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Anna. Una vita in un mondo che non c'è
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Anna. Una vita in un mondo che non c'è
Ebook328 pages3 hours

Anna. Una vita in un mondo che non c'è

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Quello di Vittoria Bacher è un romanzo di formazione almeno quanto lo è di deformazione: la protagonista già da bambina ha cognizione di ciò che vorrebbe trovare di buono e di giusto nella realtà e crescere per lei significa solo scoprire, ogni giorno di più, quanto la realtà ne sia lontana.
È in parte il resoconto di una disillusione.
LanguageItaliano
Release dateJan 21, 2016
ISBN9788868223779
Anna. Una vita in un mondo che non c'è

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    Anna. Una vita in un mondo che non c'è - Vittoria Bacher

    VITTORIA BACHER

    Anna

    una vita in un mondo

    che non c’è

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    Isbn: 978-88-6822-377-9

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

    SitI internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Alla mia famiglia

    Al mio adorato marito

    A tutti coloro che vivono le stesse angosce

    della protagonista Anna

    perché imparino a liberarsene o a viverle

    con leggerezza che, come scrive Calvino,

    "non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto,

    non avere macigni sul cuore"

    PREFAZIONE

    Ne Il mondo di Anna, che si estende soprattutto nella dimensione del tempo, scorrono molte persone, molte emozioni, molte situazioni difficili, vissute sempre sullo sfondo di sentimenti saldi e di affetti sicuri.

    Affetti, appunto, che in qualunque frangente mettono in salvo, proteggono, supportano, costituiscono un mondo nel mondo, un polmone di positività in un contesto morboso.

    Affetti che costruiscono fede, quella che da sempre accompagna Anna e che, oltre che a esprimersi nella sfera religiosa, si esprime in quella civile: è la fede nelle peculiari qualità di quel mondo degno di essere, di cui la protagonista, a partire dall’infanzia, si sente cittadina e ambasciatrice, a dispetto della mediocrità e della violenza disseminate nel mondo reale.

    Anna è a pieno titolo una guerriera della luce, secondo la bella definizione di Paulo Coelho, che si scontra con le varie incarnazioni dell’ingiustizia: i concorsi truccati, la malasanità, l’opportunismo che genera connivenza e fa da supporto al peggior esercizio di potere, le incongruenze del sistema scolastico, l’insensibilità diffusa, l’ingratitudine, l’irresponsabilità, la crudeltà verso gli animali.

    Si tratta di una lotta ostinata, che prevede dei costi: la solitudine, ad esempio, che ricade addosso a chi, non essendo acquiescente con lo stato di fatto, si attira antipatie e accuse varie; l’indignazione e la rabbia perdurante dinanzi alle storture; talvolta un senso di sconfitta difficile da sostenere.

    Quello di Vittoria Bacher è un romanzo di formazione almeno quanto lo è di deformazione: la protagonista già da bambina ha cognizione di ciò che vorrebbe trovare di buono e di giusto nella realtà e crescere per lei significa solo scoprire, ogni giorno di più, quanto la realtà ne sia lontana. È in parte il resoconto di una disillusione.

    Ma Anna non manca di alleati: Carlo, Clara, Perla, Michele ma soprattutto Angelo, il marito a cui la lega un’alleanza interiore, una lealtà che non ha bisogno di esprimersi in discorsi.

    Quando ad Angelo si prospetta la possibilità di ottenere, grazie alla raccomandazione di un politico, un avanzamento nella lista d’attesa per un intervento chirurgico che gli avrebbe salvato la vita, Anna non ha dubbi sulla risposta del marito, che infatti rifiuta la possibilità di salvarsi a discapito di un altro malato.

    Personaggi come Anna e Angelo appaiono alieni rispetto alle leggi della comune degradazione, eppure nemmeno loro sono privi di qualche ombra, che li rende reali: Carlo ama la caccia, Clara si mostra eccessivamente severa nei confronti del primo innamoramento della figlia, la stessa Anna cade in una dipendenza, peraltro molto attuale, come lo shopping compulsivo.

    L’unico angelo a trecentosessanta gradi è il personaggio che porta quel nome e che, così le sue vicende mi suggeriscono, forse ha ali interiori troppo ampie per poter vivere raso-terra nella realtà.

    Ma la protagonista trova infine il suo approdo, la sua buona strada per attraversare la vita e cioè il mestiere di maestra, per cui si accolla sacrifici e trasferimenti. Esso dà linfa e ottimismo alla sua vita e le consente di andare oltre le tante perdite e i non voluti abbandoni.

    Più che fare la maestra, Anna, che non ha avuto figli propri, è maestra e lo è già da quando stava lei stessa seduta nei banchi di scuola, in virtù di quel codice sentimentale di cui dicevo, e di quelle competenze dell’anima che sono in grado di proiettare la speranza oltre la disillusione.

    Essere maestra è un vero privilegio, un dono: significa poter cambiare la pasta morale del mondo, agendo educativamente su chi ancora è puro e incontaminato.

    Maria Rita Parsi

    La famiglia

    Anna

    Il malessere che avrebbe accompagnato Anna nel corso dell’intera esistenza, come un fedele e inseparabile compagno di viaggio, cominciò a manifestarsi all’età di quattro anni.

    Una grigia mattina di novembre della metà degli anni Quaranta, in un paesino dell’Abruzzo, quell’episodio sarebbe rimasto impresso in modo indelebile nella sua memoria.

    Nel cielo cupo, le nuvole sembravano rincorrersi, sospinte dallo stesso vento gelido che entrava con prepotenza nella stanza disadorna, attraverso il legname marcito della finestra, logorato dall’usura.

    Il paesaggio si adattava perfettamente al suo stato d’animo.

    Tutto restava sospeso nella tetra cornice di un tempo di guerra.

    Uno stato di tensione, un senso di pericolo, impregnavano di tristezza il lento trascinarsi dei giorni e si infiltrava nell’animo di Anna, mediato dalla sensibilità e dall’arte di vivere dei suoi genitori.

    Anna intuiva che la sua vita, la sua casa, le condizioni della sua famiglia, non erano quelle che avrebbero dovuto essere.

    Quella mattina aveva chiesto e ottenuto di restare a casa. Clara, sua madre, l’aveva accontentata senza difficoltà, senza chiederle perché.

    In fondo, era una cosa normale.

    Era una donna forte e determinata, ma non austera.

    D’altro canto, la sua secondogenita non era affatto una bambina capricciosa, tutt’altro.

    Per la sua età era oltremodo matura e coscienziosa.

    Talvolta il suo sguardo, pronto a scrutare e assorbire avidamente la realtà circostante, si rivelava circonfuso da un alone di tristezza.

    Come in quel momento in cui, rannicchiata in un angolo, osservava Carlo, il suo adorato papà, che si preparava ad uscire di casa.

    Anna lo divorava con i suoi grandi occhi azzurri pieni di amore.

    Appoggiando alternativamente i piedi su uno sgabello, Carlo stava sistemando i pantaloni alla zuava negli stivali ben lucidati.

    Non era infatti libero di decidere cosa indossare al mattino e in quel particolare periodo si doveva indossare per forza la divisa.

    Amava, ad ogni modo, curare il proprio aspetto.

    La monotonia dell’abbigliamento non faceva che esaltarne il fascino, non dovuto alla divisa, bensì al suo carisma che un’appropriata cognizione di sé, maturata nel corso del tempo e degli eventi, gli conferiva.

    Anna, da parte sua, non poteva che associare la divisa del padre alla sua imminente assenza.

    Ogni volta che lo vedeva vestito in quel modo, capiva che di lì a poco si sarebbe allontanato, li avrebbe lasciati, controvoglia, ma senza possibilità di scelta.

    Era estremamente felice di rivederlo, ma sapeva che non sarebbe durato a lungo.

    Pochi giorni al massimo, poi di nuovo quell’espressione affranta sul volto dei genitori, quelle parole non dette, quella sofferenza cui non davano voce, ma che restava tangibile nell’aria come una densa nebbia.

    Carlo occupava un posto di rilievo nella scala sociale, ma non era questo che avrebbe reso Anna orgogliosa di essere sua figlia.

    Anna si sarebbe creata, crescendo, una propria personalità, decisa e forte, capace di guardare più alle sostanze che alle forme.

    In effetti, il suo papà era unico, semplicemente, se ne rendeva conto già all’epoca.

    Non perché fosse indiscutibilmente bello, ma perché emanava una forza rassicurante, qualcosa che al momento lei non era in grado di definire, ma che avvertiva già in misura maggiore rispetto ad altri.

    Di tanto in tanto, un timido raggio di sole sfuggiva all’oppressione delle nuvole e penetrava nella stanza, creando una sorta di aureola dorata attorno alla figura di Carlo, per poi scomparire subito dopo.

    Un presagio agli occhi di Anna.

    L’espressione seria sul suo viso e la maturità del suo sguardo fisso sul padre in quel momento creavano un contrasto impressionante con l’aspetto sbarazzino che avrebbe dovuto darle l’abitino chiaro dalla stampa fiorata e l’enorme fiocco in tinta che Clara le aveva appuntato tra i capelli.

    Dal cortile giungevano le grida festose dei bambini che si divertivano a rincorrere le foglie sospinte dal vento in ogni direzione, ricoprendo il suolo di morbidi tappeti.

    Ogni tanto, le raffiche sospingevano il fogliame ai margini, formando tanti mucchi variopinti.

    Anna ebbe un sussulto: corse alla finestra e si fermò a guardarli divertita, partecipando da lontano, per qualche istante, alla gioia dei suoi compagni della scuola materna.

    La maestra si affannava nel tentativo di raccogliere i suoi piccoli per guidarli nella scoperta della stagione autunnale.

    Ci voleva sempre del tempo prima che si stancassero di correre e lei potesse finalmente riuscire nel proprio intento.

    Quell’improvvisa esplosione di suoni e colori riuscì a strappare per qualche istante Anna al flusso dei suoi pensieri.

    Visti dalla finestra, i grandi fiocchi colorati, svolazzanti come farfalle dalle ali dispiegate, adagiati sulle testoline delle bambine, creavano un colpo d’occhio impressionante.

    In quel momento Anna avrebbe voluto essere con loro.

    Ma immediatamente, come respinta da una forza a lei estranea, tornò ad assumere una posa seria e ad acquattarsi nel suo angolino, lasciando che la sua mente venisse attraversata da pensieri più grandi di lei.

    Se il mio papà muore e mi lascia, come farò senza di lui? No, il mio papà non deve morire mai.

    Non era la prima volta che simili tormenti la attanagliavano.

    Frattanto Carlo, sistemati con cura i lunghi lacci degli stivali, piegandosi sulle ginocchia, spalancò le braccia per accogliere la sua bambina.

    Era un gesto consueto, il saluto che usavano scambiarsi quando si congedavano per poi ritrovarsi tra quelle mura domestiche.

    Come se non aspettasse altro, Anna gli corse incontro e, stringendolo forte a sé, lo tempestò di baci come se si aspettasse di vederlo per l’ultima volta, piuttosto che salutarlo come sempre prima di un nuovo viaggio.

    Carlo rimase sorpreso dall’intensità di Anna.

    Era avvezzo a simili manifestazioni d’affetto da parte della sua bambina, ma questa volta percepiva qualcosa di insolito nel suo atteggiamento.

    Non immaginava, però, quali pensieri spiacevoli si affastellassero nella sua testolina rendendola inquieta.

    Si trattenne un minimo più del solito con lei per rassicurarla.

    Il suo istinto paterno gli suggeriva che era di questo che lei aveva bisogno.

    Poi salutò la moglie con un bacio e si allontanò da casa, augurandosi di farvi ritorno al più presto.

    Scomparsa la figura del marito dal suo sguardo, Clara raccolse i pochi indumenti da lavare e raccomandò ad Anna di sedersi in cucina per la colazione.

    Mise in tavola due tazze di alluminio con del latte caldo, un po’ di pane e qualche biscotto fatto in casa.

    Poi si affacciò alla finestra per chiamare Michele, che avrebbe dovuto essere già in casa a consumare la colazione prima di essere accompagnato a scuola.

    Ma Anna in quell’occasione non le obbedì prontamente, come era solita fare.

    Tornata nel suo cantuccio, aveva cominciato a singhiozzare silenziosamente, coprendosi il viso con le mani.

    Non vedendola arrivare, Clara la raggiunse.

    Possibile che non avesse sentito?

    O magari si era fatta male.

    O forse qualcosa le aveva procurato uno spavento tale da averla bloccata.

    Trovandola poi in quello stato, provò ad interrogarla con dolcezza, abbracciandola, ma senza esito.

    Anna non rispose alle sue domande.

    Non poteva rispondere.

    Non poteva dire alla sua mamma che soffriva per la paura di perdere il suo adorato papà.

    Era una paura tanto irrazionale quanto pressante.

    Ma era talmente radicata nel suo animo da non poter essere rimossa da alcuna argomentazione logica.

    No, non poteva rispondere a Clara.

    Sua madre ne avrebbe sofferto inutilmente e lei non avrebbe mai voluto arrecarle dispiacere alcuno.

    E non avrebbe neppure potuto offrirle alcun aiuto.

    Il suo era un sentimento imprigionato in una parte di sé talmente profonda che nessuno avrebbe potuto accedervi e alleviarlo.

    Tuttavia, Carlo era giovane e sano.

    Di indizi, che lasciassero presagire una tragedia imminente, nemmeno l’ombra, grazie a Dio.

    Allora, perché tutto questo dolore?

    La paura di perdere una persona cara – avrebbe imparato Anna in seguito – il terrore dell’abbandono, sono frequenti nei casi in cui un bambino abbia vissuto in prima persona eventi traumatici come una malattia, propria o di un familiare o un lutto improvviso.

    Ma Anna non aveva sperimentato alcunché di tutto questo.

    Per di più, lei era all’oscuro delle vicissitudini e delle disavventure che avevano segnato l’esistenza dei genitori.

    Era, tuttavia, come se una sorta di inconscio collettivo, familiare, avesse posto radici nel suo animo, costringendola a compiere un percorso di vita profondamente segnato da un’oscura sofferenza.

    Clara e Carlo, seppure nella precarietà della loro condizione contingente, si adoperavano in ogni modo affinché ai figli non mancasse di nulla.

    Pertanto, la madre in quel momento era ben lontana dall’immaginare quale tempesta stesse agitando il cuore di Anna.

    Non poteva sospettare che quell’inquietudine fosse in realtà uno dei primi sintomi di un disagio inizialmente confuso e indistinto, poi sempre più compiuto e consapevole, destinato a cristallizzarsi nel tempo in un malessere paralizzante.

    Un malessere che Anna avrebbe poi affrontato nella più totale solitudine e che sarebbe diventato, di lì a pochi anni, un definitivo maldivivere.

    Licia

    Carlo apparteneva a una famiglia dell’alta società romana.

    Carlo e Luigi, il primogenito, maggiore di lui di due anni erano figli della contessa Licia, discendente di un casato di antica nobiltà, e di Franco, un valente e affermato medico specialistico.

    La dimora di famiglia, notevole per dimensioni ed eleganza, risplendeva di una sobria raffinatezza.

    Dall’entrata principale, un ampio portone in legno finemente intarsiato, si accedeva a un disimpegno che accoglieva una cassapanca, una consolle, sul cui piano torreggiava un grande specchio contornato da una cornice dorata, e una cappelliera, tutti in stile barocco.

    Una serie di applique per l’illuminazione, disposte sulle pareti, conferivano un po’ di magia all’ambiente.

    I due accessi frontali nel cuore dell’abitazione erano indicati da una guida.

    Le camere erano disposte a semicerchio: entrando da uno dei due ingressi, era possibile attraversare l’intera casa per poi uscire da quello opposto.

    L’appartamento conteneva cinque camere da letto, di cui due riservate agli ospiti, tre stanze da bagno, un’ampia e luminosa cucina, l’immancabile biblioteca, un salotto rivestito in damasco giallo oro, e un grande salone. In questo, gruppi di divanetti e poltrone, disposti ad arte, permettevano agli ospiti di intrattenere conversazioni su argomenti eterogenei, mentre in un angolo spiccava un bellissimo pianoforte a coda in legno laccato.

    I pavimenti erano ricoperti di grandi tappeti antichi. Una quantità di quadri e arazzi, porcellane e cristalli, completavano l’arredamento.

    I ragazzi disponevano di uno spazio al coperto in cui ricevere gli amici. Nella bella stagione, potevano usare anche il vasto giardino.

    Licia amava immensamente il verde e si occupava personalmente dei fiori che vi aveva fatto piantare da un esperto giardiniere a cui ne aveva affidato, ma non delegato, la cura.

    Il magnifico tappeto verde del prato sempre tosato ospitava fiori di mille varietà, disposti in coloratissime, deliziose aiuole, e alberi di diverse specie.

    Il giardino era percorso internamente da vialetti ricoperti di fine ghiaia bianca e sovrastati dalle fronde degli alberi, disposti in lunghe gallerie verdi.

    Ma le meraviglie non erano finite.

    Le oasi erano protette dalla calura e dagli sguardi da una folta vegetazione e arredate di panchine e tavolini in cemento colorato.

    Licia soleva rifugiarsi in quegli angoli nelle giornate estive, per dedicarsi indisturbata alla lettura o al ricamo.

    Ogni mese Licia organizzava incontri intellettuali, cui erano invitate persone accomunate da un vivo interesse per la vita culturale.

    Non era nel suo stile ostentare la superiorità della propria estrazione sociale.

    Era una padrona di casa discreta e attenta, mai propensa a favorire gli ospiti più agiati.

    Tuttavia, non era disposta a transigere sulla buona educazione.

    Se alcuni dei suoi ospiti mostravano di esserne sprovvisti, allora potevano ritenersi immediatamente e definitivamente esiliati dal suo salotto.

    Ognuno di questi attesissimi eventi si concludeva in musica.

    Era la stessa Licia a intrattenere i convenuti con le sue eccellenti doti di pianista.

    Aveva ottenuto il diploma nella prestigiosa accademia di Santa Cecilia, con il massimo dei voti.

    Chiaramente, apprezzava molto la compagnia dei suoi ragazzi in simili occasioni.

    Ma, se Luigi si presentava prontamente di sua spontanea iniziativa, Carlo tendeva a sgattaiolare.

    Il confronto diretto con il fratello, in un ambito a lui non congeniale, non lo metteva propriamente a suo agio.

    In realtà, sin da giovani, avevano rivelato attitudini differenti.

    Luigi aveva ereditato il talento innato della madre e prometteva di diventare un eccellente musicista.

    Carlo non disdegnava la buona musica, ma la sedentarietà a cui era costretto dallo studio, entrava sistematicamente in contrasto con il suo temperamento e la sua natura dinamica.

    Per ciò, contrariamente al fratello, subiva le ore di lezione e di esercitazione cui si sottoponeva soltanto per non contrastare così apertamente la volontà materna.

    La contessa era una donna volitiva, con un carattere dominante.

    Difficilmente si lasciava ammansire quando era certa dell’inopinabilità delle proprie convinzioni, ed era altrettanto improbabile che, in casi del genere, si lasciasse convincere e tornasse sulle sue posizioni.

    Desiderava molto, sebbene non lo pretendesse, che i suoi figli si impegnassero negli studi musicali ed imparassero a suonare uno strumento.

    Possibilmente, in modo magistrale.

    Non concepiva le mezze misure.

    Sapeva che entrambi avevano le doti adeguate per raggiungere certi obiettivi.

    Licia era una donna decisamente fuori del comune.

    Come madre, vedeva bene l’enorme differenza di passione e diligenza con cui i suoi ragazzi si applicavano al pianoforte e, ciononostante, decise di concedere del tempo a Carlo.

    Probabilmente, anche progredendo più lentamente del fratello, si sarebbe reso conto di quanto il risultato valesse il sacrificio che gli veniva richiesto.

    Prima di arrendersi all’evidenza dei fatti, mise in atto ogni tentativo pur di persuadere il figlio minore a non demordere. Ma inutilmente.

    Carlo non sentiva come propria la passione che sua madre cercava di trasmettergli. E poi le imposizioni esterne avevano scarsa presa sul suo temperamento poco incline alla trattativa.

    Dalla madre aveva piuttosto ereditato sicuramente il suo carattere forte.

    Alla fine fu Licia a fare un passo indietro.

    Assidue frequentatrici dei salotti della contessa erano Martina, una giovane madre di famiglia, e sua figlia Luisa che era una ragazza fine ed elegante e godeva dell’ammirazione di Licia, non senza invidia da parte delle altre ospiti.

    Luisa era molto simile a Luigi per la sua sensibilità, ogusti e i modi. E, come lui, amava molto la musica.

    Erano subito entrati in sintonia e, in breve tempo, la loro amicizia si volse in qualcosa di più profondo.

    Il luccichio nei loro sguardi quando si ritrovavano vicini, con grande compiacimento da parte delle due madri, era inequivocabile. Entrambe non avrebbero potuto desiderare di meglio per i rispettivi figli.

    Carlo non era da meno rispetto a Luigi.

    Entrambi avevano ricevuto un’ottima educazione.

    La posizione che occupavano in società aveva fatto sì che alla loro formazione non fosse estranea una certa raffinatezza e quel tratto distinto che li avrebbe accompagnati lungo tutto l’arco, più o meno breve, della loro vita. Ma quanto al carattere, erano diversi come il giorno e la notte.

    Carlo frequentava con profitto l’istituto di ragioneria. Eccelleva soprattutto in italiano, ma si impegnava nello studio soltanto quanto necessario.

    Aveva, infatti, quella rara capacità di rendere al massimo col minimo impegno.

    Forte di questa consapevolezza, Licia continuava a sperare in un improvviso cambiamento nello studio del pianoforte.

    Un pomeriggio entrò senza preavviso nelle stanza in cui Carlo doveva eseguire gli esercizi assegnati.

    Passando là vicino l’eccessivo silenzio l’aveva incuriosita.

    Per un attimo, nel trovarsela innanzi all’improvviso, Carlo ebbe un moto di imbarazzo, che non sfuggì al suo occhio attento di madre.

    Be’, avrebbe almeno potuto dare un colpetto alla porta o una voce da fuori, solo per lasciargli il tempo di assumere una postura adeguata.

    Ma la consapevolezza di essere

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