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L'annientamento di Foreverland
L'annientamento di Foreverland
L'annientamento di Foreverland
Ebook374 pages4 hours

L'annientamento di Foreverland

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About this ebook

Quando i ragazzi si svegliano su un’isola, viene raccontato loro di un incidente. Prima di poter tornare a casa, dovranno visitare Foreverland, una realtà alternativa che curerà le loro menti.

Reed sogna una ragazza che gli dice di opporsi a Foreverland. Non ricorda il suo nome, ma sa che un tempo l’aveva amata. Dovrà sopportare gravi sofferenze e fidarsi del sogno. E fidarsi di non essere pazzo.

Danny Boy, il nuovo arrivato, incontra la ragazza del sogno di Reed a Foreverland. È bloccata in quella terra fantastica a cui nessun ragazzo può resistere. Dove ogni desiderio del cuore viene soddisfatto. Perché a qualcuno dovrebbe importare come funziona Foreverland?

LanguageItaliano
Release dateMar 12, 2016
ISBN9781507134559
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    Book preview

    L'annientamento di Foreverland - Tony Bertauski

    L’ANNIENTAMENTO DI FOREVERLAND

    TONY BERTAUSKI

    L’ANNIENTAMENTO DI FOREVERLAND

    Traduzione a cura di Silvia Stefani

    Alle cose che contano.

    Voi sapete chi siete.

    Se ci sono aghi, c’è dolore.

    La puntura dell’ago di Zin

    PRIMO ROUND

    Concittadino, genio dell’informatica, arrestato per reato federale

    Summerville, Carolina del Sud. Tyler Ballard, trentasette anni, è stato arrestato dall’FBI per l’uso di tecnologie vietate dal governo federale.

    Ballard è meglio conosciuto per aver inventato il controverso metodo detto Realtà Alternativa Assistita da Computer (RAAC), che induce stati di sogno coscienti. Il programma richiede una connessione diretta con il lobo frontale dell’utente, attraverso l’utilizzo di una sonda ago che penetra la fronte, conducendo il soggetto in una realtà alternativa creata dal computer. Gli utenti non riferiscono di differenze tra un’esperienza in RAAC e una in carne e ossa.

    Questa tecnologia è stata poi bandita nella maggior parte dei paesi, quando tutti gli utenti hanno cominciato a soffrire di un irreparabile danno psicologico che conduceva poi a uno stato vegetativo.

    Ballard usava la tecnologia RAAC nel suo seminterrato con la moglie Patricia Ballard, trentasei anni. Patricia soffre di un disturbo bipolare e, così afferma Tyler Ballard, sembrava rispondere bene ai trattamenti RAAC. Le autorità mettono in discussione quest’ipotesi da quando Patricia ha smesso di reagire agli stimoli esterni sin dal momento dell’arresto.

    Harold Ballard, dodici anni, il loro unico figlio, è ora sotto custodia dei nonni.

    1

    Click. Click. Click. Click.

    I muri si avvicinavano centimetro dopo centimetro. Reed afferrò le sbarre della cella, che continuava a restringersi, in cui era rinchiuso. 

    Gli tremarono le gambe.

    Il freddo penetrò nei suoi piedi scalzi, le cui piante ormai erano insensibili e le caviglie bruciavano per il dolore. Alzava un piede alla volta, alternandoli avanti e indietro per impedire al gelo lancinante di raggiungere l’inguine, ma oramai non poteva più sprecare energie. Lasciò andare le sbarre, per scuotere via il torpore dalle dita.

    Era in piedi da diverso tempo. Che fossero ore? Di tanto in tanto si sedeva per far riposare le gambe doloranti, ma ben presto la cella divenne troppo stretta per permetterglielo. Doveva per forza restare diritto. E quando anche il soffitto cominciò a calare, e lo fece, lui fu costretto a stare non completamente in piedi né completamente seduto.

    Sapeva bene come funzionava.

    Anche se non poteva contare il trascorrere del tempo in quella stanza praticamente buia, questo round sembrò durare più a lungo dei precedenti. Forse non avrebbe mai avuto fine. Forse sarebbe dovuto rimanere in piedi finché le ginocchia non sarebbero crollate sotto il suo peso morto, le sue ossa congelate si sarebbero infrante come vetro colpendo il suolo, sarebbe caduto come una sacca informe, i suoi muscoli liquefatti in un miscuglio denso di acido lattico e calcio, le terminazioni nervose che si incendiavano, gli occhi gonfi e i denti che battevano...

    Non pensare. Niente pensieri.

    Reed imparò che il dolore era solo frutto della sua mente, che quel supplizio fasullo, di ciò che credeva stesse accadendo, l’avrebbe schiacciato molto prima del dolore vero. Imparò a vivere il bruciore, il gelo e il dolore. La sofferenza.

    Non poteva pensare. Doveva viverli, nonostante tutto.

    Gli irrigatori gocciolavano dalle nervature del soffitto a cupola, sul cui apice un’enorme ventola continuava a muoversi per lo slancio del suo ultimo ciclo. Alla fine le goccioline d’acqua si dissolsero in una nuvola e la ventola girò ancora, facendo sì che l’aria umida superasse le sbarre accarezzando la pelle bagnata di Reed, intensificando le fitte di dolore alle articolazioni, come in una morsa. Per il momento, si sentiva solo il gocciolio degli irrigatori e il leggero russare dei suoi compagni di prigionia.

    Nell’edificio si trovavano sei celle singole, tre per ogni lato del corridoio. Ognuna conteneva un ragazzo all’incirca dell’età di Reed. Erano tutti adolescenti e il più giovane aveva quattordici anni. Le loro celle erano spaziose, solamente quella di Reed si faceva sempre più piccola. Nonostante il calcestruzzo, stavano tutti a terra, completamente ignari del tormento che stava avendo luogo nell’edificio a volta.

    Ma non stavano dormendo. Il dormire avviene quando chiudi gli occhi e ti allontani a poco a poco verso l’incoscienza. No, loro erano da un’altra parte. Le cinghie nere avvolte attorno alle loro teste li privava del dolore. Avevano avuto la scelta di stare svegli come Reed, ma avevano scelto di stendersi, stringere i lacci e di farsi portare altrove. Non gli importava dove.

    In effetti, volevano andare.

    Per fuggire.

    Reed non poteva fargliene una colpa. Erano bambini. Erano spaventati e soli. Anche Reed era tutte quelle cose. Ma non aveva una cinghia in testa. Era rimasto nel suo corpo.

    Fece un respiro profondo ed espirò lentamente. Riprese a contare, di nuovo.

    1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9... 10.

    E poi ricominciò ancora. Ancora.

    E ancora.

    Non contava lo scorrere del tempo con i respiri. Respirava soltanto. La sua vita era in quei respiri. Fluiva e defluiva come la marea. Andava e veniva come le fasi lunari. Se riusciva a essere presente, la sofferenza era tollerabile. Contava e contava e contava.

    Guardò distrattamente verso la ventola. Le pale ormai si erano completamente fermate. L’aria era umida e stagnante e fredda. A circondare il soffitto a volta c’erano dei lucernari tondeggianti che però trasmettevano un’oscurità inesorabile, adatta a quel clima di sofferenze. Reed cercò di non guardarli con la speranza negli occhi di vedere la luce, che avrebbe annunciato la fine. Indipendentemente che fosse giorno o notte, i lucernari restavano chiusi, almeno finché non terminava il round di dolore, quindi cercare, sperare e desiderare la luce non era di alcun aiuto. Rallentava semplicemente il tempo. E il tempo sembrava già praticamente fermo.

    1, 2, 3...

    Si aprì una porta in fondo al corridoio alla sua destra e la luce affettò la stanza, seguita poi però da un colpo metallico e dall’oscurità. Un paio di scarponi pesanti battevano in modo irregolare sul pavimento. Reed avvertì l’odore dell’uomo vecchio prima ancora che arrivasse davanti alla sua cella, un odore che ricordava più il deodorante che l’acqua di colonia. Smith guardò attraverso i suoi occhiali rettangolari.

    «Reed, perché resisti?»

    Reed incrociò il suo sguardo, ma non replicò. A Smith non interessava una conversazione. Era sempre una paternale. E non aveva senso prolungarla.

    «Non avere paura.» Il buio gli nascose le rughe e i capelli tinti di nero, ma non poteva celare il suo tono bugiardo. «Te lo prometto, provaci una volta e vedrai. Non dovrai rifarlo se non ti piace. Siamo qui per aiutare, ragazzo mio. Per aiutarti. Non devi sopportare tutta questa sofferenza.»

    Si era forse dimenticato che erano stati proprio loro a rinchiuderlo lì? Si era forse dimenticato che erano stati loro a scegliere le regole del gioco, a dettare legge e a costringerlo a giocare? Reed sapeva da solo di essere impazzito, ma non erano tutti PAZZI?

    Reed lasciò che gli occhi comunicassero tutti i suoi pensieri, mentre Smith incrociò le braccia al petto, impassibile.

    «Non vogliamo farti del male. Stiamo solo cercando di prepararti a una vita migliore, tutto qui. Prendi l’attrezzatura da lucido e il dolore sparirà, te lo prometto.»

    Si sporse attraverso le sbarre e lasciò ciondolare la cinghia nera sopra la testa di Reed. Cominciava ad avere una certa attrattiva. Reed gli girò le spalle e Smith sospirò. Una matita graffiava il blocco per appunti.

    «Fai come vuoi, Reed,» disse prima di zoppicare via. «Il direttore vuole vederti appena finisce questo round.»

    Ascoltò l’incessante scarabocchiare e il rumore di passi. Quando Smith se ne fu andato, Reed rimase con solo l’occasionale gocciolio degli irrigatori inattivi. Iniziò a controllare di nuovo il respiro, contando fino a dieci e ricominciando. Da capo. Ancora. E ancora. Niente pensieri. Solo dieci numeri.

    1, 2, 3...

    1, 2, 3...

    1, 2...

    Click. Click. Click. Click.

    Reed chiuse le ginocchia e si appoggiò all’indietro quando i muri della cella si avvicinarono ulteriormente. Poco dopo la ventola si riattivò e la foschia gli imperlò le spalle. Reed non riuscì a impedirsi di pensare a come sarebbe stato l’imminente futuro. A quanto ancora sarebbe peggiorata la situazione.

    Alzò lo sguardo verso la cinghia nera che penzolava sopra la sua testa.

    Respirò.

    E ricominciò a contare.

    2

    «Danny Boy?»

    La voce della zia di Danny era attutita. Lo stava chiamando dalla sua camera da letto con il suo pesante accento irlandese, pensando ovviamente che fosse ancora a letto. Infine però, salì nella soffitta, dove Danny stava ricurvo sopra la tastiera, con gli occhi incollati allo schermo. Sua madre gli aveva liberato un posto in un angolino solo per lui, e anche quando era troppo caldo o troppo freddo, Danny se ne stava comunque seduto lì tutto il giorno.

    «Danny Boy? Dove sei, tesoro?»

    Non poteva essere interrotto in quel momento. Erano due settimane che si fingeva malato ed era rimasto indietro con la scuola. La madre si fidava che lui facesse tutti i compiti, ma lui trascorreva tutto il tempo al computer, per fare esattamente quello che stava facendo in quel momento.

    La gente è stupida.

    Usano delle password facili e poi le riusano pure ovunque. Chi è che pensa che la parola password sia una password? Gli idioti.

    Non era difficile superare il firewall della scuola. Danny decifrò la password criptata, usando un programma che lui stesso aveva scritto. Due secondi più tardi, era uno studente del secondo anno con voti ottimi. Ancora una volta.

    Grazie mille mondo.

    Aspetta. Ho tredici anni, non sette.

    «Danny Boy?» I gradini scricchiolarono. «Sei già qui sopra? Non sono nemmeno le sei del mattino, ragazzo.»

    Le dita di Danny danzavano sopra la tastiera.

    «Danny Boy... cosa stai facendo?»

    Un ultimo tasto e...

    BAM.

    Danny cadde dalla sedia. Il suono era assordante, come se un palo metallico si fosse conficcato nel tetto, rompendo legno e scandole. La polvere fluttuò nella nuova luce. Gli scalini scricchiolarono ancora, ma qualcosa era cambiato. Il materiale isolante non pendeva più dal soffitto e c’era una pila di scatole che non aveva mai visto prima.

    La casa era cambiata.

    «Che ci fai in soffitta?» Un uomo era sul primo scalino con in mano una mazza da golf.

    Danny sbatté le palpebre, ma ancora non era sua zia. E non era più di fronte a un computer. Era dentro a una culla. Era un tredicenne in una culla per bambini. Nella casa di qualcun altro.

    Le scarpe da golf dell’uomo fecero un rumore strano a contatto con il pavimento in legno. Si fermò a pochi passi dalla culla, con una mano appoggiata a un fianco e quella sinistra che faceva dondolare la mazza. «Figliolo, che diavolo stai facendo? Pensi di essere ancora un bambino?»

    Danny non si mosse. Poi l’uomo sorrise con fare da padre orgoglioso.

    «Beh, se vuoi di nuovo essere un bambino facciamo un tentativo.»

    Mollò a terra la mazza e iniziò a solleticare i fianchi di Danny. Le dita incontrarono un punto particolarmente sensibile e Danny si lasciò andare a un attacco di ridarella. L’uomo sorrideva felice, facendo delle esclamazioni gioiose di tanto in tanto, durante quella scherzosa tortura. Danny cercò di respingerlo, ma l’uomo era troppo forte, e rideva così tanto, che stava quasi per farsela nei pantaloni.

    «Vieni qua, tu.» L’uomo lo afferrò per le braccia con una presa salda, ma non era forte abbastanza. Danny sfuggì al suo abbraccio. Sentì l’uomo trasalire, cadendo fuori dalla culla traballante. Pensò di atterrare in piedi, ma la caduta fu più lunga di quanto si aspettasse. Toccò terra sì, ma non il pavimento, l’erba.

    Il sole splendeva alto sopra di lui e la casa era sparita.

    Una folla urlò di gioia. Danny indossava un’uniforme di baseball e un guanto sulla mano sinistra. Non aveva mai giocato a quel gioco in vita sua, ma eccolo lì, a centro campo, con un cappellino tirato giù appena sopra gli occhi.

    Da qualche parte, una mazza di alluminio colpì qualcosa.

    I giocatori sul diamante si girarono. La palla era alta nel cielo. Il sole lo accecava. Alzò il guanto, ma non riuscì a vederla. Cercò di stringere gli occhi, di ripararsi dal sole con la mano destra, ma era lo stesso accecante. La palla stava per colpirlo dritto in faccia, però non poteva deludere la squadra. Doveva prenderla. Doveva...

    E poi stava nuotando nell’oceano. Le onde si infrangevano attorno a lui. C’erano anche altri bambini. Danny non era mai stato in una spiaggia, ma eccolo lì: nuotava nell’acqua salata che gli si abbatteva sui fianchi...

    E poi stava colorando le uova di pasqua. Qualche bambina attorno al tavolo e una donna vicino al lavello con indosso un grembiule. Non l’aveva mai vista prima...

    Apriva regali di compleanno e le persone attorno a lui cantavano. Persone che non aveva mai...

    Giocava a nascondino. Si era nascosto dietro un cespuglio, quando qualcuno che non...

    Cucinava biscotti...

    L’autobus della scuola...

    Diverse scene si susseguirono l’un l’altra, finché non capì più dove ne iniziava una e ne finiva un’altra. Era tutto una macchia. Una macchia indistinta. Confusa.

    Il pulsare.

    Quello fu la prima cosa che Danny sentì ancor prima di aprire gli occhi insonnoliti. Quella pulsazione che spaccava la testa. Gli sembrava di essere stato preso a pugni in fronte con un arnese dentato.

    «Non sederti ancora, giovanotto.» Una mano morbida gli toccò il braccio. «Dagli qualche secondo.»

    Fece quello che gli disse l’uomo.

    Quando aprì gli occhi, la luce sembrava brillante. Gli ci volle un minuto per abituarcisi, un minuto in cui sbatté velocemente le palpebre.  Era nell’ufficio di un dottore, sul lettino per i pazienti. La carta che avvolgeva il lettino era spiegazzata sotto di lui e si increspava a ogni movimento. Un uomo anziano era seduto su uno sgabello accanto a lui. Il suo viso era completamente pieno di rughe e i capelli erano bianchi come il camice che indossava.

    «Io sono Jones.» L’uomo sorrise come un padre che guarda il figlio appena nato.

    «Acq...» Provò a dire Danny, ma aveva la lingua appiccicosa. «Acqua, per favore.»

    «Prima siediti, ok?»

    Quando Danny si sollevò, Jones gli passò un bicchiere di carta e lo guardò svuotarlo.

    «Ancora, per favore.»

    «Aspettiamo un attimo, ok? Ce ne sarà altra quando ti sentirai pronto.»

    Avvolse una fascia attorno al braccio di Danny e gli misurò la pressione sanguigna. Poi gli misurò la febbre e il polso. Scribacchiò un po’ su un blocco appunti, alzando lo sguardo e canticchiando di tanto in tanto.

    La stanza, ora che Danny riusciva a concentrarsi, non era proprio l’ufficio di un dottore, ma più un laboratorio. Sembravano esserci delle grandi apparecchiature appese al muro che potevano essere tirate fuori con delle ali meccaniche. E dietro di lui, la stanza continuava per altri cinque o sei metri con un tapis roulant, diversi monitor e altri macchinari.

    «Ti fai chiamare Danny Boy?»

    «Scusi?»

    «Stavi sognando prima di svegliarti e hai mormorato Danny Boy. Ho pensato che preferivi farti chiamare così. Danny Boy.»

    «Mia zia... lei mi chiamava così...»

    «Ah, sì. Le zie sono speciali, non è vero?» Disse sorridendo, di nuovo.

    Danny allungò la mano verso la testa, che sembrava come se fosse piena di... tutto. Ma Jones lo afferrò per il polso. «Rilassati un attimo, Danny Boy.»

    «Stavo facendo questo sogno assurdo... come se fossero una montagna di sogni tutti ammassati in uno solo.»

    «I sogni sono così.» Jones lanciò un’occhiata al blocco appunti.

    «Dove mi trovo?»

    «Hai avuto un incidente, ma adesso stai bene. Vuoi altra acqua?»

    «Sì, per favore.»

    Si scolò un altro bicchiere di carta e lo appallottolò prima di restituirlo.

    «Ehm, dottor...»

    «Mi puoi chiamare signor Jones.»

    «Signor Jones, sono in ospedale?»

    «Sei in un posto molto meglio dell’ospedale, ragazzo mio. Sei in un centro riabilitativo che è specifico per le tue condizioni. Avrai le migliori cure che ci siano e mentre sei qui, avrai l’opportunità di fare cose che nessun altro ragazzino in tutto il pianeta abbia mai provato. E inoltre... ah, ah, ah... non toccare.»

    Danny si toccò la fronte. C’era un cerotto rotondo delle dimensioni del centro di un bersaglio proprio dove sentiva dolore. Cercò di ricordarsi di un qualche incidente, qualsiasi cosa che avrebbe potuto fare per essere colpito in testa, ma tutti i ricordi erano sfuocati. Non poteva ricordarsi del suo indirizzo di casa o del numero di telefono. Se sua zia non lo avesse chiamato per nome, non si ricorderebbe nemmeno quello.

    «È per questo che sono qui?» Tentò nuovamente di toccarsi la fasciatura.

    «In un certo senso, sì.»

    «Sono caduto sopra un punteruolo rompighiaccio?»

    «No.» Jones sbuffò. «Hai dormito per un lungo periodo, mentre subivi il trattamento, quindi potresti sentirti un pochino stordito quando ti alzerai. Stai attento, ok? Voglio che ti pieghi in avanti e tocchi il pavimento con le dita dei piedi... bene. Adesso rimani fermo così un secondo.» Jones girò sullo sgabello e si accostò al computer dietro di lui. «E non toccarti la fronte.»

    I piedi di Danny erano informicolati. Anche solo con il poco peso che faceva pressione, poteva sentire chiaramente che alzarsi in piedi non era una buona idea. Non si toccò la fronte, però il collo rigido sì. Anche quello era dolorante. E c’era un rigonfiamento tra le vertebre. Sembrava come una fascia che era stata inserita appena sotto la pelle ma della larghezza di un anello nuziale che rendeva l’osso del collo ancora più grosso. Anche Jones sul collo ne aveva uno che sporgeva.

    «Che cos’è?»

    «Fa parte del trattamento,» disse Jones senza nemmeno guardare. «È una nuova tecnologia e deve restare in contatto con il tuo sistema nervoso. Ne parleremo meglio più tardi.»

    «Ok,» era l’unica cosa che Danny potesse pensare di dire. Aveva tredici anni. Quando un adulto diceva qualcosa, lui ascoltava, fine del discorso. Ma niente aveva senso, né lo strano laboratorio né Jones che sorrideva come se fosse tutto normale. La sua testa era semplicemente troppo piena.

    «Dove sono i miei genitori?»

    Jones rimase diversi attimi al computer prima di alzarsi con il blocco degli appunti davanti allo stomaco. «Vogliono che tu stia meglio, Danny Boy. Ed è quello che sarai... migliore.»

    Sorriso.

    «Quando posso vederli?»

    «Puoi spostare tutto il peso in avanti?»

    Gli porse la mano e Danny la prese. Quando caricò tutto il peso, si sentì un po’ traballante, ma ora che era in piedi, stava meglio di quanto pensasse.

    «Dove siamo?» Chiese Danny.

    «Fai un passo e te lo dirò.»

    Fece un passo, poi due. Raggiunsero la porta e Jones la aprì senza lasciarlo andare. Il corridoio era lungo e bianco.

    «Andiamo da quella parte.» Disse indicando verso sinistra. Alla fine c’era un muro di vetro.

    Danny nei primi passi strascicò i piedi. Aveva già quasi il fiatone. Jones era leggermente chinato verso di lui. Danny mise la mano sul muro e tracciò una linea con le dita. Le ginocchia erano deboli, ma Jones lo guardava sorridendo come se fosse tutto a posto. La sua presa si faceva sempre meno pesante man mano che i passi di Danny diventavano più sicuri. Quando lo lasciò andare, Danny toccava ancora il muro, ma camminava quasi normalmente verso la fine.

    Il muro di vetro era leggermente ricurvo come se l’edificio fosse un gigantesco cilindro. Erano più in alto rispetto al suolo. Poco più in là c’era un edificio a forma di ferro di cavallo. Oltre quello c’era un grande campo verde con delle persone.

    «Adorerai questo posto, Danny Boy,» sussurrò.

    Il campo sembrava come il campus di un college con allineate piante tropicali e palme, su cui erano appollaiati giganteschi uccelli bianchi. Danny era intelligente, ma non abbastanza da essere al college. Sempre che non fosse successo qualcosa al suo cervello. Allungò la mano verso la fronte, ma Jones gliela prese con gentilezza prima che potesse sfiorare il cerotto con la punta delle dita. 

    «Sarò il tuo Investor finché sei qui. Ho investito nel tuo futuro, Danny Boy. Se ti servisse mai qualcosa, o se avessi delle domande, io sarò l’unico che ti potrà aiutare, va bene?»

    Danny annuì.

    Jones appiccicò un adesivo sulla maglietta di Danny, con su scritto: Ciao, io sono Danny Boy.

    «Sarò sempre dalla tua parte per tutta la strada, Danny Boy. Su questo ci puoi contare. Abbiamo un accordo?»

    Si strinsero la mano e guardarono il da farsi che si stava svolgendo sotto di loro. Sembrava un grande campo estivo su un’isola tropicale. I genitori di Danny non erano ricchi, non si sarebbero potuti permettere qualcosa del genere. Almeno così credeva. Non riusciva a ricordarseli al momento. Ma non avrebbe fatto domande, anche se Jones gli aveva detto che poteva.

    «Andiamo al Cortile,» disse Jones, indicando il vasto spazio aperto davanti a loro, «e incontriamo i tuoi compagni.»

    Quando raggiunsero l’ascensore e selezionarono il piano, Danny si era già dimenticato dell’ufficio del dottore, del sogno e della confusione. Dentro l’ascensore fissò le porte e al suo sguardo rispose il riflesso di un ragazzino magrolino dai capelli rossi con le lentiggini. Sembrava un estraneo con la targhetta del nome sulla sua maglia.

    «Sono Danny Boy,» sussurrò.

    3

    Camminarono per i boschi per una decina di minuti. Il sentiero era pacciamato e gli alberi sopra di loro erano resi folti dalle viti che scendevano penzolanti e dalle palme coperte di arbusti. Jones sudava attraverso la maglietta e si dovette fermare a metà strada per recuperare il fiato e asciugarsi il viso. Era tutto piegato in avanti e quando Danny trovò un bastone, Jones lo ringraziò.

    Uscirono dagli alberi alle spalle dell’edificio a forma di ferro di cavallo senza finestre. Era un gigantesco muro vuoto sfumato di verde per le alghe e un’unica porta proprio nel mezzo. Entrarono.

    La stanza di Danny era al centro. A differenza del muro posteriore, questo lato della struttura, che si affacciava al Cortile, era pieno di finestre. Danny poteva quindi vedere dall’altra parte. Era grande abbastanza da contenere cinque o sei campi da calcio.

    Jones si sedette sul letto strofinandosi via il sudore dalle pieghe del collo. Sorrise debolmente a Danny e indicò vari oggetti. «Quello è il lavandino e il bagno è accanto all’armadio. I cassetti sono già pieni di vestiti. Il cesto per la biancheria sporca è in fondo al corridoio.» Fece qualche respiro ansimante. «Le lenzuola pulite le puoi avere una volta a settimana.»

    Danny aprì l’armadio e passò in rassegna le maglie e i pantaloni tutti nuovi, stirati e pronti a essere indossati. Tutti della sua taglia. Jones cercò di alzarsi, ma il materasso lo tirò di nuovo giù. Danny si offrì di aiutarlo ma lui lo ignorò, quasi rotolando e alzandosi poi con un colpo d’anca. Annuì con un sorriso afflitto.

    «Lì fuori, Danny Boy,» disse, passando la mano sulla finestra, «è dove la maggior parte dei ragazzi trascorre il tempo libero. Li troverai quindi nel Cortile.»

    Il Cortile mi sa tanto da prigione.

    La zona attorno al dormitorio era solcato da marciapiedi che si incrociavano fino a

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