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Scritture aliene Albo 1: A cura di Vito Introna
Scritture aliene Albo 1: A cura di Vito Introna
Scritture aliene Albo 1: A cura di Vito Introna
Ebook125 pages1 hour

Scritture aliene Albo 1: A cura di Vito Introna

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About this ebook

E se il futuro ci fosse sottratto da una crudele razza inumana?
L'uomo post mutante riuscirà a riappropriarsi della Terra?
SCRITTURE ALIENE
ALBO 1
A CURA DI VITO INTRONA

L'impero matriarcale di Kajura riuscirà a riconquistare i mondi dissidenti?
Un demone alieno entra nel corpo di un serial killer. Che effetti sortirà quel patto diabolico?
Satana manterrà le sue infide promesse?
Due meteorologi salentini riusciranno a scongiurare una nuova, inarrestabile glaciazione?
Due androidi ribelli sfuggiranno alle grinfie del cyber-tiranno?
LanguageItaliano
Release dateJan 11, 2014
ISBN9788896086810
Scritture aliene Albo 1: A cura di Vito Introna

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    Book preview

    Scritture aliene Albo 1 - Tommaso Russo

    SCRITTURE ALIENE 

    Albo 1 anno 2014

                           EDS

    Copyright Editrice GDS

    EDIZIONI SINTONIA DIVERSA

    Marchio editoriale di Editrice GDS

    www.bookstoregds.com

    Scritture Aliene albo n 1 anno 2014

    a cura di Vito Introna

    GLI AUTORI DEL VOLUME SONO

    Andrea Doro, Flavio Firmo, Claudio  Cordella, Marco Vecchi, Barbara Risoli, Tommaso Russo, Marco Milani

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    FUTURO VERDE SPENTO

    Andrea Doro

    Gli occhi bruciano, la puzza è insopportabile, faccio ancora finta di essere svenuto mentre due guardie mi trascinano lungo il corridoio di pietra; la luce è debole, fioca e verde.

    Vedo un soffitto altissimo, i miei accompagnatori sono alti e verdi; puzzano.

    Ogni dieci dei loro passi si aprono stanze su entrambe le pareti dell’androne.

    In una di queste vedo uno sbirro, le braccia alzate sopra la testa e i polsi legati a una catena fissata al soffitto.

    Indossa ancora il cappello di ordinanza, è nudo e trema. Sul petto la frase Al vostro servizio sanguina e il suo siero emana strani bagliori verdastri. Piange e singhiozza, sospeso a mezzo metro dal suolo con un manganello infilato su per il retto.

    Nella stanza successiva vedo tre persone.

    Le gambe amputate all’altezza delle rotule, ogni braccio destro è conficcato nel petto dell’altro.

    Dai loro crani partono dei cavi elettrici collegati con un macchinario alle loro spalle, hanno le bocche piene di fogli di carta.

    All’entrata della cella una frase recita: Pagati per garantirti il tuo diritto d’autore.

    Un conato di vomito acido mi esplode in bocca.

    Lo ricaccio dentro.

    Le guardie grugniscono qualcosa, si fermano.

    Una mi solleva, l’altra mi colpisce allo stomaco.

    Vomito addosso a loro qualcosa di verde.

    Ridono contenti.

    Poi faccio finta di svenire.

    Sghignazzano e continuano a trascinarmi.

    Devo cercare di non pensare, questi esseri riescono a leggere nel pensiero.

    Devo cercare di non piangere, né urlare, né protestare, questi stronzi non sopportano le emozioni.

    Devo resistere.

    Mi sbattono in una cella umida, fredda e buia. Attivano un congegno, una scritta al neon sulla parete di fondo che recita: Motel. Sghignazzano.

    All’improvviso si accende una luce rossa.

    C’è un letto a due piazze e mezzo con lenzuola marroni, credo. Due comodini, due abat-jour.

    Sono solo.

    Le guardie mi urlano qualcosa nella loro lingua incomprensibile. Mostro il dito medio e sputo. Ridono soddisfatte e se ne vanno.

    Quello è l’unico modo di comunicare con loro senza ricevere altre bastonate.

    A fatica mi sdraio sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto. Perdo sangue da qualche parte, ho i muscoli che tremano, sicuramente qualche osso rotto, non me ne preoccupo. Temo solo quel grande ventilatore che gira e rigira in continuazione.

    Una piazza, una folla protesta, lanci di pietre, manganelli, scudi in plexiglas, un mezzo blindato, getti d’acqua misti a spray al peperoncino; la folla che urla, qualcuno piange, ancora idranti e manganelli, gente che corre.

    Una luce verde accecante.

    Apro gli occhi.

    La porta della cella si apre, una guardia lancia dentro un vassoio con sopra la busta di un fast-food: cheeseburger con patate fritte al ketchup e una cola.

    «Posso avere una birra al posto di questa cola?»

    La guardia grugnisce qualcosa, rutta e ride sguaiata.

    Il suono è uguale a quello di un frullatore acceso dentro una padella elettrica.

    Di nuovo mostro il dito medio e gli sputo. Mi volta le spalle e se ne va sbattendo la porta metallica. Sbrano il cheeseburger, la cola la metto in un angolo. Mi sdraio di nuovo sul letto, torno a fissare il soffitto. Quanto tempo trascorra così non lo so, due ore o tre, forse quattro.

    Riaprono la cella, un altro vassoio, stavolta ci sono due riviste porno. Non mi muovo, riprendo a guardare il soffitto e il ventilatore che gira, gira e rigira.

    Luce verde accecante.

    Mi risveglio gridando e un altro urlo risponde al mio.

    Rannicchiata in un angolo tremante, i vestiti sporchi e logori, la testa fra le mani rosse di sangue. La proprietaria dell’urlo.

    Ci studiamo in silenzio. Osserviamo questa cella, il letto e i comodini, gli abat-jour, il ventilatore, la scritta al neon, le pareti di pietra fredde e umide, quella specie di cesso nell’altro angolo.

    Ci alziamo in silenzio, insicuri, ci avviciniamo un attimo, un abbraccio violento, carezze e graffi, morsi alle labbra, baci, muscoli tesi e vestiti strappati, avvinghiati contro la disperazione. Il letto è un campo di battaglia dove stabiliamo di essere vivi, scacciamo gli incubi tra i gemiti e non ci importa più di niente. Sarà lì che creperemo entrambi dopo l’ultimo urlo rauco.

    E le pale del ventilatore girano, girano…

    Luce verde accecante.

    Urla di terrore, apro gli occhi e balzo in piedi, la mano di una guardia mi afferra per la testa, scaraventandomi dall’altra parte della stanza.

    Stordito cerco di alzarmi, ma un calcio nello stomaco mi riporta a terra e una strana arma puntata alla tempia mi obbliga a fissare le pietre del pavimento.

    La ragazza strilla, chiede aiuto, le guardie urlano anch’esse, sghignazzano, sputano e ringhiano, la porta metallica cigola e si richiude con uno schianto sordo; mi rialzo, sono di nuovo solo.

    Buio.

    Tutte le luci si spengono, cerco il letto, cado due volte, rovescio il comodino, almeno credo.

    Sono sdraiato sulla schiena e un’ondata di pensieri mi travolge, cerco di fermarli ma loro continuano imperterriti. La testa pulsa e nelle orecchie iniziano a esplodermi urla di giorni perduti, voci familiari, risate, rumori di aerei che sfrecciano; la mia mente dipinge la scia di un caccia F35 che sfreccia nel cielo azzurro in un mattino di non so più quanto tempo fa. Sotto il cielo c’è una spiaggia, vedo delle barche e tutti che vanno di fretta.

    Qualcuno mi tiene la mano e piange, urla, mi abbraccia.

    Nero.

    Un’aula universitaria, voci e schiamazzi.

    «Professore, lei cosa ne pensa?»

    Nero.

    «Pensi che mi stia meglio questo vestito o quest’altro?»

    «Sono belli entrambi, scegli tu.»

    «Questo l’ho preso apposta per te, non vuoi che l’indossi?»

    Nero.

    «E così, tu saresti il famoso professore?»

    Nero.

    «Cosa ne pensi?»

    «Penso che per sobbarcarsi un viaggio di diecimila anni luce, debbano avere un motivo abbastanza valido o no?»

    Nero.

    «Ciao, piacere.»

    «Ciao, piacere mio.»

    Nero.

    Luce verde accecante.

    Ripiombo nell’incubo.

    Una guardia grugnisce qualcosa mentre lancia sul pavimento il solito vassoio con un cheeseburger e una cola.

    La cola la metto in un angolo, il cheeseburger lo divoro.

    Di nuovo solo.

    Devo scappare, studiare un sistema di fuga. Penso per più di dieci minuti di fila.

    La cella si apre, entra una guardia e mi sferra un pugno in pieno petto bloccandomi la respirazione. Cerco aria, annaspo, la fitta al costato è tremenda, sudore a fiotti lungo le tempie… cerco aria, annaspo ancora e ancora, fino a quando il torace smette di farmi male.

    La guardia sghignazza e se ne va.

    Rantolo un vaffanculo.

    Per risposta sento solo una risata sgraziata e acuta.

    Poi le luci si spengono di nuovo.

    Gli occhi si riposano e il respiro si fa sempre più calmo. Tutto ciò che continuo a sentire è quel dannato ventilatore, che gira e gira e gira e rigira.

    Il nero inghiotte anche il rumore.

    Luce verde accecante.

    La cella si riapre, entrano tre guardie, mi sollevano di peso per scaraventarmi contro il muro. Due mi tengono per le braccia, la terza prende un secchio e mi rovescia addosso un liquido verde dall’odore terribile. Grugniscono qualcosa e poi sputano parecchie volte sul pavimento.

    Penso che non sia un comportamento normale, forse sta succedendo o dovrà accadere qualcosa. Magari qualcuno ha organizzato un vago progetto di resistenza.

    Non so neanche dove mi trovo, né quanti altri umani sopravvivano come me, rinchiusi da qualche parte. Penso che…

    Ancora un violento colpo allo stomaco. Poi un altro e un altro e un altro...

    Tutto ritorna nero.

    Luce verde accecante.

    Una lampada da ufficio col paralume verde e il piede dorato. Un’enorme scrivania in mogano, documenti e fogli sparsi a casaccio. L’ampia poltrona in pelle amaranto.

    L’imponente quadro che ritrae Isaac Asimov in mezzo alle galassie, sulla parete davanti a me.

    Cinque metri di libreria alla mia sinistra. Tre finestre alte due metri alla mia destra.

    A una di queste è affacciata una figura di spalle.

    Grugniti.

    Se guardo troppo in alto le guardie s’incazzano. Tengo la testa bassa.

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