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Gente di Catenensi
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Gente di Catenensi

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Mescolando amori, vita contadina, accensioni poetiche e intermezzi narrativi di memorie, l'autrice ci fornisce un racconto che prende in esame i nostri ricordi, descrive un mondo dimenticato attraverso le vicissitudini di personaggi che trascorrono la loro vita in un paesino alle pendici dell'Appennino abruzzese, per riscoprire con piacere un passato che oggi sembra così lontano.
LanguageItaliano
Release dateFeb 24, 2016
ISBN9788892554788
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    Gente di Catenensi - Caterina Andriani

    Dostoevskij

    ​Parte Prima

    1

    Giugno era appena iniziato con le sue mattinate tiepide, c’era nell’aria un profumo d’erba e di terra bagnata di rugiada in quella stradina senz’asfalto, che sconfinava nei campi, dimora di contadini e di povera gente, ribattezzata dai paesani ‘via delle casette basse’. Quelle casette con le mura screpolate, ingiallite dal tempo, semplici e umili come i suoi abitanti, seguivano la stessa linea di pendenza del sentiero in fila l’una dopo l’altra, con i tetti spioventi fatti di tegole un tempo rosse, ma che l’umidità e la pioggia avevano inverdito con macchie di muschio. Nella penombra della cucina di una di quelle casette Lisandro Di Girolamo bevve l’ultimo sorso d’ orzo caldo preparato da sua moglie. Il gallo cantò per la seconda volta. Era ora di andare. Abbracciò Elisa, poi sua madre che aveva gli occhi pieni di lacrime, e in ultimo suo padre, che gli augurò buona fortuna. Raccolse da terra il sacco con i suoi indumenti e uscì di fretta senza voltarsi indietro per raggiungere Piazza degli Angeli. Non aveva voluto che Elisa lo accompagnasse, perché, le aveva detto: "Non mipiace portare il mio dolore in mezzo alla gente."– E lei lo aveva assecondato rimanendo a casa.

    Era la prima volta che andava in piazza un giorno di settimana senza recarsi al Comune dove da vent’anni lavorava come usciere. Figlio di Franco Di Girolamo, un contadino che viveva in paese, Lisandro Di Girolamo era stato ambizioso fin da ragazzo, quel tanto ch’era bastato a dargli la spinta per diventare qualcuno. Infatti, appena compì diciott’anni decise di non continuare con il mestiere di suo padre, perché lo aveva visto passare troppe fatiche senza ottenere nulla in quella misera regione dove aveva sempre vissuto di stenti, con un salario di sessanta centesimi al giorno alimentandosi di polenta scondita e pochi fagioli insieme alla sua famiglia. Ma Lisandro si era detto: No! Io non sono disposto a spaccarmi la schiena per due soldi. Voglio guadagnarmi da vivere in un altro modo. – Fu così, che un cartello affisso sul muro del Comune gli venne a proposito. Se lo fece leggere da un impiegato e seppe che cercavano un usciere: questo mestiere, pensò, poteva farlo anche se era analfabeta e decise di recarsi dalla persona giusta.

    La mattina dopo aver preso questa importante decisione, che gli avrebbe cambiato la vita, si alzò più presto del solito e impiegò una mezz’oretta a sbarbarsi davanti a un piccolo specchio appeso ad un chiodo sulla parete della camera, si pettinò con cura cercando di respingere il più possibile quel ciuffo nero ribelle, finalmente indossò una camicia bianca fresca di bucato con il pantalone nero della domenica e fischiettando per sentirsi meno nervoso, si recò in farmacia a parlare con il dottor Tommaso Mucci. Lo trovò dietro il bancone dove con la calma abituale pesava minuziosamente gli ingredienti di una preparazione farmaceutica con il capo chino su una minuscola bilancia di precisione. Dottò, buongiorno. – disse, e prese il coraggio fra le mani, quando facendo il giro della stanza con gli occhi vide che non c’era nessun cliente inopportuno. – Buon giorno Lisandro, in che cosa posso esserti utile? – Rispose il dottore, vedendogli una faccia bianca inusuale, e sorpreso da una visita così mattutina. – Voi mi dovete aiutare, e poi mi dovete scusare. – Balbettò frettolosamente, tutto contento di essere riuscito a sputare il rospo. – Bene, lasciamo perdere i preamboli, dimmi piuttosto di che si tratta. – Lisandro, non amava chiedere favori e dovette fare un grande sforzo per tirar fuori la voce: Io, ecco, ho saputo che in comune cercano un usciere e sarei molto contento di avere quel posto. – Il dottor Tommaso, un uomo tutto cuore, non si tirava mai indietro quando si trattava di favorire un giovane, dopo questa sincera richiesta d’aiuto si accomodò le lenti sul naso, lo guardò fisso negli occhi, e con un sorriso di approvazione disse: Tu sei un bravo ragazzo, e per questo oggi stesso parlerò con un mio amico. Vedi, in queste faccende bisogna muoversi con una certa velocità per non dare tempo a qualc’un altro di prendersi il posto. Torna domani e ti do una risposta.Voi siete troppo buono. – Disse Lisandro, e sgattaiolò via felice, come se gli avessero già dato l’impiego. Il dottore lo raccomandò al sindaco come una persona seria, e determinata: il classico personaggio che avrebbe fatto il suo dovere anche se era analfabeta, perchè aveva capito che quel ragazzo avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di non tornare ad essere contadino, poiché era chiaro che non ne aveva la vocazione. Con questa spintarella, Lisandro divenne usciere e quello stesso giorno giurò a se stesso di mantenere ad ogni costo la sua nuova posizione.

    Prima d’iniziare a lavorare in Comune, Lisandro si recò dal barbiere a farsi accorciare quel ciuffo ribelle, che gli dava un’aria da ragazzo alle prime armi, mentre lui voleva sembrare maturo a tutti i costi altrimenti non l’avrebbero rispettato. Fin d’allora vestì sobriamente, camicia bianca e completo nero dove aggiungeva, all’inizio dei primi freddi un gilè o un maglione di lana grossa tessuti ai ferri da sua sorella, preferibilmente: verde bottiglia o bordò, i suoi colori favoriti. Completava il suo abbigliamento un mantellonero a ruota ricevuto dal comune come divisa, che gli arrivava fin sotto le ginocchia, del quale si prendeva una cura meticolosa spazzolandolo personalmente tutte le sere prima di coricarsi.Quando cominciarono a cadergli i capelli, comprò al mercato un cappello nero a falda; d’inverno e d’estate percorreva le vie del paese con un paio di comodi scarponi neri, che usava finché si consumavano, e subito dopo ne ordinava un nuovo paio uguale ai precedenti dallo stesso calzolaio, capace di confezionarli con una vacchetta di ottima qualità. Un grande ombrello nero per i giorni di pioggia, insieme al resto degli indumenti costituiva pressappoco il suo guardaroba. Non mi occorre altro, diceva, non sono un signorotto pretenzioso, ma il figlio di un contadino.

    Dal modo come cominciarono a trattarlo i suoi paesani, si rese conto di aver fatto una scelta giovanile ben riuscita, perché subito dopo aver preso quest’impiego la sua vita migliorò. Si fece una buona reputazione in paese per essere stato capace di ribellarsi a quella sorta di legge medioevale dove i figli maschi dovevano seguire lo stesso mestiere del padre; mentre lui giovanissimo e intraprendente era riuscito a spezzare quella catena, a dimostrare che con un briciolo di iniziativa e un carattere deciso si potevano raggiungere mete diverse. A quei tempi non pensava al matrimonio, anche se posava lo sguardo sulle fanciulle, che sfilavano sulla gradinata della chiesa per assistere alla messa della domenica, mentre scambiava due chiacchiere con i suoi amici seduto su uno dei due banchi di granito, che formavano un blocco unico con le scale e la facciata dell’entrata principale del Sacro Cuore. Aveva appena lasciato il faticoso mestiere di contadino e voleva divertirsi il più a lungo possibile, per sposarsi c’era sempre tempo. Tuttavia, guardare le belle ragazze era un passatempo piacevole al quale non sapeva rinunciare; e poi, non costava nulla! La domenica pomeriggio, subito dopo aver pranzato si riuniva con i suoi amici a giocare a scopa, e a bere qualche bicchiere di vino di botte alla cantina di ‘Zio Fulvio’ dove si tratteneva fino all’ora di cena, quando se ne tornava a casa per mettere qualcosa nello stomaco.

    Lisandro era un giovane di abitudini semplici ereditate dall’educazione contadina e le rispettava meticolosamente. Si alzava tutte le mattine alle prime luci dell’alba e andava dietro casa a spaccare la legna per sua madre; poi, faceva colazione con una tazza d’orzo, colata da lui stesso da una vecchia macchinetta napoletana, e due fette di pane fatto in casa riempite di fichi secchi, dopodiché si avviava al lavoro masticando frettolosamente gli ultimi bocconi. Appena arrivato in Comune puliva le stanze, riordinava le scartoffie, e volava come una mosca a consegnare i documenti in Pretura o dove glielo richiedevano, sempre pronto a scambiare due chiacchiere con gli impiegati degli altri uffici con i quali intratteneva rapporti cordiali. I suoi superiori erano soddisfatti della sua dedizione, ma il più felice era proprio lui, giacché si considerava fortunato di aver potuto scegliere tra essere contadino, rispettando la volontà di suo padre, o essere usciere obbedendo al suo criterio. Quando soppesava le due cose nella bilancia immaginaria dentro il suo cervello, concludeva di aver preso la decisione più azzeccata, perché quelli che facevano il lavoro dei campi erano trattati come un nonnulla, l’ultimo gradino della società. Mentre lui, anche se doveva spazzare il pavimento del Comune si considerava ed era considerato dai suoi paesani un impiegato. Non rimpianse mai la sua adolescenza passata nelle campagne insieme al padre, e senza sottovalutarla la considerò un’esperienza necessaria attraverso la quale era dovuto passare per raggiungere il prestigio di cui ora godeva in paese. Gli sembrava di capire che in quel momento ciò che faceva di lui un buon partito non erano solo le sue virtù personali, ma era stimato da tutti perchè aveva un posto statale.

    La sua vita andò avanti così fino a quando Elisa Mastrolindo, la quale aveva appena compiuto sedici anni, e cominciava ad essere una bella ragazzotta, divenne il suo chiodo fisso,a tal punto che non riusciva aconcentrarsi in nient’altro. La rincorreva con lo sguardo mentre risaliva dalle casette basse per andare a servire presso la famiglia Vasci, gente nobile del paese, che abitava sulla piazzetta dove c’era la fermata della corriera, poi proseguiva per il suo lavoro contento di averla vista passare. Qualche volta aveva provato ad avvicinarla, ma la ragazza molto timida aveva sempre abbassato gli occhi e affrettato il passo senza dargli tempo di proferire nemmeno un saluto. Anche se al vederla aveva sentito dentro di se un’allegria diversa capace di produrgli una scarica elettrica nella colonna vertebrale, ci mise tempo a capire che quella era la donna giusta da portare all’altare. La cosa gli fu chiara il giorno che sua madre ebbe un malore e tutti pensarono sarebbe morta in quello stesso momento. Contrariamente alle previsioni, la donna molto forte si riprese e sopravvisse anche al marito, ma a Lisandro erano bastate quelle poche ore per rendersi conto che: Senza una presenza femminile la casa non funziona. Allora gli venne l’urgenza di avere una donna accanto a sé. Così, decise che alla prima occasione avrebbe chiesto la mano di Elisa a suo fratello.

    Un pomeriggio di domenica, mentre giocava a carte in cantina vide entrare Bruno, un giovane magro sui venticinque, dall’aspetto trasandato. Era giusto quello che aspettava. Chiese scusa ai suoi compagni per non poter finire la partita a scopa, anche se era evidente che l’avrebbe vinta; si avvicinò al tavolo dove il giovane si era appena seduto e gli disse: Ohilà! Bruno, ti posso offrire un quartino e sedermi a bere con te. – Bruno assunse un’aria preoccupata e lo invitò a sedersi. Dopo aver richiesto il vino all’oste e aver bevuto un paio di bicchieri per sciogliersi la lingua, Lisandro disse: Tu mi conosci, sono un uomo serio e per me è arrivato il momento di prendere moglie.Giustamente. – Rispose Bruno. –Io, vedi, vorrei sposare Elisa.Ottima scelta, mia sorella è una magnifica donna di casa e sarà sicuramente una brava moglie. Ma, hai parlato con lei?No, perché non si lascia avvicinare.Elisa è scontrosa, lo so, ma se vuoi glie ne parlo io; vediamo se accetterà. Mi faresti un grande favore.Facciamoci sopra una bella bevuta, e viva gli sposi, per Bacco! – Così, i due giovani brindarono come se il matrimonio fosse cosa fatta.

    Elì, ti tengo una bella notizia. – Disse Bruno rientrando a casa quella sera, mezzo alticcio con il viso più scavato del solito e gli occhi gialli da gufo, che luccicavano d’alcol. Elisa, i capelli raccolti dentro un fazzoletto a fiori, era intenta a sventolare il fuoco vicino al camino con un ventaglio di piume di gallina per farlo accendere meglio e cucinare la cena. Si voltò con il ventaglio in mano e disse: Notizia di ubriaco è senza serietà.Smettila con questa storia! Mi sono fatto qualche bicchiere con Lisandro, ma non sono ubriaco.Sentiamo di che si tratta. –Disse lei scuotendo la testa. –Lisandro ha intenzione di sposarti, è un brav’uomo, ci ha pure un posto fisso al comune, con lui non ti mancherà nulla. Almeno mangi tu, e mi porti pure qualche cosa da casa tua. Va via di qui, vattene da questa miseria! Sposalo, senza pensarci due volte, che io mi arrangio, corpo di un cane!Certo che lo sposo, almeno non è uno che si ubriaca come te. – Rispose Elisa senza esitazione, lasciando Bruno stupefatto.

    Elisa, non aveva esitato a prendere la decisione di sposare Lisandro, perché pensava di essere rimasta sola al mondo, orfana ormai di madre e padre. Le due sorelle maggiori erano partite per l’ America senza scrivere neppure un rigo da un anno, e forse si erano dimenticate di lei. Sua sorella Amanta, rimasta in paese, era troppo malata per occuparsi d’altro se non della sua salute, a dire il vero molto precaria. In quanto ai suoi fratelli: Domenico si era sposato e aveva i suoi figli, per cui era fuori discussione; Bruno cominciava ad essere un fardello troppo grande da sostenere, inoltre pensava di poterlo aiutare più da fuori che rimanendo a casa con lui. Quella notte, dormì sonni felici, pensando di andare incontro a una vita nuova insieme a Lisandro. Anche se non si era mai confidata con nessuno a causa della sua riservatezza, a lei piaceva quel ragazzone lungo, e secco che la guardava da lontano, che usciva presto la mattina e lavorava più di un mulo. –Così dovevanoessere gli uomini! – Mormorò appoggiando la testa sul cuscino.

    Due anni dopo, nel mese di maggio, Elisa e Lisandro si sposarono con una cerimonia semplice alla chiesa del Sacro Cuore vestiti da sposini poveri: Lisandro indossò una camicia bianca con un nastrino di velluto nero annodato davanti al colletto, una cosa frivola secondo lui, che acconsentì di portare solo per il giorno del matrimonio, e un completo nero simile a quello che usava tutti i giorni per il lavoro. Elisa si fece cucire un abito bianco di battista, tanto semplice da sembrare da prima comunione, e come unico ornamento fece applicare dalla sarta un colletto di pizzo intrecciato al tombolo, regalo di sua cognata. Sulla testa mise una coroncina di fiori freschi per fermare il velo di tulle trasparente, che le ricadeva sulle spalle lasciando intravedere la sua bella chioma castana, liscia come la seta. I due sposini giurarono fedeltà di fronte al parroco, di rimanere uniti nel bene e nel male per tutta la vita; poi si scambiarono gli anelli e scesero a braccetto i gradini della chiesa per ricevere gli auguri dei paesani radunati sulla piazza per lanciare qualche manciata di riso di buon augurio. Quella mattina, Bruno aveva accompagnato sua sorella all’altare tutto contento, ma una volta finita la cerimonia pianse di nascosto e si ubriacò più del solito pensando di essere rimasto veramente solo.

    Dopo il matrimonio, Elisa andò a vivere a casa di Lisandro con i suoceri, un fratello, e una sorella di lui; lavorò sodo come sempre, anche quando rimase incinta della prima figlia battezzata con il nome Clementina in onore alla madre di suo marito. Sebbene fosse stata abituata alla sottomissione e al sacrificio fin dalla prima adolescenza, virtù che trasparivano dai suoi occhi neri, dolci come quelli di una gazzella, capì fin dall’inizio che il suo matrimonio sarebbe stato un grave peso da sostenere a causa del carattere di Lisandro, uomo severo, tutto d’un pezzo, come si soleva dire. Questo marito autoritario esigeva che tutto fosse sempre in perfetto ordine: che i tre pasti giornalieri venissero serviti all’orario prestabilito; che tanto lui quanto i bambini andassero sempre impeccabilmente vestiti perché non si avesse a dire in paese che i figli di un impiegato comunale erano trasandati. Elisa si sfiancava lavando i panni in ginocchio alle fontane pubbliche in un luogo chiamato ‘belvedere’: d’inverno con la neve, con l’acqua che usciva quasi a ghiaccioli e le lasciava le mani livide, piene di geloni; e d’estate con il sole che le bruciava la testa. Poi c’erano quelle lunghe linee di panni stesi sul terrazzo da stirare con il ferro a carbone; cucinare per tante persone, e pulire una casa vecchia priva di ogni comodità. Finché c’era stata la sorella di Lisandro le aveva dato un aiuto con le faccende domestiche, ma quando Marietta si era maritata tutto il lavoro era ricaduto sulle spalle di Elisa, già in attesa del secondo figlio, il quale nacque pochi mesi dopo il matrimonio della cognata e fu chiamato Rinaldo; nome scelto da Lisandro, molto soddisfatto di essere diventato padre per seconda volta e soprattutto di un maschio.

    Malgrado la sua giovane età, Elisa cominciava ad avvertire i primi segni di stanchezza. Si sforzava di sopportare le fatiche senza fiatare, senza mai contraddire, con molta abnegazione, per amore della famiglia e del marito, ma era ovvio dal suo aspetto spento che qualcosa stava per crollare in lei. Eppure c’era una consolazione a tanta dedicazione, il suo cuore si riempiva d’allegria quando sentiva i paesani delle casette basse mormorare al passaggio dei suoi bambini, quando tornavano da scuola, la mano nella mano: Guardali come sono puliti e ordinati i figli degl’impiegati. Era proprio così, perché Elisa comprava a metraggi quel morbido panno tessuto dalle donne del paese nei lunghi mesi d’inverno -tra colpi di telaio, e bisbigli di rosario- per cucire gli indumenti dei figli; poi mandava a ricamare dalle monache i corpetti dei vestiti delle bambine a nido d’ape, e stirava i collettini con l’amido fino a lasciarli duri e immacolati: li amava tanto e voleva vederli sempre belli, a costo di qualunque fatica, di qualunque rinuncia. Per questo aveva sacrificato anche il tempo per andare a messa la domenica, ma non se ne vergognava, e ripeteva: Dio mi perdonerà!

    L’adolescenza di Elisa Mastrolindo era stata molto difficile. Aveva appena finito il secondo anno di scuole elementari, quando per via della miseria che c’era in casa aveva dovuto interrompere gli studi. Prima di compiere quattordici anni morì sua madre e questa tragedia precipitò la sua adolescenza in una grave crisi dalla quale non riuscì mai a riprendersi completamente; il suo strazio fu così grande che lasciò di parlare per lungo tempo. Non riuscì nemmeno a piangere, ma si chiuse in se stessa, e quel dolore le rimase dentro latente come una ferita cicatrizzata. Suo padre, che aveva tre figlie femmine più grandi: Irene, Giovanna, e Amanta; e due maschi, Domenico e Bruno, aveva dovuto, suo malgrado, mettere le ragazze a servire a casa di gente ricca di Catenensi, mentre padre e figli maschi si arrangiavano facendo qualsiasi lavoro che capitasse in paese, o in campagna, lavori precari, che purtroppo non bastavano a sbarcare il lunario. Irene e Giovanna, le sue sorelle maggiori, per sfuggire a tanta miseria andarono spose a due loro paesani e partirono per l’America subito dopo il matrimonio. Amanta invece sposò un uomo benestante, proprietario di un negozio di sale e tabacchi affianco al Comune, avrebbe potuto vivere comodamente, ma in seguito a un parto andatole male il suo ventre si ammalò e si gonfiò costringendola a letto per molti anni con molto dolore fino alla sua morte.

    Elisa, ancora troppo giovane per il matrimonio rimase lungo tempo a servizio a casa dei Vasci, ed a prendersi cura della casa dove viveva con i suoi. Pochi anni dopo, anche il padre morì di stenti e di dispiacere lasciandola sola con i fratelli. Domenico, soffriva di frequenti crisi depressive e continuò a star male anche dopo essersi sposato, mentre Bruno molto sensibile e senza un’arte in mano aveva corteggiato a lungo una ragazza del luogo, la quale non volle sapere nulla di lui perché non aveva un lavoro stabile. Dopo questo rifiuto, cominciò a bere di nascosto. Quando tornava a casa su di giri incontrava lo sguardo scrutatrice di Elisa: "Sei stato di nuovo a

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