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Vedere il Pensiero. Breton, Artaud, Tzara
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Vedere il Pensiero. Breton, Artaud, Tzara

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Visione o racconto? I testi di Breton, Artaud e Tzara non cessano di sollecitare l’immaginazione dei lettori. I saggi di questo volume analizzano alcuni tra i maggiori testi del Surrealismo, cercando di ricostruire la coerenza delle metafore e delle analogie degli autori più attivi dell’Avanguardia francese tra il 1919 e il 1935. Attraverso dei percorsi in parte divergenti e in parte convergenti, emerge un insieme di immagini ricorrenti – il cerchio, la linea, il ventaglio, l’albero, il corpo – elaborate dai tre autori in modi differenti, ma con sullo sfondo alcune preoccupazioni costanti: è possibile vedere il pensiero? Lo si può vedere assumere delle forme riconoscibili? Le forme del pensiero somigliano alle forme della natura? Che rapporto c’è tra corpo e pensiero, tra forme ‘pensanti’ e movimento?
LanguageItaliano
PublisherSette Città
Release dateDec 13, 2010
ISBN9788878534032
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    Vedere il Pensiero. Breton, Artaud, Tzara - Massimo Blanco

    I

    LA DISTANZA

    Corsaire Sanglot […] s’éloigne d’un quartier si paisible que le rêve y devient réalité. Son chemin est celui de la pensée, fougère à queue de paon¹.

    Questo passo di Robert Desnos risale al 1927 ed è tratto dal romanzo erotico La liberté ou l’amour! L’autore vi afferma con assoluta naturalezza che il cammino di un personaggio di nome Corsaire Sanglot tra gli isolati di un quartiere è identico a quello seguito normalmente dal pensiero. Desnos appone di seguito una metafora al cammino – la felce (fougère) – specificando in più che essa è dotata della figura svasata di una coda di pavone.

    Se il pensiero coincide con un girovagare casuale tra i blocchi abitativi che chiudono la città nelle squadrature di un sistema di strade, vie e boulevards, perché mai quel muoversi tra angoli rigidi dovrebbe avere la figura di una ‘felce a coda di pavone’, entrambi emblemi di un ‘ventaglio’ aperto? Se anche la felce e la coda di pavone hanno la stessa forma, ed è per loro caratteristico far vedere una ramificazione che si apre da un focolaio radiale o da uno stelo (ove con fougère si intendesse la foglia della pianta), non si arriva a capire del tutto quale tratto comune possa giustificare l’associazione tra il muoversi in uno spazio scandito da volumi quadrangolari e il ventaglio, tenuto anche conto del fatto che il personaggio di Desnos si allontana da un quartiere pacifico e ipnotizzante dove il sogno diventa realtà, il che lascia intendere che egli si stia allontanando da uno spazio meno regolare e squadrato.

    Perché mai sembra non vi sia alcuna differenza tra l’irradiare e il muoversi tra le vie ortogonali quando Corsaire Sanglot riguadagna la realtà urbana nella sua brutalità e, come se non bastasse, per quale ragione camminare nello spazio della città dovrebbe essere identico all’analogo ‘cammino’ del pensiero? Forse il pensiero ha la forma di un ventaglio? Eppure questa immagine, poco frequente in Desnos, registra invece un’alta frequenza nei maggiori testi del Surrealismo. Essa si trasforma con grande versatilità, si converte in molte analogie. Diventa foglia, ramificazione, albero, estuario, ventaglio, imbuto, bouquet, e tuttavia non le capita di perdere il suo significato: quello di equivalente visivo di un pensiero in movimento. Per esempio, in Artaud si può leggere:

    L’éventail ouvert domine une pyramide de cimes, un immense concert de sommets².

    Qui il ventaglio si sovrappone a un ritmo di rilievi paralleli in un indefinito orizzonte interiore. In Tzara, invece, la forma a ventaglio è la forma della neve che cade, sicché la svasatura è connaturata o concomitante alle linee gravitazionali verticali:

    La neige tombera bientôt sous forme d’éventails en plumes d’autruche³.

    Certo, si potrà considerare in un primo momento l’immagine del ventaglio come un residuo della scena oggettuale simbolista, una citazione dei tre famosi Éventails di Mallarmé. Si potrà anche dire che essa non porti con sé quel tratto di preziosa contingenza che l’accompagnava in Mallarmé, e che anzi i surrealisti la chiamino in causa proprio per toglierle il significato di oggetto su cui scrivere versi in circostanze galanti e in assenza di carte e taccuini. Si dirà, infine, seguendo Sanouillet e altri⁴, che tale immagine è tutt’al più uno dei tributi che i testi dell’Avanguardia francese accordano a una tradizione letteraria alla quale ci si vuole in parte riallineare a conclusione della fase dadaista e anarchica, insomma un tributo di continuità, un segno di rinuncia alla rottura. E se anche si sostenessero argomenti simili, allo stesso modo non si arriverebbe a dar conto della somiglianza tra il reticolo ortogonale delle strade su cui si muove il corpo, obbligato a rinunciare a percorsi obliqui tra i volumi dei palazzi, costretto ad adeguarsi ad angoli e gomiti, con la svasatura radiale della foglia di felce o della pianta ‘a coda di pavone’.

    Probabilmente il nodo della questione sta proprio in quell’emergere della svasatura a dispetto della struttura simmetrica, squadrata e ortogonale, in cui si incammina il soggetto inurbato. Inutile tuttavia voler insistere su questo punto specifico, ossia chiamare in causa le coordinate ideologiche della lotta contro la ragione strumentale, prendendo la struttura viaria come una delle manifestazioni della razionalità cui ci si oppone con tanta forza, e tentare per questa via di giustificare le ragioni di un’inconciliabilità che, in tal caso, minaccerebbero di sciogliersi in argomentazioni davvero poco utili. Né sarebbe sufficiente invocare una delle radici coeve dell’ideologia metaforica del Surrealismo, ossia la nota formulazione di Pierre Reverdy sulla genesi e sulla natura dell’immagine:

    L’image est une création pure de l’esprit. Elle ne peut naître d’une comparaison mais du rapprochement de deux réalités plus ou moins éloignées. Plus les rapports des deux réalités rapprochées seront lointains et justes, plus l’image sera forte – Plus elle aura de puissance émotive et de réalité poétique…

    Che Breton la citi nel 1924, nel primo Manifesto del Surrealismo, non autorizza a leggere la contraddizione del testo di Desnos come un’inconciliabilità ‘protocollare’. Sarebbe d’aiuto invece interrogarsi ancora sulle implicazioni visive immediate di quella squadratura urbana: essa è fatta di linee parallele e direzioni ortogonali, di incroci prevedibili, più raramente vi intervengono curve; né la si può dire estranea a un’ontologia per così dire sommaria della natura. Per esempio, a causa della forza di gravità, i corpi cadono su linee verticali e parallele, e anche la pioggia e la neve, canonici contorni ottocenteschi della noia e dello spleen, vengono giù su linee parallele.

    E se Breton vorrà ironizzare su un ritmo di linee troppo affine alla divinità («l’ennui, les belles parallèles, ah! que les parallèles sont belles sous la perpendiculaire de Dieu»⁶), altri, come Tzara e Artaud non saranno insensibili ai fasci di linee perpendicolari («l’ultra-violet de tant de voies parallèles»⁷), e non tarderanno a seguirlo, aggiungendo varianti interessanti e significative, non limitandosi solo a contribuire alla parte ‘debole’ del problema, cioè al versante della lotta per la libertà soggettiva, nello sforzo di contenere una razionalità oppressiva. Il ‘parallelo’ è però una forma da combattere non solamente sul piano ideologico. Ma basta a giustificare una tale ostilità affermare che il verticale rimanda a un solco fuorviante e ingannevole, quello dei protocolli positivistici, del dogma, della superstizione o del misticismo, oppure ci sono ragioni più sfuggenti e importanti alle quali converrebbe a questo punto farsi sensibili?

    Cosa avviene dunque nelle parallele? Accade che la distanza tra una linea e l’altra rimane costante, non varia affatto: le linee sono ravvicinate, forse troppo vicine. Cosa accadrebbe allora se si aumentassero gli intervalli di spazio costanti tra quelle linee, per esempio facendone sparire una oltre l’orizzonte? Ebbene, saremmo costretti a rinunciare a considerarle parallele: sarebbero talmente lontane da non essere più in relazione tra loro. È dunque la distribuzione delle distanze a rendere problematica la questione del ‘parallelo’. Aumentare le distanze intercorrenti – accentuarle – basterebbe a togliere di torno il problema della relazione spaziale tra due o più linee parallele. Eccoci al nodo della questione: i surrealisti sembrano voler forzare il parallelo, alterare le distanze tra le cose, specie tra quelle cose che possono considerarsi come materiali o prodotti della mente razionale.

    Che vi siano dunque fenomeni naturali analoghi a certe strutture razionali – la pioggia, gli alberi in fila, ogni elevazione cadenzata e ritmata, non ultima l’orografia terrestre, fatta di montagne e di valli, di picchi isolati con spazi profondi tra loro –, poco importa, poiché anche in quel caso, e lo si vedrà nei percorsi di analisi di questo volume, si chiamano in causa delle svasature a ventaglio e le si sovrappone ai ritmi del parallelo, procurando così di disturbare i nessi della ‘vicinanza’ e aprendo la via a contatti divergenti e relazioni oblique. Si cerca insomma di disporre intervalli di spazio che, man mano che si accentuano e si allargano le distanze, ossia le relazioni proprie della vicinanza, contribuiscono a mutare significativamente il senso di quelle relazioni, anche sul piano temporale ed emotivo.

    Come non ripensare a un famoso precetto di Zarathustra⁸?

    Plus haut que l’amour du prochain se trouve l’amour du lointain et de ce qui est à venir. Plus haut encore que l’amour de l’homme, je place l’amour des choses et des fantômes. [89]

    Il titolo del discorso di Zarathustra è appunto «De l’amour du prochain». Non vi si fa riferimento solo al ‘prossimo’, all’altro uomo, al soggetto metafisico con cui identificarsi e sul quale calibrare e regolare la propria eticità. Il prossimo è anche una semplice relazione spaziale con qualcosa di vicino. Il remoto, il futuro, le ‘cose’ e i fantasmi di Zarathustra sono invece tutte coordinate di una lontananza che può e deve soppiantare il ‘prossimo’. Zarathustra non manca occasione di dirsi favorevole a inserire una distanza tra sé e ciò a cui aspira. E quel violento volersi sottrarre alla prossimità emerge anche nel noto episodio della caduta del funambolo – nel Prologo⁹ del libro di Nietzsche – quando questi, trovandosi appunto con il suo bilanciere sulla corda tesa e concentrato nell’atto di attraversarla, vede venirsi incontro un personaggio variopinto che lo scavalca con un balzo dopo averlo dileggiato e ne provoca così la caduta e la morte. Il prossimo è il primo a fare un balzo ed è già lontano. Sono noti vocaboli e locuzioni di quell’irriducibile propensione al lontano: la transizione, il superamento, il ponte, l’arcobaleno, l’altra riva, la freccia scoccata verso un obiettivo tanto distante nello spazio quanto nel tempo.

    Ma, a questo punto, perché non valutare quel precetto eversivo al di fuori dell’ideologia del Superuomo? Dal momento che i tre autori presi in esame nelle pagine che seguono sono notoriamente buoni frequentatori di Nietzsche¹⁰, perché non prendere in considerazione alcune conseguenze del rifiuto del prossimo (e di quell’allungarsi delle distanze sullo spazio) sul piano dell’arte e della rappresentazione?

    Apollinaire, per esempio, altro nume dell’Avanguardia francese, e di certo non solo per avere ideato per primo e applicato l’aggettivo ‘surrealista’, aveva sfruttato quell’argomento nella sua analisi del Cubismo, teorizzando appunto che il passaggio dall’arte greca all’arte moderna consistesse nell’aggiunta di una Quarta dimensione¹¹ – quella dell’infinito, dello spazio vastissimo e dell’universo – nuove frontiere verso cui l’arte tende, indicandone una tensione a espandersi sullo spazio e sul tempo che la distoglie in maniera definitiva dalla nobile corporeità dell’arte classica.

    Per Apollinaire, l’arte è un focolaio di traiettorie che si spingono con intensa forza verso limiti che potrebbero non riuscire a raggiungere: è quasi una sfida ontologica per il corpo in movimento. La traiettoria è pertanto qualcosa che si oppone al parallelo: essa è spesso una traiettoria obliqua, un solco divergente, una via che non sa tenere bene conto dei confini tra le forme, proponendosi piuttosto di raggiungere punti e obiettivi lontani, forse troppo lontani perché li si possa ancora considerare come obiettivi.

    Rimanendo ancora a Zarathustra, ci si imbatte nei passi di seguito trascritti:

    J’ai suivi ce qui est vivant, je l’ai poursuivi sur les grands et sur les petits chemins, afin de connaître ses coutumes. Lorsque la vie se taisait, je recueillais son regard sur un miroir à cent facettes, pour faire parler son œil. Et son œil m’a parlé. [157]

    Et voici ce que j’appelle l’immaculée connaissance de toutes choses: ne rien demander aux choses que de pouvoir s’étendre devant elles, ainsi qu’un miroir aux cent regards. [170]

    Il ‘vivente’ è un corpo in corsa. Si muove velocemente sulle innumerevoli vie dello spazio; lo si deve inseguire e rincorrere per arrivare a conoscerlo. Non appena raggiunto, Zarathustra ricorre allora a uno specchio che dovrebbe ‘raccogliere’ le parole dell’occhio della vita. La vita è colta nel suo tacere; essa parla tuttavia attraverso il suo occhio riflesso da uno specchio sfaccettato, che appunto apre le sue faccette in tutte le direzioni possibili per catturare ogni suo istante di silenzio. Il secondo frammento riferisce ancora di uno specchio sfaccettato che ha assorbito completamente lo sguardo della vita. Esso è ora uno sguardo moltiplicato capace di irradiare all’infinito la propensione percettiva dell’io.

    Volendo tracciare una piccola ‘genealogia’ della vista, dovremmo pensare che essa è dapprima la frammentazione in riflessi di un occhio sulle faccette di uno specchio multiplo, e che poi il riflesso moltiplicato dell’occhio diventa a sua volta un occhio multiplo capace di guardare le cose nella loro completezza, mettendo in opera atti di conoscenza ‘immacolati’. Cosa penseremmo se lo specchio di Zarathustra fosse un pattern del Cubismo – anzi, una sua speciale definizione, suscettibile di evolvere in accordo con il rifiuto del ‘prossimo’? E la tecnica del collage potrebbe lo stesso sopportare una tale definizione.

    Si rilegga un passo del pittore cubista Albert Gleizes, per il quale l’opera d’arte, e nello specifico, l’opera cubista, è un organismo che tende a compattarsi al centro della tela, su una verticale per così dire ‘organica’:

    Plus on suit l’évolution de ce mouvement régénérateur, plus on constate une concentration des compositions vers le centre de la toile. […] Degré par degré l’action se ramasse; à l’organisation selon la répartition élémentaire du damier succède une organisation gravitant autour d’un axe, une sorte d’embryon d’organisme apparaît. Un nucleus semble provoquer un développement d’organes¹².

    Nel passo di Gleizes, il corpo vivente inseguito da Zarathustra si arresta davanti a uno specchio sfaccettato, si confonde con esso e va ad occupare il centro della tela. Esso si staglia anche come modello di una organizzazione simmetrica e organica di un oggetto; l’oggetto rappresentato dal cubismo è insomma un corpo, o deve adeguarsi allo sviluppo organico delle parti di un corpo.

    Esiste pertanto una struttura tipica del dipinto cubista che risponde ad altrettanti modelli minerali, vegetali e organici, come se coesistessero due livelli, capaci di integrarsi del tutto, di coincidere senza troppi scarti: quello dell’oggetto rappresentato e quello delle formazioni organiche della natura, non ultimo il corpo:

    La structure interne du tableau est de même nature que toutes les formations naturelles, minérales, végétales et organiques. L’œuvre d’art […] a un squelette qui est étayé par les grandes directives des lignes essentielles, des organes qui sont la division de la surface et qui sont dépendants les uns des autres, une chair qui est la couleur, une pulpe qui est la matière. Le corps de la composition qui se développe autour d’un noyau générateur est fermé comme un corps, comme une fleur, comme une cristallisation¹³.

    La rappresentazione cubista rende l’oggetto un corpo. Ma può anche accadere che un tale specchio vada in frantumi, che gli sguardi di cui è capace ogni singola faccetta si separino, che insomma si distanzino, spargendo ovunque focolai percettivi indipendenti, tessere speculari divergenti, lontane tra loro nello spazio. Quelle faccette, almeno ricostruendo il pensiero di Zarathustra, sono insieme sguardi e specchi – occhi e riflessi, percezioni e immagini, spazi passivi e attivi – nuclei cioè dove l’apertura ricettiva si confonde con il balenare delle intenzioni soggettive. Ebbene, non mancheranno occasioni nei percorsi di questo volume in cui ci si imbatterà in vetrate infrante, in vitraux schiantati e sparsi sullo spazio, in frammenti di vetro colorato in movimento, talora nascosti sottoterra o dentro il mare, e che non sempre si vorrebbe ricomporre, riaggregare, cui raramente si pensa di restituire la primitiva compattezza.

    Ne incontreremo in Breton, dove lo specchio è fatalmente trasparente, in Artaud, e soprattutto in Tzara, dove si ripete la scena dell’occhio moltiplicato in sguardi indipendenti. Emergerà allora qualcosa di diverso rispetto alla compattezza dell’occhio-diamante di Zarathustra: le faccette sensibili di quello specchio si troveranno a far capo a strutture differenti rispetto a quelle organiche del corpo. Esse dovranno aprirsi, allargarsi sullo spazio, distanziarsi, manifestare in qualche modo il loro ‘rifiuto’ della prossimità organica, adeguarsi cioè al ‘protocollo’ espansivo della Quarta dimensione indicato da Apollinaire.

    Si tratterà allora di cogliere nell’albero e nelle strutture ramificate della vegetazione, su cui si raccolgono non solo frammenti di vetro e altri elementi isolati e disorganici, ma anche gli uccelli, per Zarathustra stimati ‘nemici’ della forza di gravità, altrettante forme in cui si incarna la distanza, dove si gioca la sfida spaziale al senso, il progetto cioè di un’estetica fondata sulla distruzione dei nessi della prossimità. Ciò che si posa sull’albero – foglie, frutti, uccelli, frammenti di vetro, carte da gioco o altro – si adegua così a una strategia di allargamento del compatto, di disarticolazione anti-cubista delle forme organiche. Il senso si allunga sugli intervalli, in certo modo si sottopone a un disegno di tensioni che lo alterano, indebolendone la forza e i rapporti interni. Ma, appunto, ciò che il senso ‘subisce’ è un guadagno sul piano della contraddizione e della vita.

    Da ciò nasce l’immagine contraddittoria – la distanza aperta del senso, l’accostamento inconciliabile – il ‘ponte’ nietzschiano verso un altro e differente orizzonte di idee e di concetti. Ecco dunque una possibile soluzione alla similitudine irrisolta di Desnos da cui siamo partiti. La svasatura – la struttura radiale è vicina all’albero: essa immediatamente corregge il ‘parallelo’, subito contesta, con la sua forma, la forza di gravità e anche la natura che a quella adegua tutti i suoi fenomeni. Sovrappone cioè l’obliquo e il convergente al parallelo, rimanda alla distanza come a una traiettoria non gravitazionale, ossia promuove una via affatto intellettuale, innaturale, non vitale, la stessa che appunto è adottata dal pensiero.

    Vedere l’albero o il ventaglio coincide con il vedere il pensiero, di modo che si assiste alle sue ‘scelte’ ontologiche, ai movimenti con cui esso sottopone il senso alla prova dello spazio, esponendolo alla sfida del remoto e del lontano. E l’apostolato surrealista dei Champs magnétiques non è che il calco delle frenetiche intenzioni di Zarathustra:

    Nous nous étoilons en d’incompréhensibles directions, parmi les grandes veines bleues du lointain¹⁴.

    CAPITOLO II

    BRETON: IL CORPO SENZA ARTI

    2.1 Fori, polveri e cerchi

    Nei Champs magnétiques¹ del 1920, primo atto non ufficiale della scrittura automatica surrealista, Breton e Soupault sembrano mettere in dubbio la coesione, la solidità e la compattezza comunemente attribuite alla materia. Vari reperti testuali suggeriscono l’opportunità di procedere a una verifica sensoriale del continuum tangibile dello spazio. Alcune superfici salde e omogenee, o quantomeno dall’aspetto stabile e continuo, se esposte alla vista in talune circostanze, in altri casi promettendosi a eventuali controprove tattili, appaiono interessate da una diffusa ‘porosità’. Quest’ultima non è una caratteristica subito percepibile, né la si può intendere come alcunché di scontato sul piano della tessitura microscopica del concreto. Piuttosto è qualcosa di nascosto, con cui si viene a contatto per via accidentale.

    Insidiosa e spesso impercettibile, la porosità potrebbe derivare sia da un’erosione originaria subìta dalla materia, sottoposta all’azione corrosiva di insoliti «parasites minéraux» [CM; 69], sia conseguire da una naturale tendenza delle superfici a rarefarsi in alcuni punti, cioè dallo spontaneo indebolirsi di sezioni solide discretamente ampie. Dalla morte e dal declino della vita si liberano armonie musicali e suoni gradevoli: «La

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