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Niente di cui Pentirsi
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Niente di cui Pentirsi
Ebook434 pages6 hours

Niente di cui Pentirsi

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Niente di cui pentirsi" è un romanzo "noir" dai mille risvolti. La tranquillità della cittadina di Solaria viene interrotta da una serie di efferati delitti, apparentemente inspiegabili e senza alcuna attinenza tra di loro. Un giovane Commissario ed il suo valente collaboratore si mettono sulle tracce degli assassini, con il comune intento di fare giustizia e riportare la tranquillità in città. Durante le indagini, sotto le direttive di uno scrupoloso Pubblico Ministero, i due fanno venire a galla il passato oscuro delle vittime, lottando contro la burocrazia e la diffidenza dei loro superiori gerarchici. Entra in gioco anche un enigmatico personaggio che, alle prese con mille problemi quotidiani ed una emicrania galoppante, ricordando il passato con i vecchi amici ed interrogandosi sul proprio futuro, si trova coinvolto, suo malgrado, in questa complessa vicenda. Tutto sembra risolversi, ma che attinenza ha questa storia con quelle di una giovane coppia di sposi alle prese con il loro bambino appena nato e di un esperto funzionario comunale, impegnato a lottare contro i soprusi della politica e del malaffare? La verità alla fine sembra trionfare… ma sarà davvero così? Giustizia sarà fatta… ma da chi? Le vittime potranno riposare in pace… ma quali vittime? Una sola certezza alla fine regnerà sovrana: tutto era stato scritto… sin dall'inizio!
LanguageItaliano
Release dateMar 8, 2013
ISBN9788868220167
Niente di cui Pentirsi

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    Niente di cui Pentirsi - Rocco Cosentino

    collana

    La Ginestra large

    diretta da Antonietta Cozza

    2

    ROCCO COSENTINO

    Niente

    di cui pentirsi

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2013

    Isbn: 978-88-6822-016-7

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Maria e Carmine

    PROLOGO

    Era un giorno di primavera come tanti altri quel 28 aprile del 1974.

    Già dalle prime ore dell’alba, le vie di Tirrenia incominciavano ad affollarsi. Tanti impiegati, commessi, operai e dipendenti cercavano di farsi strada in quel traffico mattutino, facendo di tutto per evitare un ritardo che avrebbero certamente pagato con un severo rimprovero da parte del datore di lavoro.

    Sebbene fosse primavera, un venticello fresco accompagnava il risveglio di buoni e cattivi, mariti e mogli, amanti e fidanzati, guardie e ladri, politici e parrocchiani, e di ogni altra specie di essere umano che popolava quella desolata terra.

    I ragazzi, con la morte nel cuore, varcavano l’ingresso delle scuole.

    Scuole un po’ fatiscenti sì, ma con tanti cantieri aperti che, se da un lato facevano presagire un futuro più comodo, dall’altro costituivano un serio costante pericolo all’incolumità di discenti, docenti e personale non docente. I professori, con la gioia nel cuore, pensavano alle imminenti ferie estive, i bidelli ringraziavano il cielo di avere un posto fisso e già facevano il conto alla rovescia aspettando il suono della campanella delle 13.00.

    Nelle varie botteghe la fragranza dei panini caldi, appena sfornati, si mischiava a quella della provola dolce locale che diventava quasi burro al primo contatto con una fetta di pane. Decine di caffè e cappuccini venivano serviti con l’immancabile cornetto ai signorotti della zona, che già pregustavano una nuova giornata passata bighellonando di qua e di là, con l’intima certezza che per lavorare e invecchiare c’è sempre tempo.

    Tutto normale quindi in quel dì di primavera. Ogni cosa maledettamente al suo posto. Niente però, dopo quel giorno, sarebbe stato mai più come prima.

    In fondo tutto era nella regola, proprio come avviene in corrispondenza di un evento naturale: nessuno se lo aspetta, ma col senno di poi tutti si convincono che è stata la natura a rivoltarsi contro l’uomo, con la conseguenza inevitabile che anche la peggiore delle catastrofi è sempre prevedibile o per meglio dire evitabile. Nel nostro caso però non di catastrofe si trattava, anche se era pur sempre catalogabile tra gli eventi naturali, ma di una tra le più straordinarie manifestazioni di quel moto perpetuo che è la vita.

    La vita: ciò che oggi viene tolto all’anziano ottantenne, per essere donato domani a chi porterà con sé la speranza di poter trarre insegnamento da chi, prima di lui, aveva lasciato una traccia indelebile in quella breve parentesi che è l’esistenza sulla terra. In fin dei conti che cos’è la vita, se non un breve passaggio, una fugace apparizione destinata, nella maggior parte dei casi, a non aggiungere niente all’opera di chi ci ha preceduto e a non sottrarre alcunché a chi dopo di noi sarà destinato a raccogliere la nostra eredità?

    Esistono in natura combinazioni astrali, coincidenze secolari, fenomeni divini che fanno sì che, con turnazioni non prevedibili, arrivino sulla terra creature che normali sono solo all’apparenza ma che nascondono in sé una energia vitale destinata a sconvolgere l’esistenza di chi avrà la fortuna di incontrarli.

    Quella che si andrà presto a svelare è la storia di chi, nascendo come uno fra tanti e che da tanti verrà considerato il numero uno, sarà destinato a diventare il solo a comprendere il senso dell’esistenza umana e per questo motivo l’unico capace di trasmettere al mondo intero le sue eccelse qualità. Porterà con sé, lungo il suo cammino, il potere di fare in modo che tutte le cose prima o poi si conformino alla volontà di un essere soprannaturale supremo, o più semplicemente al corso naturale delle cose.

    Quel giorno però non era una giornata uggiosa, non era un giorno di festa, non era una ricorrenza segnata con il rosso sul calendario.

    Tutto accadde in una zona di periferia del mondo, dove astuti politici avevano ben pensato di far sorgere un moderno ospedale che a quella data aveva anche una sala parto, che solo qualche anno dopo però si sarebbe trasformata in un tetro ripostiglio dove conservare attrezzature fantascientifiche, costate tanto ma mai utilizzate.

    Anche se la vita è fatta di corsi e ricorsi storici, guerre e pace, odio e amore, ricchezza e povertà, giustizia e politica, sarebbe dovuto pur arrivare il giorno in cui l’ordine avrebbe regnato sovrano sul disordine, la quiete sul caos, le regole sui sofismi!

    I

    Ultima settimana di scuola. L’estate era alle porte. Il leggero tepore di quel periodo faceva presagire calde giornate passate in riva al mare. Come di solito accadeva, il caldo sole risvegliava in noi adolescenti assopiti ardori. Mi trovavo al quarto anno di liceo scientifico. Era stato un anno particolarmente duro, anzi il più duro che io ricordi. Come sempre accadeva, gli ultimi giorni di scuola erano dedicati alle interrogazioni di fine anno. L’anno successivo avremmo avuto gli esami di maturità. Proprio per questo tenevo particolarmente a quella interrogazione, anche se, a dire la verità, l’avrei dovuta sostenere almeno un mese prima. Una improvvisa influenza mi impedì di andare a scuola per qualche giorno. Tuttavia, il calendario delle interrogazioni era stato già fissato e mi toccò essere interrogato per ultimo. L’ultima settimana di scuola, appunto.

    Il latino classico non era la mia materia preferita. Certo, preferivo le materie letterarie a quelle scientifiche, ma certi aspetti del latino non ne volevano sapere di entrarmi in zucca. A partire dalla metrica e a finire con i verbi. Per fortuna, imparare il latino è come imparare ad andare in bicicletta: non si dimentica mai. Per quella interrogazione mi ero preparato davvero bene. Come dicevo, zoppicando un po’ in fatto di metrica e di verbi, aguzzai l’ingegno, deciso com’ero a fare davvero una bella figura e ottenere almeno un bel sette che avrebbe di certo alzato la media sulla pagella finale. Pur essendo abbastanza diligente, avevo l’ineguagliato primato di essere riuscito almeno una volta in tutte le materie a ritrovarmi già fatto il compito in classe nei miei appunti. Successe per il tema di italiano (in un temario trovai la traccia già svolta), quello di inglese (la professoressa non si accorse che la traduzione che ci aveva dato era tratta da un libricino che avevamo dovuto tradurre durante le vacanze estive), quello di matematica (avevo con me le prove già svolte degli ultimi dieci anni di esami di stato), quello di chimica (lo copiai interamente da un mio compagno di banco che aveva tutti tre nelle altre materie, ma in chimica era una bomba) e infine quello di latino (i due tomi del maxivocabolario dal peso spropositato che aveva usato mia madre in gioventù, sebbene avessero accentuato la mia scoliosi, alle fine mi gratificarono, facendomi trovare tradotto un intero brano).

    Il giorno prima dell’interrogazione feci incetta di tutti i libri di latino classico di una mia vecchia zia che per anni aveva insegnato al liceo classico, prima di pensionarsi. In particolare concentrai la mia attenzione su una serie di brani, sui quali il professore sicuramente avrebbe incentrato l’intera interrogazione. Armato di matita, con il libro di mia zia sulla destra e quello scolastico sulla sinistra, iniziai il mio piccolo capolavoro. La mia fortuna fu che la mia cara vecchia zia, tra i suoi tanti libri, possedesse anche delle versioni che, sul margine destro del testo, riportavano la traduzione in italiano. Nella parte bassa di ogni singola pagina vi erano accuratissime note su ogni passo del brano, compresi ovviamente riferimenti alla metrica e ai tempi dei verbi. Fu così che, con la mia affilatissima matita, iniziai innanzitutto ad apporre in ogni parola delle barre verticali, in maniera tale che avessi i giusti riferimenti di metrica nel momento in cui avrei dovuto leggere quel testo davanti al professore. Finita la prima parte della mia opera, mi dedicai alla seconda, e cioè a sottolineare tutte le note di maggiore interesse o che, comunque, mi sarebbero state d’ausilio nel caso in cui mi fosse stata fatta una domanda. Per quanto riguarda la traduzione in italiano, mi bastò dare un paio di letture al testo tradotto sul margine destro. Ero pronto, prontissimo: il mio piano però era così perfetto che mi fece trascurare alcuni dettagli importanti, di cui mi resi conto quando ormai era troppo tardi. Seduto all’ultimo banco, attendevo con pazienza il momento in cui il professore avrebbe fatto il mio nome. Lo fece! Finalmente lo fece! Questo era uno di quei casi in cui l’interrogazione era attesa quasi come un momento purificatore: una volta conclusa, il corpo e la mente si sarebbero purificati da tutte le scorie accumulate durante l’anno scolastico. Ormai ero così teso che desideravo farmi interrogare al più presto e poi pensare solo ai lunghi bagni e alle interminabili partite di pallavolo e calcetto sulla sabbia. Sentito il mio nome, mi alzai. Percorsi, tutto baldanzoso, quei pochi metri che separavano il mio banco dalla cattedra ed eccomi, finalmente, alla meta. Lungo quel breve tragitto sentii gli occhi dei miei compagni puntati tutti su di me, avrei voluto girarmi e rassicurarli con una frase del tipo: tranquilli raga, questa volta il prof non mi frega! Fissai negli occhi il professore, il quale a sua volta fissava il resto della classe, e solo in quel momento mi resi conto di aver trascurato un piccolo particolare: quel giorno non era previsto latino classico, ma solo letteratura italiana! Nessuno, neanche il professore, aveva portato con sé il libro di testo! Errore, imperdonabile errore. Avevo calcolato tutto nei minimi particolari, ma avevo trascurato di far portare a qualche mio compagno un testo da dare al professore.

    – C’è qualcuno che ha un testo da prestarmi? – la voce gracchiante del professore mi gelò l’anima e il cuore. Io ero l’unico ad avere portato il libro di testo. Diamine! Avrebbe scoperto tutti i miei geroglifici di metrica! Cazzo! Nessuno in classe rispose.

    – Mi sa tanto che me lo devi prestare tu! Tanto vedo che con te hai un altro testo! – la sua affermazione mi ghiacciò le budella. Aveva anche scoperto il mio secondo testo di supporto, con tutte le note e la traduzione. Aricazzo! Pur essendo quasi sordo e abbastanza avanti negli anni, evidentemente la vista ce l’aveva ancora buona. In quel momento calò il gelo sulla classe. Passarono secondi di silenzio senza che nessuno rispondesse e con la sua tipica espressione un po’ da Jerry Lewis e un po’ da scienziato pazzo ostentò il suo disappunto nei confronti di tutta la classe.

    – Certo, professore! – Feci buon viso a cattivo gioco. Affrontai la situazione con coraggio. Persa ogni speranza sulla metrica, mi sarei potuto rifare con la traduzione in italiano. – Può prendere il mio libro di testo, ho portato anche un altro che avevo a casa. Ho pensato di approfondire un po’ l’argomento! Mi scusi se troverà qualche scarabocchio ma il mio metodo di studio mi porta a fare geroglifici che mi sono molto di aiuto alla memoria. – Uno a uno e palla al centro. Mi ero rimesso in carreggiata finalmente!

    Dopo queste schermaglie iniziali, mi invitò a leggere la parte finale del brano da lui scelto. Come avevo programmato, era tra quelli su cui mi ero preparato. Incominciai a leggere. Lessi, lessi con molta foga. Moltissima foga. Troppa foga! Leggevo, leggevo e continuavo a leggere. Continuai, continuai, finché venni interrotto. Purtroppo toppai una seconda volta.

    – Se il tuo testo porta dei brani in più, ti puoi pure fermare! –

    Accidenti, non mi ero ricordato che i libri di mia zia riportavano i testi nella versione integrale e non quella ridotta per le scuole. E così il mio caro professore venne a scoprire che avevo con me un testo per gli insegnanti e non quello (scevro di approfondite note) per gli alunni. Incassai il colpo e andai avanti. Mi fece una domanda dopo l’altra. Mi disse di tradurre. Si soffermò sulla costruzione di videor, che ovviamente non era una domanda su un antico edificio romano. Per fortuna, riuscii a rispondere colpo su colpo. Mi fece leggere altre tre righe di un altro brano, finché con la sua voce stridula esclamò: – Dimmi un po’ il tempo del verbo che hai appena letto! – Panico. Panico più totale. Dannazione, l’amato libro di mia zia era una vera e propria enciclopedia tascabile, riportava pure i nomi delle mogli dell’autore, ma nulla diceva sul tempo di quel verbo! Dovevo fare affidamento sulle mie conoscenze. Restrinsi il campo delle possibili risposte. Dopo qualche secondo di ragionamento arrivai al sacro dilemma: perfetto o piuccheperfetto? Quale era la soluzione giusta? Rispondendo bene un bel sette non me lo avrebbe levato nessuno, altrimenti le figuracce di inizio interrogazione avrebbero avuto il sopravvento! Stavo ancora spremendo le meningi, quando ebbi la folgorazione, l’illuminazione, una improvvisazione geniale che solo le grandi menti possono mettere in atto!

    – Ehehehe…più…che…ehehehe…perfetto! – fu la mia risposta, intervallata anche da qualche colpo di tosse. Il professore era un po’ sordo… ecco cosa mi venne alla mente! Qualunque fosse stata la risposta esatta, avrei sempre potuto sostenere che era proprio quella che avevo appena dato. Nessuno avrebbe potuto provare il contrario. Il bel voto era ormai assicurato.

    – Eheheheh, come, scusa? Puoi ripetere ad alta voce, per favore? –

    Avevo colto nel segno. Convinto che si trattasse di un suo difetto di udito, mi chiese di ripetere.

    – Ehehehe…più…che…ehehehe…perfetto! – fu la mia ovvia nuova riposta, questa volta detta ad alta voce e accompagnata dalla solita tosse persistente.

    Il professore mi fissò negli occhi. Fissò tutta la classe, peraltro sul punto di esplodere in una maxi risata. Interpretò quel momento di pre-ilarità come imputabile alla sua incipiente sordità. Avendo lui sempre sostenuto che il suo udito era perfetto, con una punta di orgoglio non se la sentì di farmi ripetere la risposta un’altra volta.

    – Piuccheperfetto! – sentenziò lui.

    – Appunto! – esclamai io.

    – Bravo, vai a posto. Sette! –

    – Grazie! – fu la mia parola di congedo. Mentre me ne tornavo a posto sentii la classe esplodere in una rumorosissima risata. Tutti ridevano a squarciagola. Il professore capì di essere stato preso in giro. Si alzò. Con una lunga bacchetta di legno si diresse verso di me con intenzioni poco amichevoli. Ormai temevo il peggio.

    – Tu, tu, mi hai truffato… – disse lui puntandomi contro la bacchetta.

    Ad un tratto sentii: – drin drin drin… –

    Cos’era stato? La campanella che decretava la fine del match?

    – Drin drin drin… –

    Un suono di sveglia. Cosa diamine stava accadendo? Non feci in tempo a darmi una risposta che aprii gli occhi e, madido di sudore, mi trovai con la testa sotto il cuscino. Era stato un sogno… soltanto un sogno! Un incubo, solo un incubo? chiesi a me stesso. Anzi no, pensandoci bene avevo solo sognato un fatto realmente accadutomi ai tempi del liceo. Passata l’agitazione del momento, decisi di restare ancora un po’ a letto. Odiavo dovermi alzare appena aperti gli occhi. Era proprio per questo motivo che sin da piccolo avevo l’abitudine di mettere la sveglia almeno mezz’ora prima dell’orario in cui mi sarei dovuto alzare. In quella mezz’ora pensavo a quello che avrei dovuto fare durante il giorno. Pensai al lavoro. Pensai alla mia famiglia che non vedevo da qualche settimana. Pensai, infine, che si era fatto tardi e non potevo ancora indugiare tra le braccia di Morfeo. Ecco che inizia la mia giornata. Una come tante. Una fra le tante. Dopo le inevitabili necessità fisiologiche, mi recai in cucina per la prima colazione. Almeno così mi piaceva chiamarla, anche se tutto era tranne che una prima colazione. Il mio primo approccio della mattina con il cibo non consisteva in altro che in un caffè rigorosamente decaffeinato e senza zucchero. Oh mio Dio, si erano già fatte le 8.00! Era iniziato il conto alla rovescia per il mio arrivo puntuale in ufficio. Avevo appena mezz’ora per fare la doccia, radermi e vestirmi. Alle 8.30 in punto, o giù di lì, mi sarei dovuto trovare già sotto casa a bordo della macchina. Come sempre accadeva, ritardai di dieci minuti nella mia collaudata tabella oraria. A peggiorare la situazione si mise anche una volante della polizia che, a tutta birra e a sirene spiegate, vidi dirigersi in una viuzza a circa cento metri da casa mia. Meglio farmi i fatti miei e andarmene tranquillo al lavoro, pensai. Era già tanto che nessuno mi avesse chiamato sul cellulare!

    Si erano fatte le 9.15 quando mi presentai al lavoro. Poco male. Il mio ruolo mi permetteva un orario elastico. Non dovevo dare conto a nessuno dell’ora in cui iniziavo a lavorare. D’altronde la sera non terminavo di lavorare prima delle 19.00… quindi! Salutai chi dovevo salutare senza troppe smancerie, per carità, non ero proprio quel tipo di persona! Mi accomodai sulla mia poltrona presidenziale. Accesi il computer, digitai la password, apparve la schermata iniziale. Avevo scelto lo sfondo di un film di Totò, il miglior comico di tutti i tempi, secondo me. Guardie e ladri era il titolo. E io pago! mi veniva da dire ogni mattina, leggendo sulla pagina internet di un famoso quotidiano nazionale la notizia di qualche nuovo balzello introdotto dal governo. E adesso che faccio? Non c’erano nuove pratiche in arrivo, avrei dovuto lavorare su quelle arretrate. Che palle! Se erano state messe da parte, un motivo ci sarà pur stato, o no? Altrimenti le avrei già definite da giorni. Che faccio? Tutto sembrava tacere in ufficio. Come mai? Era festa nazionale? Era il giorno del Santo Patrono? Tanto valeva connettersi alla rete intranet e fare il giro su qualche sito istituzionale per vedere se c’era qualche novità dell’ultima ora. Decisi allora di collegarmi all’home page di una famosa agenzia di stampa. Ah ecco, finalmente! Il collegamento era partito. Vediamo un po’. Interni… solite palle. Esteri… soliti morti! Sport… solita Juve. Gossip… solita bella vita!… alla faccia mia, ovviamente, che avevo studiato tanto e mi ritrovavo con uno stipendio da fame alla fine del mese. Basta! Basta con internet! Veniamo al sodo. Allora, la mia agenda dice: alle 10.00 niente, alle 12.00 pure, alle 17.00 casella vuota. Non ho mai capito com’è che la gente sembra avere sempre qualche impegno in agenda e io che sgobbo da mattina a sera sembro un orfanello del libro Cuore. Il telefono incominciò a squillare! Finalmente un segno di vita! Forse è meglio rispondere e non indugiare troppo. Sul display compare un numero. Faccio mente locale, ah sì è quello del mio collaboratore, vediamo che vuole. – Pronto! Sì! Dimmi tutto! Allora è per questo motivo che stamattina sembravate tutti dispersi! Come? Mi hai chiamato sul cellulare? Impossibile! – guardai rapidamente il telefonino… cazzo… si era scaricata la batteria… ecco perché nessuno mi aveva cercato! – Sicuramente non c’era campo, ero impegnato fuori sede. Sì, sì, fate tutto voi, poi mi fate sapere! Ciao! –

    Allora, veniamo a noi! Care pratiche, fatevi sotto che sono pronto a sbranarvi, e poi…

    II

    – Mi raccomando, tenete lontano gli impiccioni, transennate la zona e chiamate i vigili del fuoco. Avremo bisogno di loro per far preservare la macchina da possibili rischi di incendio da corto circuito e per illuminare la zona a giorno. Immagino che quella stradina non sia coperta dall’illuminazione pubblica, vero? –

    – No, dottore, non sbaglia. è una stradina che dalla provinciale si immette in una zona di campagna. Lì l’unica illuminazione possibile è quella della luna piena! Più precisamente il fatto è avvenuto in contrada Marella. –

    – Contrada Marella? Non mi sembra di averla mai sentita prima. –

    – In effetti, come si dice dalle nostre parti, sono due case e un forno! Viene così indicata solo per mera comodità dei postini che devono recapitare la posta. La zona è comunque così desolata che dubito che troveremo mai qualche testimone. –

    – Sicuramente chi ha commesso il fatto avrà tenuto conto di questa situazione dei luoghi! –

    – Probabilmente. Aggiunga comunque che solo chi è nato e cresciuto a Solaria può essere a conoscenza dell’esistenza di questa contrada. –

    – Anche se è vero che il posto è stato scelto solo perché faceva parte del tragitto della vittima di quella sera… l’oscurità della campagna avrà reso l’occasione ancora più propizia! –

    – In effetti, avessero commesso il delitto pochi metri più avanti, sarebbe stata l’identica cosa in termini di via di fuga. –

    – Almeno si vede il numero di targa, per cercare di risalire intanto al proprietario? –

    – No, mi dispiace. La zona in cui è andata a finire l’autovettura è invasa dal fango e dai detriti che si sono accumulati a causa del maltempo degli ultimi giorni. A malapena siamo riusciti a scoprire con le nostre torce che a bordo vi è solo un uomo, dalla corporatura robusta. Irriconoscibile in volto, quei bastardi lo hanno crivellato di colpi. Comunque doveva essere un benestante. Era a bordo di una Mercedes classe E ultimo modello. –

    – Cosa intendi per ultimo modello? La versione della classe E immessa nel mercato tre anni fa, oppure quella oggetto di restyling dell’anno scorso? –

    – Dottore, per me al di sopra della Punto sono tutte macchine sconosciute e inaccessibili economicamente… –

    – Va bene, va bene, ho capito che non ne capisci molto di autovetture… e perché non avete cercato di risalire all’identità della vittima tramite il modello? Quanti a Solaria posseggono una macchina di quel livello? –

    – Tanti, purtroppo. Il fatto è che negli ultimi anni circola molto denaro qui da noi. Ormai la Mercedes è diventata una macchina alla portata di tutti! –

    – Tranne che per i poliziotti onesti! –

    – Appunto! –

    – Caruso, senti, mi hai detto che sul posto ci sono già quelli di pattuglia con la volante. Falla fare a loro la chiamata a quelli della Scientifica. Se li chiamo io dopo quello che è successo per quell’uomo impiccato della settimana scorsa, mi sa che ci faranno aspettare ore e ore. –

    – Non si preoccupi, dottore, ci avevo già pensato io. –

    – Io a quello stronzo di Amelio non riesco proprio a sopportarlo. –

    – A proposito di Amelio, le comunico che è stato trasferito a Roma. –

    – Oh, che bella notizia! Un problema in meno. E chi dirige allora la Scientifica? –

    – Il suo amato collega Veneziano. –

    – Come, Veneziano? E non mi dicevi niente? Comunque, comunica a quelli della volante di fare come ti ho detto. Nell’arco di mezz’ora dovrei essere sul posto e vorrei iniziare subito le operazioni di rito. –

    – Vuole che mandi qualcuno a prenderla a casa? –

    – No, Caruso. Mi trovo al ristorante con mia moglie. Mi sa che non lo dimenticherà facilmente il nostro primo anniversario di matrimonio! –

    Il dott. Di Francesco era al suo primo anno di servizio come dirigente del commissariato di Solaria.

    Era anche al suo primo incarico. Subito dopo le nozze si era trasferito con la moglie in un appartamentino preso in affitto. Aveva appena trent’anni, laureato in giurisprudenza, aveva chiesto di essere mandato a Solaria perché prorio lì la moglie era stata destinata come ufficiale giudiziario. Dopo anni di patemi d’animo, marito e moglie avevano quasi contestualmente ricevuto notizia del superamento dei rispettivi concorsi, all’iniziale grande gioia fece seguito lo sconforto, dovuto al fatto che erano stati destinati a circa trecento chilometri di distanza l’uno dall’altra. Dopo una serie di lettere raccomandate e minacce di denunce penali, alla fine a Di Francesco venne assegnata la sede di Solaria, proprio come la moglie. Aveva deciso di non acquistare una casa, era sua ferma intenzione farsi le ossa per qualche anno e poi trasferirsi in una sede più tranquilla. Oltre che come suo primo anniversario di matrimonio, quel giorno lo avrebbe per sempre ricordato come quello del suo primo caso di omicidio. La chiamata dell’ispettore Caruso non sarebbe potuta capitare in un momento peggiore: tra il primo e il secondo piatto Di Francesco aveva deciso di far vedere alla moglie il bel dono che le aveva riservato. Stava ancora per riprendersi dalla bellezza di quell’anello trilogy che l’atmosfera venne rovinata dallo squillo del suo cellulare. Fecero appena in tempo a mangiare la grigliata mista di pesce che avevano appena servito. – Tanto il morto non scappa – fece lui in un ultimo tentativo di tirare su di morale la moglie. Tentativo fallito. Dopo aver bevuto un caffè in tutta fretta, si alzarono, pagarono il conto e si diressero verso casa. Lungo il tragitto lei non disse niente, lui le promise che avrebbero festeggiato nuovamente il loro anniversario la settimana successiva, in un posto ancora più bello. La lasciò a casa con un muso da guiness dei primati… e ripartì per dirigersi sul posto dell’omicidio; erano troppi i pensieri per quel fatto di sangue che a ricucire il rapporto con sua moglie ci avrebbe pensato al ritorno. Per fortuna che aveva avuto la bella idea di dotare la propria automobile di un navigatore satellitare. A stento aveva imparato le strade cittadine, figuriamoci quelle di campagna! Digitò il nome della città: Solaria. Venne richiesto l’indirizzo, Di Francesco fece scorrere l’elenco delle strade in memoria. Come aveva immaginato, contrada Marella era sconosciuta a quel marchingegno, se la prese con se stesso per aver solo sperato che quel pezzo di terra desolato potesse essere incluso nella memoria di quell’affarino altamente tecnologico. Non gli restò altra alternativa che richiamare l’ispettore Caruso. Il telefono squillò a vuoto per circa sette volte. Premette nuovamente il tasto verde della tastiera. Partì una nuova chiamata. Questa volta la linea cadde immediatamente, Di Francesco si trovava in una zona non coperta dal segnale. Stava incominciando a perdere la pazienza quando, al terzo tentativo, sentì il suono rassicurante del segnale libero. Dopo sei squilli, Caruso rispose.

    – Pronto, dottore. Mi è arrivato il messaggio che lei mi aveva cercato, stavo per chiamarla io. Evidentemente le nostre chiamate si sono sovrapposte. –

    – Fa niente. Senti, mi trovo alla periferia sud di Solaria. Da che parte devo andare per raggiungere questo benedetto posto della miseria? –

    – Ok. Dove si trova adesso di preciso? –

    – Mi trovo all’inizio della Circonvallazione Sud. –

    – Benissimo, prosegua fino alla fine e poi prenda la strada provinciale che porta verso Montechiaro. –

    Passarono pochi secondi di silenzio, giusto il tempo per Di Francesco di imboccare la provinciale.

    – Fatto! –

    – Percorra sei o sette chilometri, finché sulla destra non vedrà una stradina. La imbocchi e prosegua per un paio di chilometri. Non si può sbagliare. La zona è illuminata a giorno dai vigili del fuoco che per fortuna sono arrivati puntualissimi. –

    – Tutto chiaro. Grazie. Sarò sul posto al massimo tra dieci minuti. –

    – La aspettiamo, dottore. Ha altri ordini? –

    – Quelli della Scientifica sono arrivati? –

    – Sono arrivati in tempo record. L’impronta del suo amico Veneziano si fa già vedere. –

    – Comunque, mi ero dimenticato di dirti che se sul posto tenta di avvicinarsi qualcuno, bloccatelo e identificatelo. –

    – Non si preoccupi, ci avevo già pensato. –

    – Ok! Sono già a metà strada. Tra qualche minuto mi troverò sul posto! –

    – Dottore, mi è venuto in mente che forse ci siamo dimenticati qualcosa! –

    – Cosa? – chiese il commissario con una malcelata agitazione.

    – Di avvertire il p.m. di turno! –

    La comunicazione si interruppe ufficialmente per mancanza di segnale, in realtà il cellulare di Di Francesco andò a schiantarsi inspiegabilmente contro il finestrino lato passeggero della sua autovettura.

    III

    Avevo appena finito la mia giornata di lavoro. La soddisfazione di aver fatto il mio dovere quotidiano mi riempiva il cuore e mi faceva pregustare il meritato riposo sotto il tetto di casa mia. Era stata una giornata particolare: piena zeppa di cose da fare. Tuttavia, a rovinare quelle poche ore di sospirato relax, come spesso mi capitava ultimamente, un forte dolore iniziò a rimbombare in ogni angolo della mia scatola cranica. Il mal di testa che stavo provando in quel momento però era diverso. Nel senso che sembrava che il mio cervello fosse attraversato da tanti piccoli cavi elettrici che ogni tanto venivano percorsi da piccole scosse. La sensazione era quella di piccole scariche che alle volte partivano in prossimità della fronte, per andare a esaurire la propria carica all’altra estremità, e viceversa. Era una sensazione strana che non avevo mai provato prima. Quella sera fu la prima volta, anche se un’avvisaglia di ciò la ebbi durante la mattinata in ufficio, mentre ero tutto concentrato a studiare una pratica. Trovandomi al lavoro non ci feci caso, immerso nel caos delle carte. A casa, però, nel più totale silenzio, le scariche si fecero più frequenti. Incominciai a preoccuparmi, se non altro per la particolarità di quei dolori. A tratti la vista mi si annebbiava. Come quando il computer si impalla e bisogna spegnerlo e poi riavviarlo, così cercai di riprendermi, aprendo e chiudendo gli occhi, sperando che tale espediente resettasse i miei dolori. Nulla però accadde. Le scariche aumentavano sempre di più. La mia decennale astensione da ogni farmaco anticefalea stava per crollare definitivamente. Resistetti ancora. Provai allora a distrarmi, preparando la cena. Una fetta di carne con contorno di mozzarella e pomodori. Non era quello il momento per sbizzarrirsi in cucina. Purtroppo l’odore della carne arrostita mi fece provare la sensazione di sentire il mio cervello abbrustolirsi lentamente per le incessanti scariche elettriche che si insinuavano tra i suoi solchi. Mi passò la fame. Conservai la cena in frigorifero per un’altra migliore occasione.

    IV

    Quella mattina, così come era suo solito fare, il signor Levis si era alzato di buon’ora con la speranza di arrivare un po’ prima al lavoro e recuperare il tempo che di lì a poco avrebbe dovuto trascorrere con la moglie dal ginecologo. E fu così che quando sentì i primi lamenti provenire dalla stanza da letto, intento come era a radersi che quasi si sfregiava la faccia per il sussulto avuto, la sua reazione fu tanto veloce che in tempo record si vestì, preparò la moglie e a una velocità da ritiro della patente si diresse in ospedale.

    Ospedale, sì proprio un ospedale, almeno così diceva quell’insegna a caratteri cubitali posta all’ingresso, ma tutto sembrava tranne che un ospedale, se non nella struttura, quantomeno nel livello di assistenza al malato. L’edificio, anche se fatiscente, si presentava bene, tutto si poteva dire tranne che non fosse stato progettato con tutti i crismi di una casa di cura; purtroppo l’incuria di chi nel tempo era stato chiamato a gestirlo, il menefreghismo di chi vi lavorava tutti i giorni, la totale assenza di lungimiranza dei politici di turno, il disinteresse da parte di chi per ruolo istituzionale avrebbe dovuto vigilare sulla corretta osservanza delle regole, avevano fatto sì che quello che un tempo era stato un centro di eccellenza nel settore della salute, era ormai di fatto diventato una struttura paragonabile ai suoi tanti ospiti: vecchia, povera e abbandonata.

    Un infermiere all’ingresso, appena vide in lontananza arrivare a tutta velocità l’autovettura dei Levis, capì subito di che si trattava; non fece in tempo a dire al marito premuroso, che si era presentato al suo cospetto, che era necessario passare prima dall’accettazione, che si rimangiò subito le parole, temendo seriamente per la sua incolumità fisica. Accompagnò quindi i coniugi da un suo collega, di certo più esperto e più preparato di lui in tema di gravidanze, e si congedò da loro con un classico: auguri e figli maschi!

    Chissà quante volte aveva aspettato quel momento, chissà quante volte aveva fantasticato su come sarebbe stato il giorno della nascita del suo primo figlio: passato, ormai tutto apparteneva al passato. Lasciata la moglie a mani esperte, ormai si trovava di fronte a una tazza di caffè nero bollente che bevve in un solo sorso, dimenticandosi forse che lui odiava il caffè, ma si sa, l’attesa del primo figlio fa passare tutto in secondo piano, ti fa provare nuove emozioni, ti fa vedere nero il bianco e bianco il nero, sì proprio nero come quel caffè bollente che aveva appena bevuto grazie alla gentilezza di una suora di passaggio. Quanti pensieri, quanti ricordi gli sfiorarono la

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