervento nel primo conflitto mondiale, al fascismo, alla Resistenza e poi durante gli anni della Repubblica con il luglio ’60, l’estate del ’64, la strategia della tensione e gli anni di piombo per ricordarne alcuni), non molta attenzione viene posta sull’idea che un insurrezionalismo diffuso sia esistito nel corso del Novecento e abbia avuto una sua continuità, una persistenza di fondo, alimentato da una instabilità sociale pronta a riemergere – in piccoli gruppi così come nei singoli – ogniqualvolta il contesto fosse valutato o sentito come quello dell’arrivata e tanto attesa rivoluzione. Non sempre questo riemergere sovversivo era frutto di un quadro coerente con una reale prospettiva rivoluzionaria; spesso – nei casi in cui questi sommovimenti provenivano da piccoli gruppi ovvero erano fortemente legati a un contesto politico nazionale del tutto straordinario e per di più condizionati dal quadro interno e internazionale, come nella Resistenza – si trattava di vere e proprie speranze, o tentativi, che si scontravano con la realtà di un contesto tutt’altro che pronto o recettivo, più propenso a una stabilizzazione che a una vera e propria rivolta, facilmente condizionabile.
Sta di fatto che questi avvenimenti, questi tentativi, queste speranze, non solo si alimentarono, nel corso dei decenni, delle tante occasioni mancate che sembravano far sempre arrivare il momento ma, in taluni casi, si iscrivevano in una vera e propria certezza, certamente ideologica, ma attorno alla quale si alimentavano militanti e gruppi che – a loro volta – contribuivano a disegnare la storia politica e sociale italiana del Novecento. Sindacalisti rivoluzionari, Arditi del Popolo, anarchici, gruppi di area comunista, che avevano partecipato alla Resistenza e ne erano rimasti delusi, si trovavano così a tessere una fitta rete fatta di contatti e di organizzazione, ma anche di veri e propri tentativi insurrezionali o di resistenza alla violenza avversaria (come nel caso degli Arditi di Argo Secondari), reagendo con durezza anche nei confronti di quelle impostazioni stabilizzatrici, rapportabili a scelte politiche giudicate negative per un vero risanamento e una radicale trasformazione della società dopo, per esempio, le grandi speranze suscitate dalla Resistenza. Un percorso che non poteva che essere di rottura e di contrapposizione con la stessa sinistra, e con il Pci in particolare, ritenuto – negli anni della transizione alla democrazia repubblicana e in quelli della sua nascita – un soggetto politico teso alla normalizzazione dei rapporti e al contenimento di potenziali spinte centrifughe, valutato quindi in termini negativi per il suo porsi in contrapposizione a queste tendenze e per aver di fatto abdicato a un ruolo rivoluzionario pur di raggiungere una sua legittimazione.
È in questa cornice che si iscrive il lavoro di Claudia Piermarini che, partendo dal presupposto dell’esistenza di una linea di continuità fra diversi momenti all’interno dei quali il profilo politico generale poteva far presagire una sollevazione insurrezionale diffusa (la breve ma intensa esperienza degli Arditi del Popolo, la grande stagione della Resistenza, il clima della primavera-estate del ’48 all’interno del quale si inserisce l’attentato a Palmiro Togliatti), iscrive questi fatti in altrettante «rivoluzioni mancate», tracciando speranze, disillusioni e sconfitte dei fautori, ma anche il quadro di repressione e di compressione all’interno del quale si sviluppano queste vicende. Il percorso scelto è certamente interessante, riuscendo nel collegamento fra generazioni di militanti legate da aspettative che non sono solo semplici illusioni di cambiamento, ma hanno una loro concreta radice nella risposta che esse vogliono dare all’aggressione, a una normalizzazione conservatrice, per avviare una concreta trasformazione della società. Generazioni provenienti in larghissima parte dal mondo del lavoro, che avevano subito il primo conflitto mondiale e ne avevano pagato le conseguenze, ritrovandosi catapultati in un dopoguerra lacerato, all’interno del quale stava velocemente trovando spazio il movimento fascista. Uomini e donne che, durante i durissimi e lunghi anni della dittatura, avevano imboccato la strada di una «resistenza sommersa», vivendo su di essi e sulla propria esperienza di vita quel soffocamento delle proteste ma non di quelle speranze che, negli anni centrali della guerra, cominciarono a emergere e a esprimersi negli scioperi e poi nella lotta partigiana. Un’esperienza colma di speranze e di riscatto che, in parte, con la fine del conflitto cominciarono a essere deluse, schiacciate dalla logica della guerra fredda e della contrapposizione ideologica, ma anche da quelle spinte interne che chiedevano una sorta di normalizzazione dalla quale certamente emersero la libertà, la democrazia, la Repubblica, ma che non riuscì o non volle sciogliere tutti i nodi con il passato, mancando l’obbiettivo dell’epurazione. Un filo conduttore che trova il suo epilogo nel luglio del 1948, quando l’attentato a Togliatti e la gestione di quelle giornate sembra segnare il punto di arrivo di una parabola iniziata nel biennio rosso; una parabola inevitabile, destinata a scendere e a fermarsi nel suo procedere irregolare, che pone conseguentemente fine a ipotesi realmente rivoluzionarie, ma non provoca quello svuotamento delle piazze che, come sottolinea l’autrice, già riempite «dalle generazioni precedenti», saranno nuovamente protagoniste dalla compressione degli anni Cinquanta agli anni delle bombe e del terrorismo, divenendo – nel lungo decennio dei movimenti – uno dei luoghi più significativi della società italiana e dei suoi nodi irrisolti.
La ricostruzione di Claudia Piermarini, il suo primo lavoro va sottolineato, si configura così come un percorso che, sviluppandosi lungo la prima metà del Novecento, rappresenta un viaggio nella storia del proletariato italiano; un viaggio certamente schierato ma non per questo meno interessante, condotto attraverso una lettura di avvenimenti fra loro concorrenti, all’interno dei quali il contesto internazionale, gli obbiettivi di normalizzazione delle classi dirigenti, e il doppio ruolo – istituzionale e rivoluzionario – della sinistra italiana dal primo al secondo dopoguerra trovano una loro posizione rispetto alle speranze e ai tentativi di trasformare radicalmente la società.
Pasquale Iuso
Università di Teramo
INTRODUZIONE
Storia eretica di una rivoluzione mancata
Questo lavoro si propone di individuare quei passaggi storici fondamentali che hanno animato la storia italiana dal primo al secondo dopoguerra. In particolare si è cercato di comprendere se e come il popolo sia stato un attore di primo piano nel complesso scenario storico del Novecento e se e come l’unione e l’organizzazione popolare siano stati dei fattori potenzialmente in grado di cambiare dal basso le sorti del Paese. Fino a che punto la spinta ideale delle masse verso una società equa e giusta poteva trovare uno sbocco concreto? Quali furono le condizioni con le quali una simile aspettativa dovette misurarsi? Quale il contesto politico nazionale e internazionale?
Il popolo, nel primo Novecento, giocava la sua partita all’interno di un quadro internazionale complesso, in cui gli obbiettivi imperialistici dei diversi Stati collidevano pericolosamente e in cui le derive nazionaliste, insieme all’affermarsi dei regimi autoritari, si imponevano in maniera rilevante nel contesto geopolitico internazionale.
Nella prima parte del testo ho scelto di analizzare la portata delle conseguenze del primo conflitto mondiale sul tessuto sociale italiano, sconvolto in maniera radicale dall’evento bellico. La crisi economica che accompagnò la fine della prima guerra mondiale fu chiaramente la causa che animò un ribellismo di massa, mentre il celebre «biennio rosso» fu l’espressione emblematica di un disagio alimentato anche dalle conseguenze psicologiche dovute alla partecipazione a una guerra che era stata la causa degli stenti, della miseria e delle ingenti perdite subite in termini di vite umane.
Il biennio rosso rappresenta, inoltre, un passaggio obbligato per comprendere come i timori nutriti dai poteri forti nei confronti di una possibile deriva bolscevica italiana finirono per alimentare il bacino di consensi attorno alle squadracce di Mussolini, lasciando a quest’ultimo campo libero nella sua corsa alla conquista del potere.
Uno dei nodi cruciali del mio testo coincide con il tentativo di comprendere i motivi che portarono Mussolini al potere e quindi con lo sforzo di capire quali forze lo favorirono a dispetto dell’avversione che almeno una parte della popolazione provava nei suoi confronti. A testimoniare questa ostilità, il fenomeno degli Arditi del Popolo: argomento su cui ho scelto di focalizzare molto la mia attenzione.
Nella seconda parte di questo lavoro, la decisione di trattare tematiche come l’ascesa e il consolidamento del fascismo, è stata dettata dalla volontà di concentrare l’attenzione sulla repressione subita dai movimenti politici dissidenti, e su come questi movimenti, partendo dal progressivo declino politico subito dal Duce nel corso della seconda guerra mondiale, riuscirono a serrare i propri ranghi per riprendere la lotta.
Il fascismo, nonostante nel popolo non mancassero le energie in grado di ostacolarlo, aveva conquistato il potere garantendosi per un ventennio, grazie alla violenta repressione dei dissidenti accompagnata da una stretta sorveglianza socio-culturale, il controllo delle strutture statali.
La tragica evoluzione della seconda guerra mondiale e i rocamboleschi cambiamenti politici che ci furono a partire dallo sbarco alleato in Sicilia del 1943 cambiarono radicalmente il quadro delle alleanze a livello internazionale. Hitler non poteva più contare sul suo fedele alleato italiano, e si trovava di fronte al tragico epilogo dei suoi fallimentari piani imperialistici. L’armistizio, insieme all’ormai inevitabile appoggio italiano agli Alleati, scatenò la reazione nazista. La penisola venne divisa in due e l’occupazione tedesca del Nord Italia diede alla popolazione lo stimolo necessario a prendere le armi per procedere dal basso alla liberazione nazionale.
Nella terza parte di questo lavoro ho voluto ripercorrere le difficili fasi della ricostruzione italiana e, partendo dal complesso periodo di transizione post-bellico, ho preso in considerazione i passaggi che portarono lo Stato alla rigenerazione delle sue strutture politico-istituzionali. La mia attenzione si è concentrata in modo particolare sull’analisi del fallimento di questo percorso, culminante con la mancata epurazione dei fascisti e un’amnistia che, privilegiando personaggi pesantemente compromessi con il Regime e consentendo la loro riabilitazione, finì per gettare benzina sul fuoco della rabbia popolare e di chiunque vedeva infangati i duri sacrifici affrontati nel corso della Resistenza.
I nodi irrisolti del secondo dopoguerra saranno alla base delle grandi proteste popolari che seguirono l’attentato a Togliatti, mentre l’humus sociale generato dalle contraddizioni di quegli anni continuerà a minare la stabilità della «prima repubblica». Il filo rosso che lega i momenti storici analizzati è una mai sopita tendenza popolare che, nel momento in cui reclama un ruolo da protagonista nei cambiamenti politici, prova a risolvere i problemi con propositi e progetti rivoluzionari. Propositi e progetti di fondamentale importanza in quella che considero la storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia.
CAPITOLO PRIMO
Gli Arditi del Popolo
Alle armi contro il fascismo
L’arditismo di guerra: una premessa necessaria
Il tentativo di ripercorrere la storia degli Arditi del Popolo si lega chiaramente alla necessità di comprendere il contesto sociale, estremamente complesso, degli anni in cui le prime organizzazioni armate che si opposero all’avanzata delle camicie nere conobbero la propria genesi.
La prima guerra mondiale fu il risultato una serie di tensioni imperialistiche che si svilupparono a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento e di un riassetto degli equilibri geopolitici in area europea direttamente legato alla nascita di due nuovi stati nazionali: l’Italia e la Germania.
La prima guerra mondiale, come la definì Mario Isnenghi¹, fu anche «la prima guerra mondiale di massa», perché chiamò direttamente in causa la popolazione degli stati belligeranti. Non a caso l’anno in cui scoppiò la guerra, il 1914, è comunemente accettato dagli storici vero punto di partenza del Novecento, tanto fu totalizzante rispetto alla portata che ebbe per la collettività. È anche vero che con la prima guerra mondiale si innescò un fenomeno di progressiva «brutalizzazione» della politica² e che «la violenza irruppe nella società italiana ed europea, divenendo fattore endemico della conflittualità politica e sociale»³.
Uno degli aspetti caratterizzanti della storia degli Arditi è proprio la difficoltà nel lasciarsi alle spalle la violenza della guerra dopo la conclusione delle ostilità. Questo, se da una parte si tradusse in un ribellismo di tipo nazionalista, profondamente avverso a quei «bolscevichi» accusati di essere usciti vigliaccamente dal conflitto firmando il trattato di Brest-Litovsk, dall’altra favorì la nascita di organizzazioni che, dal basso, propugnavano una società nuova, avversa al modello borghese-liberale, e che concepivano di giocare attivamente il proprio ruolo all’interno di questo agognato cambiamento radicale. Come sottolinea Luigi Balsamini:
L’elemento comune, benché gli Arditi si troveranno negli anni 1921-22 a battersi sugli opposti fronti del fascismo e dell’antifascismo, rimane comunque la loro concezione della politica: proseguimento della guerra in tempo di pace e lotta, armi alla mano, da una parte per imporre gli ideali della grandezza nazionale e del «produttivismo», spazzando via l’avversario, dall’altra per difendere il proletariato e permetterne l’emancipazione⁴.
Gli Arditi nacquero dalle trincee della grande guerra, risultato della strategia militare dello Stato Maggiore di un esercito ormai stremato da una logorante guerra di posizione ai confini dell’Impero austro-ungarico. Per uscire dall’impasse, si rese necessaria la costituzione di un soldato completamente nuovo: «Che si differenziasse notevolmente, per entusiasmo e capacità d’azione, dal prototipo del fante-contadino statalista e dotato di scarso amor patrio»⁵.
Un soldato che fosse scaltro e coraggioso e che fosse in grado di riscattare le sorti italiane, che non si confondesse con la massa della collettività che viveva la guerra passivamente⁶, ma che fosse parte attiva e fondamentale del riscatto italiano nei confronti del nemico.
Questa volontà si concretizzò nella circolare emanata dal Comando Supremo il 26 giugno del 1917, la quale invitava i vari corpi a garantire, per chi avesse le caratteristiche necessarie, l’inserimento in un autonomo battaglione d’assalto. Una data emblematica fu quella del 29 luglio 1917, quando venne presentato al re il primo battaglione d’assalto della Seconda Armata, guidato dal generale Capello. Un’anticipazione c’era già stata con la costituzione de «La compagnia della morte», nata dall’iniziativa del capitano Baseggio e con il preciso incarico di contrastare con veemenza e coraggio le truppe nemiche, ma a essere considerato il padre spirituale degli Arditi è il comandante Bassi che, tra l’agosto e il settembre del 1917, favorì la nascita di ben cinque reparti d’assalto formati con uomini provenienti dalla Seconda Armata. Nel mese di ottobre, sotto la guida del colonnello Pavone, si costituiscono altri reparti di Arditi in seno alla Terza Armata, a cui seguono nuovi nuclei anche nelle altre armate dell’Esercito.
I battaglioni vantavano una composizione sociale estremamente eterogenea. Si trovarono a combattere fianco a fianco soldati borghesi e proletari, studenti e analfabeti, operai e nazionalisti, futuristi e interventisti di sinistra. Tra gli Arditi furono arruolati anche ex galeotti, presenza confermata anche da Arditi della prima ora⁷, se non bastasse il contenuto esplicito di un famoso canto di guerra:
«Se giri tutta Italia non trovi un lazzarone / li ha requisiti tutti il colonnel Pavone. / Nelle patrie galere non ci sono più banditi, / perché andaron tutti al battaglion d’arditi. / Se volete far la guerra con dei bravi soldati / andate al cellulare prendete i carcerati. / Se ha più di sei anni puoi farlo caporale. / Se è condannato a vita puoi farlo generale»⁸.
La questione resta comunque controversa. Le fonti ammettono la presenza di delinquenti comuni tra gli Arditi, ma cercano anche di giustificare il tipo di selezione che venne fatta. Rochat⁹, per esempio, avvalorando la tesi del colonnello Angelo Gatti, sostiene che molti arditi non fossero in realtà delinquenti comuni, ma al limite colpevoli di reati di natura militare e protagonisti di episodi di insubordinazione, scelti proprio in virtù di un carattere indomito.
Una fetta consistente di Arditi era costituita da coloro che non sopportavano più di passare le proprie giornate nel fango delle trincee e di vedere i propri compagni morire sotto il fuoco nemico. Tanto che: «Si disse che la vita dell’ardito rappresentava un nobile imboscamento, appunto per l’esenzione dei turni di trincea»¹⁰.
Gli Arditi erano facilmente riconoscibili nella massa dei soldati, si distinguevano da questi, infatti, sia per il vestiario che per gli armamenti in dotazione. Indossavano pantaloni tipici del corpo degli alpini, maglioni dal collo alto, una giubba aperta con risvolti ai quali erano applicate mostrine rosse, verdi o nere a seconda del corpo di provenienza¹¹: una divisa che, a causa della penuria derivante dalla situazione bellica, sarebbe andata incontro a successive trasformazioni¹². Le armi in dotazione comprendevano il pugnale (che divenne uno dei simboli tipici degli arditi), le bombe a mano (modello SIPE, Thévenot e P.O.) e il moschetto 1891 al posto del fucile. All’insegna della praticità fu la scelta di abolire lo zaino per sostituirlo con il tascapane, infatti, testimonia Corsaro:
Lo zaino fu abolito per ragioni pratiche e per ragioni morali. Per ragioni pratiche, perché l’Ardito aveva accantonamenti fissi dai quali rimaneva assente al massimo una settimana per le azioni belliche, e quindi sarebbe stato superfluo caricarlo di un peso inutile: gli bastavano pochi indumenti e il tascapane per i viveri. Per ragioni morali, perché, senza lo zaino l’Ardito aveva