Vuoto fino all'orlo
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Vuoto fino all'orlo - Samuela Pierucci
Samuela Pierucci
VUOTO FINO ALL’ORLO
Dove e quando
Chissà dove e chissà quando, c’era un paese sbilenco, dai contorni sfumati e irregolari. Stava là, sulle pagine piatte di un quaderno a righe – come visto da un vetro appannato, o attraverso la pioggia – impreciso e incoerente, per certi versi molto simile a una provincia del nostro tondo pianeta.
Non so, può darsi che questo posto esista davvero, ma credo sia improbabile visto che in questa storia compaiono, tra i suoi abitanti, ragazzini e lucertole e gatti, tutti parlanti.
Narrerò una storia piccola, in cui lo spazzino Almalinda si trovò ad affrontare le sue inquietudini e un pericolo che l’intera Mandalchiria parve correre.
E non sapendo bene come si raccontano queste vicende, parlerò al passato.
Era un microscopico paese quieto, sede di un ancor più minuscolo regno. Ordinato, organizzato, monotono e per questo adatto a una vita piana e senza troppi imprevisti.
La maggior parte degli abitanti era davvero affezionata ai luoghi più caratteristici: il palazzo reale, la piazza, la chiesa, il cimitero (capisaldi immobili della civiltà).
Molti stavano lì annichiliti, indifferenti a tutto il resto; solo qualcuno pareva annoiato, o stanco di vivere quel tipo di realtà. Ma era comunque, sempre, troppo indaffarato a mantenere ben oliati tutti gli ingranaggi del marchingegno, troppo impegnato a non questionare su alcunché.
E in particolare uno si rigirava continuamente nel suo scomodo letto quotidiano, un giovincello schivo e introverso, timido e pauroso di rivelare a se stesso l’esistenza del proprio rancore, del fiele, della volontà di uscire, quel tanto che basta, dai soliti vincoli. Insomma, uno come tanti ce n’è.
Era lo spazzino del paese, Almalinda, conosciuto da tutti solo per essere quello che portava via ogni giorno l’immondizia e, talvolta, per essere uno che faceva anche altro, tipo mangiare, bere qualcosa con gli amici, divertirsi, guardare la tv. Insomma, uno che viveva anche una vita fuori dalle strade e dai sacchetti sporchi.
Non che Alma disprezzasse ciò che faceva, certo no, e in ogni caso non era possibile rifiutare il proprio ruolo a Mandalchiria.
Forse sembrerà improbabile, ma là il lavoro una volta scelto (o accettato, o ereditato) non si poteva cambiare. Per farlo c’era un iter burocratico lunghissimo e contorto che doveva approdare a una riunione del Regio consiglio i cui membri dovevano attentamente valutare le argomentazioni del richiedente, rivedere tutto il suo curriculum nei dettagli e poi soppesare e parlottare e valutare e, infine, emettere una sentenza.
Insomma era un paese con delle regole viziate, soprattutto per quanto riguardava il lavoro stipendiato. In tal modo erano nate tante altre occupazioni che a noi sembrerebbero parecchio strambe, degne forse di un cartone animato: la pettegola, lo sbruffone, il burlone, la bellona, il mendicante cortese e il mendicante sfacciato, l’esibizionista, il picchiatore, il curioso, lo spauracchio e via di seguito.
Una prima mattina
Era apparso il giorno con un sole agitato, schiaffi alle colline e ombra nei punti più impensati. E tra questo spezzettarsi di buio in una stanza, Alma si svegliò dal sonno di una notte. Si stiracchiò, sbadigliò, con gli occhi ancora socchiusi aprì la finestra. I raggi si ficcarono lesti anche in camera sua. Scoprì di essere di buon umore e decise di andare in giro dai suoi amici gatti per fare due chiacchiere, e magari anche colazione.
Allora si vestì cercando di fare del suo meglio, così da poter passare in mezzo alla piazza in maniera decente, o almeno per non stonare troppo senza ramazza in mano.
Era il giorno di riposo per tutti i sudditi del re, simile alla nostra domenica.
Uscì e si incamminò verso il margine delle case. Tutto attorno sembrava finto per quanto era perfetto, l’aria sapeva di pane fresco e odorava di caramelle, fiori di stoffa sbocciavano dappertutto e dalla fontana zampillava latte.
Avrebbe voluto urlare, danzare, fare l’idiota. Ma gli era proibito perché non era il pazzo del villaggio, e comunque anche i pazzi quel giorno erano di festa e non potevano fare follie.
Stava andando a trovare i gatti della foresta. La loro famiglia era una delle più antiche e conosciute della zona, vivevano da generazioni nel bosco e solo di rado si facevano vedere in paese.
Li chiamavano Assassini
. Il nome fa subito capire quello che erano diventati dopo che un loro antenato, molto tempo prima, aveva ucciso ben tre abitanti del luogo, non si sa bene in che circostanze.
C’era stato un assassino per soldi, uno per paura, uno mercenario, uno per divertimento, uno per curiosità. Gli amici di Alma, quelli più cari, erano due fratelli di cui solo il più grande voleva continuare la tradizione familiare. Quello più giovane, invece, era convinto di diventare santo e cercava quindi di portarsi avanti con i miracoli, nel tentativo di redimere anche il resto della stirpe.
Erano Falso e Luce, lo yin e lo yang di quella strampalata famiglia.
Era proprio Falso l’amico che Alma stava andando a trovare.
Come Criminale, non aveva ben chiaro perché avesse in cuor suo la vocazione del coltello. Forse era solo la genetica che, con quelle unghie e quei denti affilati, gli dava una falsa convinzione. E ancora, comunque, non aveva accoppato nessuno.
Il sogno dei babbei
Era una specie di domenica, quindi, giorno del riposo. Giorno a metà fra la fine e l’inizio, giorno di stasi, di paralisi, massimo grado della routine innalzato a momento d’evasione. I bambini giocavano, ridevano, correvano, cadevano, unici autorizzati a fare le stesse cose di sempre.
Nel caldo brodo del settimo giorno stavano immersi anche Alma e Falso che avevamo lasciato più o meno a fare colazione. Andarono nel centro del villaggio e Alma si recò alla celebrazione di prete Lando.
Giunse in parrocchia a metà mattina, proprio quando il grosso della gente iniziava ad arrivare per quella che sarebbe stata la funzione memorabile
. Convergevano lì tante menti parallele, racchiuse in corpi variegati e multiformi, muovendosi a frotte verso i banchi della chiesa. Alma si unì agli altri senza apparenti sorprese.
Dentro, la chiesa era piena di candele che con guizzi melliflui consumavano un’esistenza tremula, illuminando una mezz’ora per volta quella comunità confusa. Circa altre ottanta alme
erano arrivate in chiesa, solo poche devote, in verità, e perlopiù arrancanti nel silenzio forzato di quando inizia la messa.
Prete Lando sospirò e cominciò per l’ennesima volta un balbuziente rito, cercando di sfangarsela senza troppe figuracce. Era sempre così, per lui ogni funzione era motivo d’ansia: si sentiva un’attrazione, con occhi carichi di aspettativa e motivo di sudarella puntati addosso.
Anche se gran parte della messa fu un refrain, consuete formule, consueti gesti. E poi venne la parte creativa, un discorso intricato che non vi riporto e che, tanto per la cronaca, aveva al centro la questione della coscienza, che a prete Lando venne spontaneo descrivere usando allegorie di uccelli in gabbia, cielo e voli leggiadri contrapposti a macigni e catene.
Alma apprezzò, ma non poté pensarci troppo, perché arrivò il momento.
Fuori, Falso stava aspettando leccandosi la coda e non lo vide arrivare.
Torcimente, lo spauracchio del villaggio, piombò in mezzo alla navata quasi correndo, con la gabbana sdrucita da spaventapasseri che svolazzava tra i banchi.
Era colui che faceva paura di mestiere, usando l’immaginazione della gente. Fece una giravolta, arrivò all’altare, colpì con un leggero schiaffo il prete, che restò di stucco senza poter reagire, e si mise all’opera con le sue polverine magiche che soffiò in