Fossa Clodia
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Fossa Clodia - Renzo Cremona
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-941662-0-0
Foto in copertina
© Romano Cremona
Copyright © 2016
Renzo Cremona
RENZO CREMONA
fossa clodia
PROSE BREVI
a mia madre e a mio padre,
alle mareggiate che li hanno fatti incontrare.
FOSSA CLODIA
QUARANTA BREVI STORIE
DI TERRA E DI ACQUA
VEGGENZE MARINE E DI BILANCE
raccontami, musa, dei giorni lunghi a cingerci di attese vicino agli sguardi, dei giorni infiniti a fare prue delle nostre fronti, di quelli brevi attorno alle rive della nostra futile storia e alla leggenda di come finimmo per crederci; di quelli brevissimi, anche, a trovare vera la mano che sognammo.
raccontami delle sere scomode a stare seduti su speranze impagliate e delle notti smisurate a desiderare di essere scalmi; narrami dei pomeriggi e della loro accidiosa e umida perseveranza, dei mattini salsi aperti al vento, di come nascemmo alga in un liquido mondo di visioni.
raccontami di città di risacche e di schiume, dei corpi inerti del tempo che da sempre le correnti si trascinano dietro, di mari splendenti e barche affilate, del muro che, per non affogare, imparò a diventare esso stesso acqua e prossimità di fortunale.
narrami dei pezzi di memoria, o musa, che il fondo portò via con sé, della distanza dagli scogli del forte a cui mi fu permesso parlare, e di come mi risposero assenti, quasi sull'orlo precario del mondo, le bilance del giorno ultimo.
dimmi ancora, musa, di tutte le braccia rivolte a sud a cogliere gli ultimi brandelli di sole prima del silenzio di brina; raccontami delle sottili immagini di legno di cui non sapemmo parlare e di come un mezzogiorno ci stendemmo al sole, uno dopo l'altro, in fila di ocre cangianti e dorate; come ci stendemmo tra le rocce cosparse di salso fino al termine della sofferenza, e come quella si fece della medesima stoffa degli anni.
raccontami anche del tempo, il quale era corrugato eppure intento a non far grinze per paura di tradirsi, ed estremo come la polvere luminosa che si sollevava antica e riarsa da immagini di orme scarlatte.
narrami ancora di quando ci passai accanto e di quando mi accadde di sognare come sarebbe stata là sopra la vita quaggiù, come sarebbe stato guardare dove guardano le reti, come sarebbe sentire giorno e notte tra i piedi l'acqua mormorare peripli in alto mare e salsedine attorno ai pali.
e narrami, infine, di quale destino strano sarebbe rimanere con le nasse abbarbicate ai temporali e quale sapore avrebbe vivere qui dall'alto delle cortecce, ai lembi sfilacciati della terra e dell'acqua, a sognare isole lontane eppure così vicine, ad attendere marosi remoti tra le linee fiammanti di una fine d'estate, a contemplare il senso e la nostalgia delle orbite perfette, a scrutare i periodi di rivoluzione ellittici, ad osservare universali e perenni le leggi della gravitazione di tutti i corpi terrestri e marini, divisibili e indivisibili, donati e poi sottratti, delle reti gettate e poi impigliate, di pesci sfuggiti alle maglie, dei giorni caduti in trappola, di ogni desiderio dimenticato e poi riemerso, e delle onde impervie e paurose delle maree a ricoprire gli istanti, a ritirarsi caute dal mondo e poi a risommergerlo, a renderlo acqua, e a ridonargli infine forma e consistenza stanziale pur se nel solo attimo di un sussulto, pur se per un po', pur se nella lingua dell'abbandono impreciso ma irrevocabile di un vocabolario prossimo all'estinzione.
ACQUA ALTA
il mare comincia, continua, rientra, riaffiora. affluisce, termina, inizia, finisce, viene internato e poi liberato, è un campo di fuga dal cui vincolo è impensabile sciogliersi. si spalanca come una porta tutta questa acqua distesa, è un terreno su cui si è attendata una battaglia silenziosa, lo scontro che la città, sfiancata dai duelli, ha ormai fatto diventare tregua.
vengono, alle volte, momenti di nostalgia salmastra e le calli, i vicoli, i ponti, gli scuri accostati per il timore di essere capiti, non riuscendo più a sopportare la secchezza della separazione cedono al richiamo del fondo. e l'acqua riprende a salire.
salgono, i minuti, lambendo cheti il margine del mondo degli uomini. salgono, permettendo alla città di specchiarsi sulla propria assenza e distogliere lo sguardo da sé.
e questo mare, di nuovo, fluida circonferenza che non conosce stagioni, si fa cinema muto dal quale è impossibile imparare a parlare, pellicola grigia da cui è un'illusione apprendere la parola.
è inestricabile il modo che hanno le alghe di osservare l'ora, è a mareggiate che si misura il tempo.
suona nelle vicinanze una campana, ma il rintocco è opaco come vetro incrinato, si adagia sulla lunga spina del pesce e indugia, esita a cadere, è colmo del cotone che ha raccolto la nebbia.
i gomitoli si addormentano, tra le tegole. solo i comignoli delle fornaci sono ancora visibili, e un forte disabitato, in lontananza, in mezzo ai relitti della cenere: subito dietro c'è l'isola delle foreste volte a ponente, con i loro alberi e i loro bunker radi e solitari, che da qualche parte devono essere esistite con la città sotto il mistero di acque diroccate.
BARENE
provi e non ce la fai. è ad insenature molli e friabili che ti fai strada fra i giorni, seguendo le scansioni di una fatica cedevole e rarefatta. nel tuo paesaggio solo arenili grigi e nudi si offrono agli occhi spogli di ogni giustificazione, stanchi di essere all'erta e di avere paura. sono terminati i tempi degli attimi frastagliati, andati i ciuffi d'erba, persi in monosillabi desiderosi di lambire la tenerezza.
le secche e le rientranze di cui è fatto il tuo essere ti impediscono la navigazione in mare aperto e perciò ti sei fatto disegno di terra, ritorno alle molecole, andirivieni sommerso dalla frequenza delle acque e dai tempi.
nemmeno il mare ti riconosce più, ti ha allontanato in fanghi intransitabili al piede. la tua mano