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Viaggio oltre i confini del mondo
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Viaggio oltre i confini del mondo

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About this ebook

Quattro ragazzi partono alla ricerca di un mondo sconosciuto all'uomo, diverso da tutto ciò che conosciamo. Le loro ricerche li hanno condotti dalla tranquilla Inghilterra fino alla lontana America. I protagonisti dovranno affrontare dure prove durante il viaggio, che potrebbero mettere a rischio la loro spedizione. Grazie però alla loro tenacia, riusciranno ad arrivare a destinazione e dopo ore di attesa e calcoli geografici, ecco la tanta attesa, luce blu...
LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2016
ISBN9788869790331
Viaggio oltre i confini del mondo

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    Viaggio oltre i confini del mondo - Leonardo Caliani

    Caliani

    CAPITOLO 1 – Rivelazioni

    Correva l'anno 1900, periodo nel quale in Inghilterra regnava da ormai sessantatre anni Sua Maestà, la Regina Vittoria.

    Io vivevo nella tranquilla Londra, nella Wilfred Street, numero 31. Insieme a me abitavano mia madre Susie e mio fratello Arnold.

    Non era una vita facile.

    Forse per il fatto che nonostante avessi ormai ben ventotto anni, vivevo ancora con mia mamma.

    Ma sono più che convinto, che c'entrasse il fatto di aver perso mio padre, morto dopo che il battello sul quale viaggiava affondò a seguito di uno scontro con una fregata della Marina Militare Inglese. Questo almeno è quel che ci ha fatto credere il governo.

    Io sapevo che sotto c'era altro, ma per l'incolumità della mia famiglia, ho taciuto e non ho indagato.

    Mio padre era un avventuriero e uno scienziato, amante del mistero e della ricerca di luoghi nascosti. Il classico tipo che partirebbe, appena gli sarebbe capitata per le mani una mappa con un tesoro nascosto, di chissà quale epoca.

    Gran parte della sua vita, l'ha trascorsa in mare, seguendo piste o misteri che alla fine concludevano al nulla.

    Io assomiglio molto a lui, stesso carattere e stesso spirito; e per di più, anche stesso viso.

    Molti suoi cari vecchi amici, vedono il suo riflesso nei miei occhi.

    Portava una barba folta, un po’ come i marinai, capelli lunghi e castani come gli occhi, pelle chiara e un viso scavato.

    Io, a eccezione dei capelli lunghi, ero così.

    Non mi sono mai spiegato il motivo della lunghezza dei suoi capelli, ma so che a lui piacevano.

    Quanto a mia madre invece, era una donna molto sicura di sé, una grande madre, bassa, capelli biondi e mossi, corporatura molto minuta, occhi azzurri e un colorito di pelle quasi come fosse sempre abbronzata.

    E infine c'era lui, testardo e permaloso.

    Mio fratello.

    Non ha mai conosciuto suo padre, perché morì quando ancora mia madre lo portava in grembo;

    avevo appena tredici anni allora e ne compì quattordici poco prima della nascita di mio fratello.

    Mi chiede spesso di lui, di come era fisicamente, se era un buon padre e se amava fare il suo lavoro.

    Ebbene sì, mio padre amava il lavoro, forse molto più della sua famiglia.

    Perciò da quando Arnold è nato, ho preso il suo posto come capo – famiglia e sono stato io la sua figura maschile a cui ispirarsi.

    L'unica cosa che ha di nostro padre, sono i capelli.

    Anche lui se li vuole tenere lunghi, ma non sciolti.

    Li ha legati dietro la nuca con un elastico, a formare un piccolo codino che esce fuori.

    Per il resto è uguale a mia madre, nell'aspetto e nel carattere.

    Ultimamente ci vedevamo molto poco, mia madre faceva il turno di notte nell'ospedale vicino casa nostra, mentre io lavoravo dalla mattina alla sera al centro d'addestramento delle reclute per l'esercito inglese, il British Army.

    Mi ero arruolato sei anni fa, con l'intenzione di addestrarmi un paio d'anni per poi partire per la guerra, in supporto alle milizie che stavano combattendo contro i Russi.

    Durante l'addestramento però causai una rissa con un'altra recluta, che aveva umiliato davanti a tutti il mio compagno di cella, che tutti schernivano e prendevano in giro a causa della sua fragilità fisica.

    Si chiamava Philip Patel e iniziammo l'addestramento lo stesso giorno, tanto che ci misero infatti in stanza insieme.

    Non aveva particolari abilità fisiche, non era robusto, faceva fatica a correre, non andava oltre i cinque piegamenti con le braccia di fila, ma era molto intelligente e abile nelle strategie. Inoltre lo consideravo un buon amico e un simpatico ragazzo.

    Diventammo amici subito e io cominciai a dargli qualche aiuto per allenarsi, perché sapeva quanto me che nelle prove a cui ci avrebbero sottoposto, ci sarebbe stata la corsa, i piegamenti sulle braccia e altre verifiche di efficienza fisica. Ma a lui non importava, era sicuro di sé e convinto di potercela fare, ma si sbagliava.

    Philip ebbe il massimo dei voti alle prove orali di cultura generale, ma purtroppo non riuscì a passare le prove fisiche.

    Fu per questo motivo, che un teppista di nome Bryan Hunt lo umiliò davanti a tutti, facendogli lo sgambetto mentre camminava nella mensa con il vassoio di cibo in mano.

    Il caffè bollente gli si rovesciò addosso, ed io sapevo che sentiva male, ma per non dare soddisfazione a Bryan non lo fece vedere.

    A quel punto non ci vidi più, mi alzai, andai davanti a Bryan e gli dissi:

    – Ti piace prendertela con chi è più debole di te eh?

    – Sparisci dalla mia vista Burton! Se tu non ftossi l'allievo preferito del Colonnello Baxter, avrei già rotto il naso anche a te! – rispose lui presuntuoso.

    – Lascia perdere il Colonnello per un attimo e fammi vedere se ce l'hai abbastanza lungo! – lo provocai io.

    A quel punto lui si alzò e fece per darmi un cazzotto, ma io lo anticipai e gli spinsi il tavolo nei testicoli, al che lui si piegò e gli sferrai un gancio sul muso.

    Cadde a terra svenuto.

    – Proprio tu Burton mi deludi, e dire che avevo grandi aspettative per te… – mi rimproverò il Colonnello.

    Mi portarono nel suo ufficio, mentre Hunt, finì in infermeria con il naso fratturato.

    Stavo per essere congedato, ancor prima di essere arruolato definitivamente, quando nell'ufficio entrò Philip.

    Come accennato prima, era molto bravo nelle strategie e grazie alle sue parole e alla sua intercessione, non fui congedato.

    Il mio compagno spiegò a Baxter il perché della rissa e fortunatamente lui comprese, ma di certo non poteva passare sopra a questo fatto. Un aggressione a un compagno, porta al congedo, ma mi propose un accordo. Il nostro allenatore e supervisore, il Sergente Woodward, era prossimo alla pensione, dopo ben venti anni di servizio prestati al centro d'addestramenti e reduce di ben 3 guerre. Voleva che io, finito il mio addestramento, prendessi il suo posto come Sergente, istruttore delle nuove reclute.

    Sapeva che avevo aiutato Philip ad allenarsi e vedeva in me quel talento.

    – E se decidessi di non accettare? Sa bene signore, che il mio sogno è di poter andare in guerra, non di addestrare reclute – dissi io.

    – Beh o quello o il congedo, caro il mio Burton – rispose lui.

    Così dopo l'addestramento come soldato e come istruttore, presi il posto di Woodward e da sei anni compio questo incarico.

    Per mia madre sapere che non sarei più partito per la guerra è stato un sollievo, anche se avevo rotto il naso a un mio compagno.

    Qualche tempo dopo il mio inizio come Sergente Istruttore, anche io cominciai a pensare che forse, fu un bene, perché proprio in quel centro di addestramento conobbi due persone, che in quel momento per me erano solo dei sottoposti, ora invece, dopo ciò che abbiamo vissuto, sono fratelli.

    I loro nomi erano Peter Sullivan e Michael Sanderson.

    Anche loro compagni di cella, proprio come me e Philip, che dopo un anno dalla fine dell'addestramento era già partito per la guerra.

    Come di consueto, all'arrivo delle nuove reclute, io feci loro il discorso d'ingresso, spiegando cosa avrebbero passato e cosa sarebbero diventati alla fine dell'addestramento.

    Non ero però il tipo duro che si può immaginare, ma parlavo loro come se fossero già miei compagni; e come io ero l'allievo preferito del Colonnello, anche Peter e Michael lo erano per me.

    Erano ottimi cadetti, rispettavano le regole e seguivano i miei ordini senza obiettare. Una sera, mentre mi recavo nelle mie stanze, li incrociai mentre stavano uscendo, avendo la serata libera.

    Anche se non eravamo in servizio, loro si misero comunque sull'attenti, perciò scherzando risposi:

    – Riposo, soldati.

    Capendo che ero di buon umore quella sera, ne approfittarono per avanzare una richiesta alquanto strana, che mai negli anni precedenti mi era mai stata fatta.

    – Senta Sergente, se questa stasera non ha niente da fare, che ne dice di venire a bere qualcosa con noi? – chiese Peter un po’ timoroso.

    – Sì, può essere una buona idea! – disse Michael, appoggiando l'amico.

    Il regolamento non diceva nulla a riguardo, dato che nei momenti liberi fuori dalla caserma ci era concesso di fare quel che si voleva. Ci riflettei, e decisi che mi andava di passare una serata diversa così accettai.

    – Perché no, tanto offrite voi. Vero? – chiesi intimorendoli.

    – Sissignore – risposero tutto d'un fiato.

    Ci dirigemmo a piedi in un locanda non lontana dalla caserma e ordinammo da bere. Uno Scotch per me, un bicchiere di Gin per Peter e del Whisky con ghiaccio per Michael.

    Non ne ho viste molte di persone bere del Whisky con ghiaccio, ma a lui piaceva.

    Ci mettemmo così a parlare delle nostre vite private e ovviamente io parlai anche di mio padre.

    Raccontai loro quale era la sua passione e cosa aveva fatto in vita fino ad arrivare poi alla sua morte.

    Con dispiacere, scoprì che anche il padre di Peter era morto; ciò che mi suonava più strano era che anche lui facesse ciò che faceva mio padre.

    – Come è morto tuo padre? – chiesi incuriosito a Peter.

    – Perché ti interessa? –

    – Perché non trovo sia una coincidenza il fatto che mio padre e il tuo facessero la stessa professione. Entrambi esploratori e scienziati ed entrambi morti

    – In effetti è vero. Ti racconterò allora.

    Mio padre morì in mare. Viaggiava su un battello alla ricerca di una sua scoperta, che lo aveva portato quasi fuori di testa.

    Durante la traversata però, una fregata della Marina urtò il suo battello, mandandolo in fiamme

    – Posso chiederti come si chiamava il battello sul quale viaggiava? – quasi non mi sentivo il respiro in gola al chiedere questa domanda.

    – Mi pare di ricordare che si chiamasse Excelsior – affermò lui.

    Al sentire ciò mi si gelò il sangue nelle vene.

    Rimasi fermo in silenzio a fissarlo negli occhi.

    Per mimino una trentina di secondi stetti zitto.

    Poi dissi qualcosa.

    Peter, anche mio padre morì in mare su un battello e anche il suo battello si chiamavaExcelsior.

    Sai cosa vuol dire questo?

    Che mio padre e tuo padre si conoscevano, che lavoravano alla stessa ricerca e che sono morti sullo stesso battello!

    CAPITOLO 2 – Un uomo misterioso

    Non riesco a crederci.

    Per tutto questo tempo c'era qualcosa che ci legava e non lo sapevamo – disse incredulo Peter.

    Ho sentito che anche a te hanno detto la stessa cosa.

    Che una fregata ha urtato il battello ed è affondato.

    Una fregata della Marina e non una qualunque.

    La fregata che uccise mio e tuo padre era la famosa nave ammiraglia di Horatio Nelson, la HMS Victory! – dissi io pieno di emozione e stupore allo stesso tempo.

    – Ne ho sentito parlare, è vero. È il famoso vascello che era sotto il comando dell'ammiraglio Nelson nella battaglia Trafalgar

    – Esattamente! – esclamai io.

    - Adesso tutto torna. Ne voglio scoprire di più però.

    Appena tornerò a casa, voglio rivedere nelle vecchie foto di mio padre e vedere se ce ne fosse una in cui c'è raffigurato anche il tuo.

    – Bene. Farò anche io lo stesso.

    Erano oramai le undici passate e Michael, che fino a ora era rimasto in silenzio per ascoltarci, parlò.

    – Mi dispiace interrompere il discorso, ma dobbiamo rientrare. Abbiamo passato il coprifuoco da un po’.

    – Caspita! Hai proprio ragione, dobbiamo andare – dissi io.

    Così ci alzammo, mi diressi verso il bancone e chiesi quant'era il conto.

    – Spende 15 £ – disse l'uomo dietro al bancone.

    Peter e Michael stavano per estrarre i portafogli, ma per il loro stupore, io gli precedetti e lasciai una banconota da 20 £ e dissi all'uomo che poteva tenere il resto.

    – Grazie! – esclamò lui.

    Il ritorno verso la caserma fu molto silenzioso. Sia io che Peter stavamo ripensando a ciò che avevamo scoperto e entrambi sapevamo che non era finita lì.

    Michael interruppe il silenzio, aggiungendo al dubbio un altro dubbio.

    – Avete notato il tipo che sedeva dietro di noi?

    – No, perché? – gli ripose Peter

    – Aveva un'aria sospetta e pareva interessato al vostro discorso sull'Excelsior.

    Non ci ho fatto proprio caso.

    Ti ricordi che aspetto aveva? – lo interrogai

    Sinceramente no. Non l'ho guardato bene in viso, ho solo notato che ascoltava.

    Ricordò però che aveva un tatuaggio sulla mano destra, quasi fosse un segno di una confraternita o qualche cosa di simile.

    Aveva una cicatrice sotto la bocca, proprio sul mento e portava un cappotto pesante, tutto rotto e pieno di toppe.

    Aveva la barba folta e i capelli lunghi...

    Sbarrai gli occhi e mi si gelò il sangue.

    Un tipo misterioso, interessato al nostro discorso, capelli lunghi e barba folta…. Che fosse mio padre?

    Che sia sopravvissuto all'incidente?

    No, non era possibile. Dove sarebbe stato per questi diciotto anni? Perché non è tornato a casa?

    Le domande si accumulavano nella mia testa e a nessuna riuscivo a dare risposta. Poi capii cosa dovevo fare.

    Dovevo tornare a quella locanda e sperare di trovarlo ancora li. Senza dire una parola ai miei compagni, cambiai direzione e correndo tornai indietro.

    Non mi accorsi che anche loro mi stavano seguendo.

    Ero troppo preso dai miei pensieri e dalla speranza di rivedere mio padre. Entrai di corsa nella locanda e cominciai a setacciare ogni angolo.

    Niente non c'era più. Era sparito. Così chiesi al proprietario.

    Mi scusi, ha mica visto un uomo prima qua?

    Portava un cappotto con delle toppe, capelli lunghi, barba folta e un tatuaggio sulla mano destra.

    – Certo che l'ho visto, viene qua ogni sera da ormai svariati anni, beve il suo bicchiere di Cider, fuma una sigaretta e va via.

    È un tipo strano però, non ci ho mai parlato – rispose lui.

    – Capisco. Non sa nemmeno dove abita? –

    – No mi dispiace. Però il signore al tavolo laggiù in fondo, ogni tanto scambia qualche parola con lui. Prova a parlarci.

    – Grazie mille.

    Il proprietario mi aveva indicato un tavolo al quale era seduto un uomo, sulla quarantina, che portava un cappello di lana, un maglione con il collo alto. Notai che aveva i pantaloni e le scarpe da pescatore. La usai come scusa per avvicinarmi a lui.

    Senta, sa mica se da queste parti qualcuno vende del pesce?

    Alcuni amici vengono a pranzo da me domani e vorrei cucinarli del pesce –

    – Bene può dire a me. Io sono un pescatore e ho un negozio di pesce poco

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