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Ebook618 pages10 hours

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About this ebook

Con una lingua virtuosa, intrigante e soprattutto brutale, forte e decisa, l’autore ci conduce in quell’inferno in terra che è stata la guerra dei balcani. Con questo libro Stojanović ha vinto in Repubblica Ceca il premio per la miglior traduzione dell’anno e ha gareggiato con il Cimitero di Praga di Umberto Eco per il miglior libro dell’anno. Già tradotto in molte lingue, Var sarà presrto pubblicato anche in Spagna Germania e Regno Unito.
LanguageItaliano
Release dateNov 20, 2015
ISBN9788868811198
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    Var - Saša Stojanović

    Saša Stojanović

    VAR

    Èchos

    49

    Il libro è stato pubblicato con il sostegno del

    Ministero della Cultura della Repubblica di Serbia

    Ova knjiga je objavljena uz podršku

    Ministarstva kulture Republike Srbije

    Traduzione:

    Anita Vuco

    Revisione testo:

    Raffaele Magrone

    Correzione bozze e realizzazione grafica:

    Matteo Chiavarone & Cristina Loizzo

    © 2015 Edizioni Ensemble, Roma

    edizione digitale novembre 2015

    ISBN 978-88-6881-119-8

    Store on-line: http://www.wikibook.it/edizioni-ensemble/ 

    Visita il nostro sito: www.edizioniensemble.it

    direzione@edizioniensemble.it

    Edizioni Ensemble

    ISBN: 978-88-6881-119-8

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    MATTEO

    ​Amarcord

    ​L’avvento della ragione

    O sole mio

    Quo vadis

    ​Il sogno

    MARCO

    ​Nero e bianco

    ​Cosa?

    ​La grande apertura

    ​Guns & Roses

    ​Tombe la neige

    ​Voce fuori campo

    SULLA PAURA IN COMBATTIMENTO

    Una lezione di anatomia

    MARIA DI MÀGDALA

    ​Sex, drugs and...

    ​Il cortile benedetto ovvero

    ​La fattoria degli animali e altri più o meno addomesticabili esemplari

    ​La montagna incantata

    La amo con le orecchie

    LUCA

    ​Sui et cidere

    ​Aut aut

    ​Tour de trans

    ​Viaggio al termine della notte

    Mangiare Dio

    ​Il maestro e Margherita

    ​Madre Courage e i suoi figli

    GIUDA

    ​Il sole ingannatore

    ​The showtime

    ​Tre personaggi in cerca d’autore

    ​Le relazioni pericolose

    GIOVANNI

    Collana Èchos - ultimi titoli

    Saša Stojanović VAR

    traduzione di Anita Vuco

    ENSEMBLE

    Così parla il Signore degli eserciti:

    «Ora va’, sconfiggi Amalec,

    vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene;

    non lo risparmiare, ma uccidi uomini e donne,

    bambini e lattanti, buoi e pecore,

    cammelli e asini».

    Primo libro di Samuele, 15; 2-3

    MATTEO

    Esiste una morte dopo la morte – Ti avevo chiesto mettendo nella valigia la mantella con l’angelo ricamato all’altezza del petto, che mi servirà per il viaggio di cui non conosciamo né l’origine né la fine. Esiste una fine del regno celeste – avevo chiesto nuovamente. Su quale orecchio posso strillare e dire che anche l’immortalità è solo una maledizione, se addirittura Tu non sei pronto ad ascoltarmi – sussurravo di continuo questa domanda alla quale non mi aspettavo di ricevere la minima risposta e spingevo il pane azzimo nelle bisacce. Lo stesso che avevamo avuto per la cena quella volta. In vista delle festività, oppure quando ormai erano passate, non lo rammento più. Giovanni di certo lo ricorderà meglio di me; lui almeno ha vissuto abbastanza a lungo da raggiungere la vecchiaia.

    La verità è troppo pesante per una schiena sola. Se la carichi tutta quanta su te stesso non troverai più nessuno disposto ad alleggerirti. Prima di regalarla a qualcuno devi essere cosciente del fardello che comporta il tuo dono. Proprio per questo, nella capacità di dimenticare, è insita la benedizione. Ogni cosa si dilegua nell’oblio: i monarchi ingrati e il mio corpo bruciato, persino il sarcofago di ferro in cui mi rinchiusero prima di buttarlo nel mare, dal cui fondo l’alta marea lo tirò fuori e lo fece risalire fino al tempio che un tempo avevo fatto costruire. Desidero che una volta per tutte venga saldata ogni parete della mia bara. Padre, io sono morto da tanto tempo ormai, che Tu voglia ammetterlo o continui a negarlo ancora! – Lo ripeto uscendo per strada e lascio che la luce mi guidi.

    Conosco ogni minuscolo pezzo di terra su cui cammino. Consegnavo all’imperatore e tutti versavano a me. Lo so quanto può fruttare ogni pianta e avverto quando una pecora sta per generare dei gemelli. Ricordo la quantità di grano che deve essermi consegnata come imposta da ogni singola casa di Capernaum. Riconosco la quantità di bugie con cui ogni commerciante cerca di ingannarmi quando sfogliamo i registri in aramaico, e comprendo ugualmente la profondità dell’odio radicato persino nel peggiore tra i farisei, mentre tacitamente riversa i suoi soldi nelle mie tasche, quelle di uno scomunicato con cui è proibito anche solo parlare. Come se le loro case non fossero abitate da avidità e da violenza, come se tra le portate dei loro banchetti non fossero serviti l’orgoglio e la menzogna. Il servo di Dio è pronto ad ammettere tutto, tranne d’essere ipocrita – così ragionavo con me stesso a voce alta e attraversavo, a passi veloci, la polverosa strada gialla.

    Avevo tutto, solo i sogni mi avevano abbandonato. Non hai mai dovuto ripetere due volte: vieni e seguimi! Ti ospitavo nella mia casa e ti sedevi allora assieme a noi disgraziati: con volgari gabellieri e arroganti esattori, con inappagabili strozzini e commercianti senz’anima, con i peccatori. Le mie strade – urlavo a voce alta il giorno della fiera, restituendo i soldi a tutti coloro che avevo ingannato, bruciando i libri con i nomi dei debitori e spargendo il vasto patrimonio tra gli infelici e i bisognosi – e il mio irrequieto cammino insonne deriva dalla visione di uno scenario che si prospetta senza via d’uscita.

    Sai molto bene che sono stato tra i primi a riconoscere in Te il Messia; che ci ho creduto in questo addirittura più di Te stesso. Ti biasimo di qualcosa, forse? Ah... Invece di visitare i villaggi di Galilea ti sei recato direttamente nella capitale; cavalcando un asino, proprio come aveva preannunciato Zaccaria nell’Antico Testamento dicendo che così un giorno sarebbe entrato il figlio di Dio a Gerusalemme. E non Ti turbava il vocio inebriante che esaltava la Tua fama, mentre la folla dei perdenti continuava ad acclamare Osanna al Figlio di David, augurando a Te, il Salvatore, il privilegio di assaporare al posto loro il piacere della vittoria. Credo di poter finalmente comprenderTi! Se anche Tu hai provato l’ebbrezza assaggiando il miele abbondantemente sgorgato dai petali dell’orgoglio, per quale motivo allora avresti dovuto confidare in noi? Perché credere a noi uomini che con tale leggerezza abbiamo adagiato i nostri timori blasfemi lungo il cammino lasciando cadere tutti i peccati di questo mondo solo su di Te?

    È difficilissimo, Padre, raccontare ciò di cui da tempo diffidi. Certo, sarà proprio questo il motivo per cui hai scelto di mandarci nuovamente lì, a osservare quello che succede e prenderne nota ancora una volta. Certo, sarà fatta la Tua volontà anche in queste circostanze. Per quanto questo pellegrinaggio possa sembrarmi inutile, noi saremmo lo stesso le Tue orecchie e i Tuoi occhi.

    Non credevo che sarei stato richiamato al Tuo cospetto; mi illudevo che la conversione del tiranno etiope e la costruzione del tempio in quel luogo sperduto fossero sufficienti per riscattare una pace eterna. Per quale motivo ci stai chiamando di nuovo tutt’e quattro, e come mai proprio lei dovrebbe unirsi a noi in quest’avventura, dov’è che intendi condurci – avrei voluto chiedere mentre avvolgevo i lacci consumati dei sandali rotti attorno ai polpacci. L’acqua, – pronunziai dissetandomi a piccoli sorsi dalla fonte accanto alla strada – solo l’acqua e il dubbio riescono sempre a trovare il passaggio e infiltrarsi ovunque! In principio erat...

    Sto arrivando... – Lasciai la parola spiccare dalla bocca e volare verso il sole mattutino che faceva risplendere quella casa in cui ero diretto – Arrivo…

    Se credi che io sia diventato più saggio – dissi così forte da svegliare gli uccelli annidati nella corona dell’albero che avvolgeva il cancello d’ingresso – ti sei sbagliato di grosso, Infallibile! No, non ho saputo apprendere nulla dall’eternità. Eppure… Non sono stato io a perdere il tempo. Esso si disperdeva in me – sussurrai prima di appoggiare la testa sulla soglia della casa di Marco. Sono stanco, Padre… 

    ​Amarcord

    Sogno cavalli che galoppano per larghe strade imperiali; dalle narici dilatate si sprigiona vapore bianco. Sento chiaramente, come fosse reale, le ferrature degli zoccoli da parata il cui battito sulla pietra scolpita riverbera lontano. Vedo un Ufficiale viennese dell’Imperiale Regio Esercito che sulla pelle nuda indossa solo una pelliccia di zibellino e scappa dal letto caldo della voluttuosa contessa ungherese, per la prima volta rimasta insoddisfatta. Eccezionalmente nitida si fa ora l’immagine e metto a fuoco persino i dettagli di quell’ingombrante carrozza, con lo stemma del conte, rubata, trascinata dai morelli imbizzarriti spronati in una frenetica corsa, delirante. L’uomo che selvaggiamente frusta i due stalloni si chiama Đura Horvatović ed è il mio antenato. Sulle eleganti e lunghe dita porta un patrimonio inestimabile: gli anelli d’oro con le preziose pietre incastonante, avuti in dono dalle nobili signore che facilmente perdevano i sensi alla sua vista. Con lui vi sono anche i due pointer inglesi che tempestivamente era riuscito a riprendere dalla stanza in affitto a Bezirk, il distretto delle caserme, il suo prezioso omaggio al regno degli Obrenović, la nuova dinastia che di lì a poco avrebbe chiesto a tutti gli ufficiali austro-ungarici di origini serbe di rinforzare l’armata del loro paese nativo. Con mano forte stringe sia la pistola appoggiata sul sedile accanto a sé sia la sciabola rinfoderata; attorno all’altra, invece, sono avvolte le redini che feriscono il morso e lo tengono sveglio. Mentre il vento invernale gli gela le guance, Đura ha una certezza sola: è finito il tempo del silenzio, per sempre.

    Il sogno si muove, scalpita, indietreggia davanti alle fiamme che

    Stojan Denin, il latifondista di Leskovac, fissa con assoluta indolenza mentre ingoiano tutti i suoi negozi e le varie stazioni di posta costruite accanto al fiumiciattolo chiamato Veternica. Una vita di sacrifici, fatiche e duro lavoro bruciata in pochi istanti, diventata cenere, fumo, niente, e in tutto ciò la meschinità all’opera di coloro che avrebbero dovuto contribuire a spegnere quell’incendio e invece continuavano ad attizzarlo di proposito, l’insufficienza della volontà, tradita da lentissime mosse pigre con cui pompavano l’acqua rivelando l’intera farsa di quel simulato salvataggio e la crudele tacita sentenza, ben leggibile sui loro volti impassibili: quel vecchiaccio se lo merita!

    Lo sapevo che sarebbe successo – pronuncia il padrone asciugandosi la fronte su cui il tempo aveva inciso una propria lista dei debitori, imprimendo accuratamente e senza lo sconto tutte le tacche di contrassegno – le disgrazie non vanno mai da sole: una tira l’altra. Lo sapevo che sarebbe andata così appena la botte da vino più grande si è allentata e diecimila litri si sono dispersi sul pavimento sterrato. Oppure quando avevano ceduto i cerchi di ferro dal diametro di quasi due pollici, lasciando all’improvviso le doghe disfarsi come fette di un cocomero tagliato e spappolato contro il tavolo con un colpo secco, il giorno della festa. Ero cosciente di quel che stava succedendo fin dal momento in cui ai carri che trasportavano l’uva da settanta villaggi di mia proprietà, e da altri settanta che tenevo a mezzadria, è stato impedito l’ingresso nei sotterranei, in quelle stesse cantine vinicole che si distendevano sotto una buona parte della cittadina e che ora sfortunatamente giacciono invece sommerse dal nettare divino.

    Per sua fortuna il mio avo ignorava però completamente alcune cose importanti: la dismisura a cui riescono a giungere l’invidia e la gelosia; non sapeva infatti quanta meschinità possa generare l’odio. In nessun caso avrebbe potuto prevedere le riforme apportate da lì a poco con cui la dinastia successiva toglieva il possesso delle terre a tutti gli agricoltori che simpatizzavano per gli Obrenović, per regalarle alla marmaglia che al lavoro dei campi non si sarebbe mai dedicata con la stessa devozione, gente di malaffare che avrebbe arato tutti i suoi vigneti e sradicato anche l’ultimo ceppo di vite. Tutto quanto potesse minimamente ricordare l’altezzoso Stojan doveva essere distrutto.

    Il mio sogno si sposta velocemente, mi soffoco quasi e vengo trascinato in un tribunale di Londra dove i barrister indossano parrucche e toghe, puntano l’indice verso il soffitto ornato con lo stemma reale e sventolano i fogli proprio davanti agli occhi del giudice. Mihajlo Bunić, presentato alla Corte suprema di Sua Maestà come Michael de Bon, un commerciante di Ragusa, sta cercando di recuperare i soldi dovutigli per un’intera nave piena di tessuti pregiati, che a sua volta aveva acquistato in Oriente, e in seguito scambiato per le grezze stoffe isolane con un negoziante inglese, senza, però, averle mai ricevute nel porto della città di San Biagio. Bunić parla un ottimo inglese, ma è completamente cosciente che solo un uomo sciocco può pensare di presentarsi senza un avvocato all’altezza di quella situazione. Seguendo i consigli di coloro che avevano già sperimentato sulla propria pelle il fair play imperiale, aveva visitato qualche mese prima la City, il cuore pulsante di Londra, dove aveva bussato alla porta di uno dei giuristi più in vista, per sottoporgli i documenti con i quali intentare il processo. Sir Thomas More stava giusto terminando il suo scritto e ne ipotizzava un possibile titolo.

    Che tipo di lettere sono queste? – Aveva chiesto al suo futuro cliente, prendendogli di mano i fogli pieni di strani caratteri.

    Il cirillico, signore.

    E sareste in grado di insegnarmelo? – Fu la domanda successiva rivolta a Bunić.

    Con grande piacere, – aveva sorriso questa volta il cliente – spero soltanto che tra una lezione e l’altra di questa lingua che trovate così esotica e interessante riusciremo a trovare anche un momento da dedicare ai miei interessi finanziari, per i quali sono venuto da Voi!

    Sarà l’onorario per i miei servigi – aveva risposto il nobile, abbandonando all’improvviso il fare artistico a cui si era lasciato andare, per assumere nuovamente i panni dell’avvocato serio di sempre. – Posso conoscere ora il reale motivo della vostra visita?

    Mentre Mihajlo ricordava le date e gli altri dettagli di quell’infelice accordo commerciale basato in gran parte sulla sciocca parola d’onore tra due gentiluomini – parte inevitabile di ogni truffa degna di questo nome – il nobile inglese nel frattempo cercava un appiglio qualsiasi, analizzava scrupolosamente i contratti, scrutava e confrontava le firme sulle ricevute, e dopo un po’ ricominciava a esaminare tutto da capo, non lasciando nulla al caso. Sulla prima pagina dei fogli, per l’occasione spostati dalla sua scrivania, a grandi e orgogliose lettere ornamentali era scritta una parola sola: Utopia.

    Non sono più certo che il sogno sia stato così oscuro: una notte senza chiaro di luna; il nitrito dei cavalli mescolato al rumore di zoccoli ferrati che risuonano su quel terreno sassoso e arido tipico dell’Erzegovina; i fratelli Tanović che, armati fino ai denti, cavalcano ancora dal crepuscolo. Solo la stanchezza permane sui loro volti imbruttiti e, senza pietà, scava solchi più o meno profondi. Queste pietre non comprendono né il dolore, né la tristezza, né l’orgoglio, né l’onore. Resistono nel tempo, insensibili a tutto.

    Albeggiava quando finalmente si avvistò in lontananza la casa della famiglia Hidović, meta finale della loro spedizione. Le malelingue riescono sempre nel momento giusto a gettare olio sul fuoco, come è accaduto informando otto uomini furibondi su dove si trovasse loro sorella e dove la dovessero andare a cercare.

    Se è andata via dalla casa paterna volontariamente, allora sarà sufficiente un proiettile solo, quello per lei. Altrimenti, la pagheranno cara gli insolenti che si sono azzardati a offendere il buon nome della più rinomata famiglia di Gacko e dell’Erzegovina. Se l’hanno rapita non resterà alcuna pietra della loro casa.

    Il rumore delle armi che vengono caricate taglia l’aria, si propaga l’agitazione degli animali che percepiscono il nervosismo dei loro cavalieri. In casa regna uno scompiglio totale, la gente corre e sistema i fucili nelle feritoie. Si attende il primo sparo.

    Ne abbiamo avuto abbastanza di sangue versato... – dice all’improvviso il maggiore tra i fratelli e si gira verso gli altri per ottenere il loro consenso – Abbastanza! Sorella... – mette le mani vicino alla bocca e strilla ancora più forte – Soreeellaaa mia!

    Parla, fratello! – risponde una voce femminile.

    Ti ha costretta lui a venir via oppure è un tuo desiderio?

    È il mio volere! Non mi muovo da qui!

    Il silenzio sembra durare un’eternità; i cavalli non si calmano né si abbassano i fucili puntati verso i nuovi venuti da tutte le finestre.

    Allora, buona fortuna! – pronunciano i cavalieri, svuotando le munizioni in aria prima di riprendere la strada di ritorno verso quella casa dei Tanovići che aveva appena imparato a perdonare.

    Vale la pena di inseguire i sogni – si chiedeva Kaja sistemando un mucchio di carte rimaste dal suo defunto marito Sima Bunić – oppure bisogna lasciare a loro il compito di venire dietro a noi? Dal momento in cui egli è stato sepolto, ogni piacevole legame con il teatro è andato in frantumi. Quanto poteva diventare noioso e insopportabile spostarsi continuamente tra piccoli e grandi villaggi, faticando sempre per ottenere un prezzo equo d’affitto per il locale in cui presentare lo spettacolo, trattando con il proprietario del caffè più grande, unico luogo di ritrovo del paesino in cui si capitava. Riscrivere mille volte i manifesti, prepararli e incollarli su tutti i muri e le vetrine dei negozi, dal fornaio, dal barbiere e dal macellaio. Offrire mance e avere così dalla propria parte le voci delle simpatiche canaglie che senza tregua avrebbero attraversato la cittadina divulgando la notizia del teatro in arrivo anche negli angoli più nascosti.

    Ogni cosa è diventata priva di senso e insignificante ormai.

    Non si ricordava più quanto potesse essere piacevole la sensazione di sazietà, né cosa significasse avere un tetto sopra la testa. Che sapore avrebbe una vita vissuta fuori dal nostro carro e senza l’incessante pioggia che sbatte su quella arrangiata tettoia metallica. Lontana da quei variopinti sportelloni con la scritta Teatro viaggiante...

    Una volta credeva che calpestare le assi assemblate di un palcoscenico significasse vivere sul serio, ma ora che si sono trasformate in travi putride e marce, si rende conto che rimanerci ancora sopra, e tirare a campare in questa maniera, l’allontana sempre più inesorabilmente dalla vita vera. Qualunque cosa essa sia.

    Nella realtà di tutti i giorni, quella in cui i nostri ruoli ci vengono assegnati da altri, si tratta, per giunta, di dover sopravvivere a fatica. Tutto è un continuo spostare pesanti banchi e tavolacci, per improvvisare un palcoscenico d’occasione. Continuamente battere chiodi per fissare ancora una volta la corda, che serve a far scorrere la tenda appesantita dalla polvere della strada. Lavare e rammendare costumi prima e dopo la nuova drammatizzazione di Zona Zamfirova, un racconto di Stevan Sremac. Incollare baffi e barbe che si staccano sempre un istante prima di andare in scena.

    «Mascheratevi!» – pronunciava le parole di Shakespeare fissando un punto immaginario e stringendo con accanimento i pezzi di carta tenuti in mano – «Stanno arrivando mascherati!».

    Ora, dopo tutto, osserva con soddisfazione le fiamme mentre divorano ogni singolo foglio di carta ben accartocciato. Di certo non può sapere che uno dei nipoti del suo defunto marito, figlio di sua cognata Persida, ha rubato e nascosto nel cappottino il primo dei manoscritti, capitatogli casualmente sotto mano. In quest’ultima scena surreale, Kaja ride, credendo forse di poter nascondere così il proprio tormento, accompagnando ogni pagina in fiamme con una frase assillante, «Sire, gli attori sono arrivati!», pensa veramente di star distruggendo tutta la sua eredità, ignara della copertina del Ča Jovan, Zio Jovan, lentamente accarezzata dalle dita del piccolo Voja, spaventato e ben nascosto.

    Voja, conosciuto come Beba, soprannome ereditato da sua moglie Sofija Horvatović, si sveglia di soprassalto. Un brutto sogno. Uno tra tanti. La camicia da notte che porta addosso è bagnata di sudore. Come al solito usa lo spruzzatore per l’asma, poi manda giù anche una zolletta di zucchero con alcune gocce di valeriana. Solo allora si alza, toglie la cuffia e le calze da notte ed esce nel portico di una delle case più belle della Manchester serba, come venne chiamata la città di Leskovac per via della sua solida industria tessile, seconda solo a quella inglese.

    Non era particolarmente preoccupato per l’atteggiamento scortese con cui sua madre Persida Bunić, donna di nobili origini, aveva accolto la nuora proveniente da Novi Sad. Quella sera al ballo degli ufficiali era andato per conoscere la nipote del grande Generale Đura Horvatović, Hristina, ma solo il caso volle che l’altra sorella, Beba, diventasse sua moglie. Il motivo del suo brusco risveglio non è da cercare nemmeno tra i ricordi di guerra, in quella fastidiosa presenza di pidocchi o nel ricordo di un paio di scarponi militari dalla suola di cartone, che durante la pesante traversata a piedi dell’Albania sono state le due principali ragioni di morte, e da cui miracolosamente era riuscito a scampare, seppur perdendo entrambi i talloni. Oltre al cattivo sapore delle dure gallette, masticate durante quella marcia, e agli spietati attacchi degli irregolari albanesi incontrati lungo il cammino, questi sono i suoi unici e quasi palpabili ricordi di quel calvario.

    Vojislav Stojanović, il capufficio delle poste, veniva regolarmente svegliato da un’altra cosa: la mano di Maria, quella stessa mano da cui è stato preso appena sbarcato a Solun; il caffè e lo tsipouro che con l’aggiunta di una goccia d’acqua diventa bianco come il latte; il formaggio di pecora, le olive e la moussaka per il pranzo domenicale; la bellissima donna dai capelli neri accanto a cui si svegliava ogni mattina del suo soggiorno in Grecia. Fino a quell’ultima sera, quando venne fermato uscendo dal campo militare – per andare appunto da lei che gli aveva cucinato il branzino fresco pescato la mattina stessa – con l’ordine di raduno immediato per la partenza delle truppe. Il momento del grande macello era giunto; un altro nella fila dei tanti a cui si è sopravvissuti per puro caso.

    La promessa fatta a se stesso – una di quelle che danno senso a una vita – di ritornare alla fine della guerra a riprenderla, non l’ha mantenuta, ed è probabilmente per questo che ha continuato a sognare la costa greca fino alla fine dei suoi giorni.

    Passeggiare con i fratelli più grandi vicino al fiume e attraversare Kujundžiluk, la zona centrale della città nei pressi del vecchio ponte pieno di negozietti artigianali, è sempre stato un grande evento per Kika, settima di otto figli nella famiglia Hidović, che in quelle occasioni si sentiva di volare come un aquilone portato dal vento. Magari con uno dei vestitini che aveva adocchiato nella coloratissima vetrina di un rinomato negozio alla moda di Mostar. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e negli anni successivi, di moda andavano due sole cose: la sopravvivenza e le gonne larghe dai colori sgargianti.

    Immensa fu la sua gioia nel trovare sul letto il sogno tanto desiderato, superata forse solo dall’inaspettata partenza verso il mare la sera stessa. Il vestito sembrava fatto su misura: la gonna aperta sul sedile copriva abbondantemente ben dieci chili di pregiato tabacco dell’Erzegovina – dove škija era la qualità da fumare e flora invece serviva soltanto per mantenere l’aroma giusto – che suo padre andava a vendere sull’Adriatico ai pescatori. Si tornava da quei viaggi con altrettanta quantità di sale – l’oro puro di quei tempi – che a Mostar il padre scambiava con farina, olio o carne, o con quello che poteva servire in una casa dove c’erano ben dieci bocche da sfamare.

    Kika aveva imparato a fare bene la sua parte. Talvolta il dolce far niente può essere la cosa più importante da fare. Era sufficiente fingere di dormire mentre – dapprima i carabinieri o i soldati che indossavano elmi con piume di coda di fagiano, in seguito altra gente con una stella rossa sul berretto – ispezionavano il treno e le valigie dei passeggeri. Per quanto poteva indossare un’uniforme, portare un’arma o avere il volto severo, nessun controllore avrebbe mai osato toccare la tenera bambina addormentata in un angolo sulla tipica panca di legno dei vagoni di seconda classe.

    Cos’altro desiderare: era circondata dal fumo di una locomotiva, inebriata dai colori primaverili incorporati per sempre nel suo vestitino e aveva la possibilità di godere tutto ciò rimanendo in silenzio con gli occhi ben serrati.

    Tomica avrebbe voluto credere che tutto fosse solo un sogno: le buche causate dalle bombe e le case in fiamme, gli animali squarciati e gli uomini spezzati in due, gli aerei che continuavano a sorvolare la città e a seminare la morte ovunque, rendendo ogni cosa un’imponente rovina. Non essere più in grado di riconoscere la propria strada era di certo la cosa che maggiormente gli doleva ed è per questo che girovagava da ore, indossando un paio di pantaloni cuciti velocemente coi resti di una coperta militare e un paio di scarpe tenute insieme da un’equilibrata mistura di colla da calzolaio e pura fortuna, in cerca di qualunque segno riconducibile alla casa degli Stojanović.

    Aveva appena compiuto dodici anni, ma comprendeva cionostante la stranezza della situazione: quelli che aiutavano i cittadini a tirare fuori dalle macerie i feriti erano i soldati tedeschi, mentre gli aerei degli alleati inglesi cercavano di portare a termine il lavoro iniziato. Una delle tante assurdità della guerra, la cui spiegazione avrebbe voluto chiedere al padre, era, ad esempio, come mai, se ogni sera ascoltavano di nascosto con tanto entusiasmo Radio Londra, le prendeva invece di santa ragione se accettava del cioccolato dagli ufficiali che abitualmente, sul corso di Leskovac, si pavoneggiavano con signorine dal sorriso smagliante e dalla risata che echeggiava lontano. Se solo fosse stato in grado di ritrovare il punto in cui era piantato il nocciolo, dove stava il pozzo, oppure il porticato di casa...

    Stanco di camminare e di schivare a ogni passo tutti quei corpi privi di vita, decise infine di fermarsi sotto un tetto non del tuttoceduto, vinto dal sonno in cui crollano solo i bambini e i giusti. A svegliarlo sono gli schiaffi e gli abbracci di sua madre Beba, in lacrime, che istericamente continuava a riempirlo di botte. Dopo due giorni di ricerca in una città rasa al suolo, irriconoscibile, aveva già pensato che non l’avrebbe ritrovato mai più. Ansia e paura accumulate ora si attenuavano, rendendo ogni schiaffo meno energico, ogni bacio più forte.

    Beba, la figlia di Aleksandar Horvatović, un commerciante all’ingrosso di Novi Sad, non riusciva a meravigliarsi abbastanza osservando la sua ex nuora fare le valigie. Il carro era pieno della roba più impensabile. Persino il vaso da notte della suocera, per qualche inspiegabile motivo, aveva deciso di portare via. In quel frangente anche l’atteggiamento di suo marito, Vojislav Stojanović, era fonte di continua sorpresa. Come se non vedesse l’ora di avere la casa svuotata, dava lui stesso una mano agli operai, preparava loro il caffè e di tanto in tanto offriva della grappa. Notando lo sguardo incredulo della moglie che lo rimproverava, aveva detto semplicemente: Da quando mio figlio ha venduto tutte le pecore non mi importa un bel niente di tenere ancora dei cani in casa, e senza scomodarsi troppo aveva continuato a servire da mangiare ai facchini, stanchi di smontare e trasportare tutti quei letti e gli armadi in legno massiccio.

    Qualche giorno prima, quando Tomica gli aveva fatto vedere una foto della nuova eletta, il vecchio Voja aveva subito sostenuto il volere del figlio – Gran bella donna, portala subito a casa! Aveva detto a Toma Beba, che aveva trascorso gli ultimi dieci anni tentando inutilmente di avere figli e a cui non occorreva ripeterlo due volte. Anzi, gli bastava sentirsi dire una sola volta la verità in faccia – quando il suo amico medico l’aveva chiamato in disparte in un angolo della sala d’attesa per rivelargli a voce bassa che il problema della sterilità non dipendeva da lui; che non sopportava il silenzio dei suoi colleghi che in nome della galanteria avevano deciso di tenergli nascoste le sue perfette condizioni di salute, lasciandolo nell’illusione che le visite e i trattamenti a cui si sottoponeva sua moglie, le cure termali e i sortilegi avrebbero dato i risultati sperati.

    Aveva pianto e parlato con se stesso per tutto il tragitto di ritorno ma, una volta varcata la soglia di casa, la decisione presa era irremovibile: le aveva detto che si lasciavano, l’aveva aiutata a radunare le cose e a preparare una valigia per accompagnarla poi a casa dei suoi genitori.

    Non voleva rammentare nulla; mentre i carri pieni zeppi di roba uscivano dal cortile di casa, egli si sdraiava felice accanto al pancione della sua nuova sposa – Kika, discendente degli Hidović di Mostar – senza la minima intenzione di accompagnare nemmeno con uno sguardo le reliquie della sua vita passata.

    Davanti a Toma e Kika Stojanović si prospettava un’altra di quelle notti in cui non avrebbero chiuso occhio. Invece di dormire, eccoli, come ogni venerdì sera – era ormai già l’ottava volta in due mesi da quando era stato arrestato il loro primogenito – che preparano tutto per andarlo a trovare il mattino seguente: i pantaloni e le magliette; alcune stecche di sigarette di cui solo una verrà recapitata al destinatario; il latte, lo yogurt e i succhi di frutta che le guardie apriranno prima di darli al carcerato tenuto con le mani incrociate dietro la schiena, senza la cintura dei pantaloni né i lacci nelle scarpe.

    Mentre la madre prepara le borse, il padre con un coltello separa la carne dall’osso; il primo sabato – ah, come è triste dirlo ora – l’avevano costretto a riportare tutto indietro perché i detenuti non devono ricevere alcun oggetto potenzialmente tagliente. Anche il tentativo di avvicinare il direttore del carcere, che ben conosceva – questi un tempo era il factotum dei giocatori, portava loro dai palloni alle scarpe da ginnastica, mentre Toma, nel ruolo di centrale, conduceva la squadra di pallamano della sua città in serie A – si è dimostrato un buco nell’acqua. Quando, per ignorare la sua presenza, la testa del dirigente si gira dall’altra parte, la mano del padre alzata in saluto resta come impacciata nell’aria.

    Avevano bevuto il caffè e solo allora la madre era scoppiata in quel tipo di pianto che scuote tutto il corpo ma lascia il viso asciutto e senza lacrime. Attendevano l’alba per caricare la macchina e partire verso il carcere, dal loro figlio scherzosamente soprannominato Il nido per gli adulti.

    Si sbrigavano nel prendere posto in quel tipo di fila che non ci si può augurare di dover fare per i propri cari.

    Un sogno dentro un sogno, dove mi porta – si domandava Kika appena addormentata e presa dallo spavento di non poter né preparare il caffè al figlio per augurargli il buongiorno, né versare il recipiente d’acqua alle sue spalle nel momento della partenza. Lasciava appena intuire, senza ammetterlo mai, quanta importanza rivestiva per lei questo rituale pagano con cui da tempi immemorabili gli uomini in casa Stojanović – di cui la maggior parte possedeva doti invidiabili nell’unire con maestria viaggi d’affari e la più pura filosofia epicurea – venivano salutati dalle loro madri. Questa volta le mani e le gambe di Kika l’avevano abbandonata: lo sconforto si era impadronito della donna che, immobile, restava a guardare il pancione della nuora alzarsi e abbassarsi ritmicamente a ogni nuovo respiro.

    Elementi alquanto strani di un sogno subentrano nell’altro: la gioia e la paura si susseguono, si danno il cambio, creano una sequenza curiosa. Il magnifico bouquet da sposa in stile Biedermeier sorvola i tetti delle case e illumina le vie oscurate per il coprifuoco; i suoni uniformi, discontinui delle sirene d’allarme accompagnano il canto nuziale; il primo pianto del bambino si confonde con il lamento delle donne vestite di nero.

    Le prime a svegliarsi sono state le gambe, i cui piedi sono scivolati nelle pantofole, appoggiate accanto al letto; seguirono poi le braccia, che avrebbero voluto tirarsi su aggrappandosi al tavolino da notte e a quella sedia tenuta vicino; solo la testa, a cui nessuno chiedeva ormai niente, aveva tenuto duro più a lungo. Uscendo dal letto le sembrava di vedere sia le abili dita magiche di Jeronim Bunić – il celebre diplomatico di Ragusa che in nome della pace aveva consegnato i regali al gran visir del Sangiaccato – grazie a cui il bricco da caffè prese da solo posto sui fornelli, sia la mano delicata della pittrice di Novi Sad, Hristina Horvatović, che li accese in un secondo momento. Jovan Bunić e Nikola de Bono – il padrone della prima delle tredici case nella colonia ragusea a Leskovac, uno dei luoghi di loro proprietà lungo la strada per Istanbul, dove gli ambasciatori che recavano il tributo annuo all’Impero Ottomano per garantirsi l’indipendenza, potevano fermarsi con maggiore tranquillità evitando possibili imboscate – si aiutarono a vicenda a riempire d’acqua il grande bricco rosso a pois bianchi.

    Infine, mentre il padre raccoglieva le tazzine con i fondi depositati da un caffè bevuto troppo in fretta, Kika riusciva a osservare la nuvoletta di polvere lasciata dalla macchina che glielo portava via. I suoi cavalli moderni, nutriti da cilindrate – solo in parte simili agli stalloni del Generale Horvatović all’inizio di questa storia – si impennavano e caracollavano sulla strada accanto alla quale giacevano i resti dei sogni, come un cupo e inutile monumento, in onore dell’esperienza.  

    ​L’avvento della ragione

    Ho distolto lo sguardo dalla strada che giù all’orizzonte finiva in un punto minuscolo. Per quanto imponessi alle mie palpebre di serrarsi immediatamente, la mia volontà non veniva rispettata e i miei ordini restavano completamente ignorati, condannandomi a un disagio prolungato causato dalla vista di tutte quelle cose.

    Lo sguardo implacabile su una delle due autostoppiste, ricurva su di lui: le labbra dipinte di un rosso acceso baciano lentamente il buchetto roseo in cima e spingono la pelle in giù, trasformandolo in una cabriolet. La lingua umida si muove creandogli una spirale attorno e avvolge la lucida capoccia un momento prima di assorbirla completamente. La ingoia, la spinge dentro fin nella gola. Intanto le dita di una mano con lo smalto nero sulle unghie accarezzano i testicoli, mentre l’altra trova appoggio tra i peli crespi del petto. I folti capelli scuri di lei a tratti mi disturbano la vista.

    Il libidinoso prontamente ne sposta le ciocche dall’altra parte e acchiappa con la manaccia il sedere della ragazza. Cosa dire del dito? Ah, quel dito che si aggiudica la sorte! Lo osservo imboscarsi tra le natiche e scendere giù per il monte di Venere, privo del minimo cespuglio. Devo ammetterlo: il gonnellino bianco con negligenza tirato sulla schiena e le mutandine in una mossa abbassate fino alle ginocchia avevano dissuaso e scosso fortemente i miei più ferrei princìpi morali. Le ciglia grandi e fitte di lei si schiudono lentamente e incrocio allora uno sguardo ambiguo e intenzionato a tutto tranne che a fermarsi; in un lampo si trasforma in qualcosa di selvaggio, torbido, meraviglioso... Ecco, questo era l’inizio di tutta la faccenda! Ancora? Mi avevate promesso, insomma... E, va bene, va bene, se proprio dev’essere così...

    No, lui decisamente non è normale. La cosa è accertata ormai. Come prima cosa mi ha imbottito di C2H5OH, etanolo, fino a farmi torcere ogni spirale tanto che mi duole anche l’ultimo neurone, per costringermi poi ad assistere a quel bordello che si svolgeva sul sedile anteriore. Una vista che aveva infuocato il ponte dell’encefalo – lontano da me, Satana – pretendendo che io ricordassi per lui pure le date dei compleanni, spiegando ad altri questa sua estrosa fissazione, come se a qualcuno ancora importasse.

    Talvolta mi assale davvero il desiderio di abbandonare con stile questa mia gabbia ossea in cui sono intrappolato e che da tempo ormai ha smesso di attendere il suo uccello, così da elevarmi sulle alture del Parnaso e poter osservare da quel palchetto accademico come se la cava il maniaco senza il mio aiuto. Le mie vedute, allora, non sarebbero più tanto bigotte né mi chiamerebbe più santerello.

    Il gusto di trattarmi come se fossi un maggiordomo di un qualche romanzo d’amore settecentesco sono certo che lo abbandonerebbe. Cosa mi resta da fare? Sopportare da vero uomo che stringe i denti e tace, quasi fosse una mignotta, e si ritira nelle meningi: come prima cosa bisogna indossare la canottiera e i pantaloni lunghi membranosi, simili a tela di ragno, poi il pigiama, i calzini e la cuffia da notte – pia madre – per finire con il piumino, il più pesante di tutti gli altri strati. Mentre il volgare e insistente portavoce della Camera Bassa con tenacia non solo avanza le sue assurde pretese ed esige d’essere mostrato, in ogni luogo e situazione, ma glielo rammenta persino con quelle ottuse canzoncine improvvisate ad hoc, io dal canto mio, dopo aver presenziato a tutte le lezioni e conseguito la laurea in Medicina veterinaria, dopo aver ereditato delle doti e acquisito delle capacità nuove, per non dire poi un’innata modestia sotto ogni aspetto – per citare quel cretino di un vermiciattolo inguinale che dubita delle mie qualità e mi crede limitato – ecco, io non mi permetto questo tipo di millanteria.

    Ahimè! Sento delle fitte acute in entrambi gli emisferi mentre Čarli cerca di ideare qualcosa di ingegnoso e quando si parla di lui si tratta sempre di una cosa sola: il sesso. In-out, infila-sfila, quelle mosse bizzarre che non portano ad alcunché di speciale, come se di un coito non fosse capace un qualunque animale. Comunque, nessun animale pennuto stridula dalla finestra di un’automobile come invece sono avvezzi a fare certi individui. Le bestie con la coda pelosa per lo meno non vomitano sulla tappezzeria quando la sinapsi è impegnata a resistere e fa di tutto per funzionare ancora.

    Posso dire in tutta sincerità che da lui mi potevo ancora aspettare quei suoni robusti e ordinari da tipico ubriacone addormentato, ma la signora leggermente in carne e svestita – che l’indecente chiamava Cinghiala – era una sorpresa assoluta. Aveva prodotto su di me un effetto sgradevole, lasciandomi letteralmente di stucco per via dei suoni di cui era capace, ben lontani da qualunque idea di armonia. Facendo finta di non essere cacofonicamente torturato, avevo spostato la mia attenzione sull’autista e l’altra signorina, quella più snella. Ascoltavo di nascosto i loro progetti per un futuro radioso a Helsinki, quando il maniaco riaprì gli occhi e cominciò a bestemmiare: "Fottetevi tutti insieme voi due, Jarmusch e i suoi Tassisti di notte", ruttando spudoratamente e attaccando un sermone senza fine.

    Le cospirazioni vanno sbaragliate sul nascere, do you remember Spartacus and Robespierre – si alza e con una forza micidiale prende a pizzicotti il gluteo della povera ragazza addormentata. O Signore, eccolo che strofinando gli occhi cisposi e sbadigliando ogni tanto continua senza ritegno il suo discorso sgangherato: Piccioncini miei, ditemelo voi, è la libertà in sé che comporta dei pericoli oppure sono le insidie che crescono man mano con essa? Cosaaaaa è cooorreeeetto – urla e sbava attaccandosi nuovamente alla bottiglia.

    Poi lo sguardo vitreo dell’ubriacone resta per qualche istante fisso, inchiodato alla superficie del mare che appare alla nostra vista, mentre chiede in inglese se l’immensità blu sarà mai in grado di cantare così bene come i continentali la cantano nelle loro poesie. Prende allora il bel seno grande della ragazza, lo appoggia sulla guancia sudicia non rasata da tre giorni e gira le palpebre socchiuse verso il sole.

    Devo ammetterlo: a volte riesce persino a risultarmi simpatico.

    A patto che si astenga dall’essere volgare, ubriaco o fumato, cosa che accade davvero di rado. La mia lotta eroica per contrastare i suoi scatti d’ira e colmare la rabbia pura, il mio tentativo di combattere le nuvole di nicotina con cui mi avvelena – per non parlare poi di quella battaglia spesso in atto con le ondate di etanolo che lo portano in alto mare, o degli sforzi compiuti per respingere le offensive di cannabis simili all’invasione tartara. Tutta fatica inutile e sprecata da parte mia, quanto la vittoria di Pirro – mi hanno semplicemente portato a non tollerare più le sue bravate, tanto da rinunciare ormai anche all’idea di poter fare di lui un uomo per bene.

    Questa volta proprio mi vergognavo di lui. Non solo dall’angolo della bocca gli pendeva un sottile filo di bava lungo circa 55-60 centimetri, ma sebbene svegliatosi così bruscamente, non ci aveva pensato due volte prima di precipitarsi verso la taverna. A torso nudo e con i pantaloni aperti è schizzato fuori dalla macchina, lo squilibrato, mentre le due signore, che in tutta questa faccenda non avevano la minima colpa, cercavano di rifarsi velocemente il trucco e nascondere i lividi. Passando accanto al vaso su cui era scolpito Eracle che affronta il leone di Nemea, era riuscito a inciampare e scivolare sulle piastrelle bagnate, decorate con figure a mosaico dell’antica storia greca. Con successo aveva tirato giù la tovaglia che recava stampata l’immagine di Afrodite, facendo finire sul pavimento anche il menage abbellito con l’immancabile volto del mai sobrio Dioniso. Si versarono l’olio d’oliva e l’aceto di vino, prese il volo senza autorizzazione alcuna l’Icaro dipinto sulle stoviglie in ceramica. Vennero giù anche il capriccioso Zeus attaccato sulla cesta del pane, nonché il Poseidone, che seppur abituato ai terremoti, qui navigava sui tovaglioli e avvolgeva le pesanti posate. Sì, anche un vaso blu e bianco con dei fiori variopinti finì ugualmente per terra. Non mi sono mai vergognato di lui così tanto come quel giorno.

    Invece di cacciarlo via, proprio come avrebbe meritato, senza neanche fargli oltrepassare la soglia di quella taverna, ecco invece che gli viene incontro il proprietario e lo accoglie a braccia aperte – πέντε χταπόδι, cinque polpi – pieno di riconoscimento, che Dio mi salvi, ricordando ancora l’ultimo pranzo di Čarli nel suo locale e apprezzando la caparbietà con cui si era battuto in duello con i cinque polipi. Devo farmi pure io il segno della croce o cosa?

    In pochi istanti quell’ambiente sereno e tranquillo aveva completamente mutato il suo aspetto. Non era più un piacevole ristorante greco, ma la più spregiudicata arena, pronta a ospitare antiche orge: il volume della musica sale al massimo e i camerieri cominciano le loro corse. Apparecchiano i tavoli uniti per l’occasione, sistemando sulle tovaglie nuove delle tovagliette di carta tenute da angoliere di metallo per non farle volare via. I menu svolazzano. Cadono fogli abbandonando la copertina in pelle. Ma non importa a nessuno.

    Όλα, φίλε μου, Tutto, amico mio – si rivolge al padrone baffuto suscitando in lui evidente simpatia. Arrivano i piatti e le posate, le ragazze saltano sui tavoli – Μαρία, με τα κίτρινα, Maria in giallo – canta a squarcia gola mentre le signorine sfilano le magliette e tolgono i reggicalze.

    I seni saltano su e giù, giù e su, poi prendono la direzione delle lancette sul Big Ben, solo i capezzoli restano orientati verso il cielo senza cambiare mai la loro posizione. Ed ecco che lo scemo di un impertinente, senza consultarmi, abbassa lo sguardo verso il pavimento e mi costringe a intromettermi – ehilà, gli dico, alza immediatamente su quella testaccia dura – ma che te lo dico a fare, non mi ascolta, cambia velocemente il ritmo – Μη μου θυμώνεις Μάτια Μου, Non ora tesoro, non essere arrabbiata con me, non con meee – e crolla nella sedia.

    Perché vuoi riascoltare tutto da capo? Ogni inizio è difficile, cosa c’è da sapere? Va bene, va bene! Fammi prendere un sedativo e ti racconto tutto, d’accordo? Ecco, dunque, quel giorno quando avevamo incontrato le due autostoppiste stavo quasi per ringraziare il Signore ad alta voce mentre salivano nella nostra macchina. La loro presenza mi aveva indubbiamente fatto sentire sollevato. Imponendo fin da subito i loro gusti musicali con una cassetta inserita nel registratore avevano cancellato il rumore monotono del motore e il ricordo assillante di tutte quelle domande e del trattamento subito poco prima alla dogana: Qual è il motivo del vostro viaggio?, Avete qualcosa da dichiarare?, Quanti soldi avete con voi?, Parcheggiate di lato. Il fermarsi davanti alla polizia di confine; il silenzioso abbassarsi del finestrino anteriore della nostra macchina; l’aprirsi della finestrella del gabbiotto e il controllo di ogni singola pagina dei nostri passaporti; il rumore della porta mentre l’autista esce fuori; l’apertura del portellone posteriore e una mano che fruga tra i bagagli, fino in fondo; il suono dei nostri passi mentre raggiungiamo l’ufficio della guardia di turno; il fruscio delle banconote appoggiate sul tavolo dell’impiegato statale; il tintinnio delle chiavi e lo scuotere dell’accendino sulla scrivania; la perquisizione totale, i pantaloni che calano sulle caviglie – le mutande, le mutande pure – ancora addormentato sento insistere una voce e rispondo a cazzo dritto – di la verità, non ti è mai capitato di averlo così grosso – morditi sta linguaccia e stai zitto, idiota, porta via il tuo brutto culo e sparisci prima che cambi idea – stridula tra i denti la stessa voce il cui ringhiare fastidioso raggiunge i miei timpani; ne segue il rivestirsi, il tirare su i jeans, l’ardiglione che batte sulla fibbia, le scarpe che strusciano per terra mentre torniamo in macchina avvolti da un silenzio mortale.

    Fermo qui! Sento la voce di Čarli che sembra provenire dalla pancia – la mortificazione mi fa sempre venire una fame da lupo.

    Soddisfatti di questa digressione? Posso continuare ora il mio racconto da dove mi avevate interrotto poco fa? Dunque...

    Un indomabile e ferino appetito, che dubito abbiate mai potuto vedere altrove. In questa situazione, dove lui egoisticamente non avrebbe rinunciato a nessun boccone, persino al famoso detto non restava che adattarsi: si levava il pane di bocca per darlo al suo stomaco. Di certo non può essere di facile comprensione l’elevato grado di avversione nei confronti di ogni innocuo ingrediente vegetale che per sbaglio avesse potuto finire nel suo piatto, né tantomeno il disprezzo per qualsiasi nozione di macrobiotica, a parte la porchetta farcita a regola d’arte e allevata con il riso integrale, naturalmente. In compenso il suo amore per l’Hatzimichalis, la quinta bottiglia in particolare, è sempre stato ed è rimasto immenso. Mi sono adoperato in tutti i modi per farlo smettere. Senza successo. Bastava che spuntasse dal nulla un suo amico, un certo Vangelis, perché partissero saluti e abbracci che dovevano essere irrorati con la bottiglia nuova arrivata al nostro tavolo, con l’augurio sincero di mandare a casa i saluti dall’antica Ellade. Ah, casa, dolce casa!

    Ed è a questo punto che ho rischiato di rimanere stecchito. Quel tale di cui voi vorreste conoscere i particolari della vita e il cui comportamento invece tocca gestire a me dall’alto della mansarda in cui sono rannicchiato con i miei tarli, era ubriaco perso e solo apparentemente rilassato. A tratti la coscienza si faceva sentire con una voce sempre più grossa mandando l’intero sistema a puttane. Giuro, aveva causato un cortocircuito così grosso tra la corteccia e il midollo – tra la forma e la sostanza – che a malapena sono riuscito a ristabilirmi. Con quale quantità di nozioni mi aveva sommerso: lui è una grande autentica merda (certo, lo so anche da me, da depositare senz’altro nell’area della memoria); la ragazza all’ottavo mese di gravidanza (però, anche questo bisogna segnarlo, che vergogna) che convive con lui in una relazione aperta e senza aver celebrato il santo matrimonio . Mi mancava solo questa... Con il dipartimento dei rimorsi ammetto di avere dei pessimi rapporti.

    Si alza, barcolla verso l’uscita, vede un telefono pubblico di fronte e cerca di raggiungerlo. A momenti una macchina quasi lo mette sotto. Il suono prolungato del clacson di un’altra che lo evitava con un’ampia curva lo fa trasalire. Bestemmia e impreca – Cosa c’è, vigliacchi sobri: un ubriacone per bene nemmeno può telefonare senza essere importunato? – Ma questo ovviamente non gli basta – Lasciatemi in pace una volta buona, insomma, aveteee rotto i coglioniii – aggiunge prontamente il cafone. Che figuraccia! Da sprofondare sotto terra dalla vergogna, anche solo a ripensarci. È visibilmente sorpreso perché l’apparecchio funziona – Dove cazzo sono nato io, ma porco di un cervello – dice offendendomi l’ennesima volta. Il midollo me l’ha succhiato in quell’istante, imbecille di un imbecille che non è altro, lasciando dei segni pericolosi anche sulla corteccia stessa per cui difficilmente riceverà il perdono. I numeri sulla tastiera del telefono riesce a beccarli con fatica. Dall’altra parte gli risponde la voce della madre. A tutt’oggi non riesco a non meravigliarmi abbastanza per quello che è uscito fuori da genitori così splendidi come i suoi.

    Lo scapestrato si fa gli auguri di buon compleanno da solo, poi si congratula con Einstein per lasciare infine un po’ di spazio anche ad altri comuni mortali nati quello stesso giorno, liberi di unirsi a loro in festa. Al fratello, che nel frattempo aveva preso la cornetta, cerca di spiegare che non ci sono sostanziali differenze bensì indubbie similitudini tra la teoria della relatività generale di Albert, che prende in considerazione il fattore di contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi, e la teoria amatoriale di Čarli, dove la promiscuità sessuale può essere stimata in base al tempo impiegato e la lunghezza del cazzo raggiunta alla vista di una gran gnocca – che schifo, e la riduzione drastica di entrambi gli elementi quando si tratta di una racchia – due volte schifo... – Bla, bla, bla, eccetera, eccetera... Insomma il rimbambito osa sostenere quanto entrambe le teorie siano geniali.

    A pensarci bene è molto strano che anche la sua famiglia gli faccia passare per buone queste stupidaggini. Non lo criticano, chiedono soltanto se il tono raffreddato che gli si sente dalla voce è per colpa dello iodio o meno, e lui lo conferma, che faccia tosta, senza battere ciglio. Con arroganza aggiunge pure – ahi, ahi– che gli viene difficile smaltire i disagi causati dal fuso orario –ehi, un’ora intera di jet lag ahi, ahi, ahi! – Allora viene al telefono suo padre di cui addirittura io riesco a percepire il finto entusiasmo con cui cerca di minimizzare il problema incombente. Finalmente lo dice. Al figlio è arrivata la chiamata militare. Lo stupido ubriacone non lo prende sul serio, continua a scherzarci sopra. Chiede al padre se l’hanno di nuovo lasciato a guardare il TG2per essere così uscito di senno, o se è felice davvero che a lui, un Capitano di riserva, finalmente si ripresenti l’opportunità di combattere davvero, visto che aveva inutilmente sprecato così tanti anni a mangiare arrosto di maiale e lottare contro la pediculosi pubica ricevuta in dono da artiste locali.

    Comunque sia, comincia a urlare nella cornetta, chiedendo al padre come sia possibile che sia vero e non si tratti di una notizia falsa, lo costringe a ripetere tutto, a rileggergli l’invito da capo, parola per parola. Qualcosa di indefinito tra la paura e l’orgoglio, lo opprime, qualcosa che confina con l’idiozia. Tu-tuuuu, interrompe la chiamata, colpisce l’apparecchio sempre più forte, lo riempie di calci, tra forti grida e lacrime invoca ancora il nome del padre –Ahi, mi senti, ahiii, mi senti padreee...

    Mi scusi tanto, avrei voluto chiederlo anche prima, ma poi non ho trovato il momento giusto per farle la domanda. Perché si veste così strano? Mi incuriosiscono le sue ali, lo sa? Cosa ne fa di esse prima di coricarsi? Le toglie, le appoggia da qualche parte? D’accordo, ho capito, devo farmi gli affari miei. Mi attenda solo un attimo, prendo un antidepressivo e sono subito da lei. Eccomi, collego il nervo olfattivo con la banca dati in memoria e riesco a ricordare per lei ogni stimolo giunto da me all’inizio di questa storia: l’odore di diesel che riempie la cabina per tutta

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