Giannettino: Nuova edizione definitiva
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About this ebook
Carlo Collodi
Carlo Collodi (1826–1890) is the pseudonym of Carlo Lorenzini, an Italian children’s writer. His most famous work, ‘The Adventures of Pinocchio’, first appeared in 1880, published weekly in a newspaper for children. The novel’s eponymous character has transcended the page and taken on a life of his own, appearing in films, television, plays, and spinoff works.
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Book preview
Giannettino - Carlo Collodi
Nota alla nuova edizione
Giannettino, opera di Carlo Collodi precedente al successo di Pinocchio, ha conosciuto diversi periodi di grande diffusione anche molto successivi alla morte dell’autore.
Trattandosi di un testo pensato originariamente anche come lettura scolastica, nel corso degli anni è stato spesso sottoposto ad aggiornamenti e rimaneggiamenti anche pesanti. Quello sicuramente più sostanziale è avvenuto durante il fascismo, quando il testo collodiano è stato completamente snaturato per potervi inserire rimandi anacronistici all’Impero e ai simboli del regime.
Interi brani del testo originale sono stati soppressi o modificati, mentre altri hanno subito solo leggeri cambiamenti, in modo da camuffare, ora abilmente, ora goffamente, la riscrittura.
La presente edizione nasce da un riscontro delle edizioni precedenti al 1922 assieme alla versione Lucchi del 1956, che già tentava un recupero filologico dell’originale.
Riproponiamo qui, quindi, l’originale collodiano mondato da tutte le modifiche successive. I pochissimi interventi riguardano unicamente quei vocaboli talmente desueti da risultare incomprensibili e le costruzioni verbali o sintattiche che al lettore odierno apparirebbero come un errore.
I.
Chi era Giannettino?
E ora, ragazzi, se starete attenti, vi racconterò per filo e per segno la storia di Giannettino.
Giannettino, quando l’ho conosciuto io, poteva avere su per giù l’età vostra, vale a dire fra i dieci e i dodici anni.
Ne volete il ritratto?
Figuratevi un bel giovinetto, sano e svelto della persona, con un paio di occhi celesti e anche un tantino birichini, e con un gran ciuffo di capelli rossi, che a guisa di ricciolo gli ricascava giù a mezzo la fronte.
Giannettino era figlio unico, e come potete immaginarvelo, il suo babbo gli voleva un bene dell’anima, e la sua mamma, per dir come si dice, non lo guardava, dalla paura di consumarlo.
Ma il troppo bene, alle volte, è appunto quello che sciupa i ragazzi; e tanto era avvenuto di Giannettino.
Il quale, a furia di averle tutte vinte e di vedersi contentato in tutti i capricci, si era tirato su un piccoso e un prepotente, da non averne pace né in casa, né fuori di casa.
La voglia di studiare non la conosceva neppur di vista.
I suoi libri e i suoi quaderni erano tutti fioriti di scarabocchi e arabescati dalla prima all’ultima pagina di uomini, di alberini e di soldati fatti con la penna e coloriti colla matita rossa e turchina, e qualche volta anche col sugo di ciliege.
Quando la mattina andava a scuola, vi andava con lo stesso piacere e col medesimo viso allegro, col quale sarebbe andato da un dentista a farsi levare un dente davanti.
E perché le domeniche e i giovedì erano giorni di vacanza, così quella birba diceva sempre a sua madre, credendo forse di dire una bella cosa:
«Vedi, mamma! Se fossi io che avessi inventato il lunario, avrei messo quattro domeniche e tre giovedì per ogni settimana!»
In casa
Quando Giannettino ritornava a casa, era lo scompiglio e la disperazione di tutto il casamento.
I pigionali degli altri piani, che lo sentivano strillare e saltare su per le scale, dicevano subito bofonchiando: «Eccola questa saetta!...».
Il suo servitore e la cameriera, alla prima scampanellata fatta senza garbo né grazia, si scambiavano fra loro un’occhiata e quell’occhiata voleva dire: «Ecco finita la tranquillità! Dio ce la mandi buona e senza vento!...».
E perfino Buricchio, il venerabile Buricchio, un vecchio gatto soriano, che in questo mondo non aveva mai dato noia a nessuno, nemmeno ai topi, appena sentiva la voce del padroncino se la dava subito a gambe, e scappava in cucina a rimpiattarsi in fondo al corbello della brace.
II.
Giannettino e il dottor Boccadoro
In casa della signora Sofia (così si chiamava la mamma di Giannettino), c’era tutte le sere una conversazione fiorita.
Ma Giannettino non si faceva mai vedere.
Colla scusa di ripetere la lezione, rimaneva sempre in un’altra stanza; e lì baloccandosi e sciupando il tempo, passava le serate intere a fabbricare dei teatrini per le marionette e a insegnare la lingua italiana a due pappagalli che gli erano stati regalati dallo zio Ferrante, famoso capitano di mare, di ritorno dal Brasile.
Quand’ecco che una sera Giannettino, per uno dei suoi soliti estri, volle andare in sala con tutti gli altri; e quella sera ne fece d’ogni colore e d’ogni sapore.
Sfogliò, a una a una, alcune bellissime rose, che erano in fresco dentro un vaso della Cina; ritagliò colle forbici le figurine del ventaglio di sua madre; ruppe un calamaio di vetro di Venezia, per la curiosità di vedere com’era fatto dentro; tirò a segno con una palla elastica negli occhiali di un Cavour di marmo, che stava sul caminetto; e quando non seppe più che cosa inventare, allora legò una sonagliera di bubboli alla coda di Buricchio: onde la povera bestia, fuggendo impaurita fra le gambe delle seggiole e dei tavolini, fece uno scampanellio così indiavolato, da fare uscir di cervello anche i sordi.
Ripetendosi quasi tutte le sere queste monellerie di Giannettino, accadde che le persone che andavano a conversare dalla signora Sofia, perduta la pazienza, cominciarono a diradare in un batter d’occhio.
Di sedici che erano dapprincipio, diventarono otto; di otto, quattro; di quattro, due.
Una sera la signora Sofia si trovò sola.
Di tanti amici e conoscenti, l’unico che alla solita ora si presentò in casa fu il dottor Boccadoro, un bel vecchietto asciutto e nervoso, lindo negli abiti e nella persona, il quale era conosciutissimo per la sua bella virtù di parlar chiaro e di dire a tutti la verità, anche a costo di passare qualche volta per un po’ troppo lesto di lingua.
I ragazzi e i puledri
Mentre il dottore si metteva a sedere, entrò Giannettino, il quale, vedendo la sala vuota, domandò tutto meravigliato a sua madre:
«E perché stasera non è venuto nessuno?»
«Perché sei tanto noioso e impertinente, che dove capiti tu, tutti gli altri scappano...»
Giannettino rimase così mortificato da queste parole, che soggiunse subito:
«Dimmi, mamma, quando me le compri le marionette per il teatrino?»
«Oh! dovrai aspettarle un pezzo!...»
«E io allora, domani non vado a scuola!»
«Lo sente eh, come risponde?» disse la signora Sofia, voltandosi verso il dottor Boccadoro.
«Lo sento» rispose il dottore; «e non mi fa caso. Perché i ragazzi, vede, sono come i puledri. I puledri hanno bisogno di accorgersi fin da principio che sono guidati da una mano forte e sicura, che sa accarezzarli a tempo e che a tempo sa domare i loro capricci e tenerli in briglia, valendosi, in certi casi, anche di un briciolino di frusta...»
«Di frusta?» disse Giannettino, alzando vivacemente il capo.
«Sissignore, di frusta» replicò il dottore collo stesso tono di voce; poi continuò: «Guai se i ragazzi... cioè, volevo dire, guai se i puledri si avvedono di potersi sbizzarrire a loro capriccio!... Pigliano subito dei vizi e cominciano a impuntarsi, a mordere, a tirar calci, a far delle falcate, finché una volta o l’altra c’è anche il pericolo che vadano giù a capofitto in qualche burrone, tirandosi dietro il calesse e chi c’è sopra».
Mentre il dottore parlava così, Giannettino, tanto per non stare in ozio, si divertiva a mandare in su e in giù a tempo di musica la calza del lume a moderatore.
«Se stai fermo cinque minuti... cinque minuti soli d’orologio» disse il dottore, a cui prudevano già le mani, «ti prometto domani di condurti a vedere la Lanterna Magica».
«Oh, bene! La Lanterna Magica!...» cominciò a gridare Giannettino, saltando dall’allegrezza; e per dimostrare la sua gratitudine al dottore, gli pestò i piedi, gli montò a cavallo sui ginocchi, allungò una mano per arricciargli i baffi... insomma, gliene fece tante e poi tante, che il brav’uomo, soffiando come un istrice, si alzò da sedere e prese in mano il suo cappello.
La storia del canino Bibì.
«Ve ne andate così presto?» gli disse la signora Sofia.
«Me ne vado; e ho paura che starò un pezzo, prima di farmi rivedere» disse il dottore.
«E il motivo?»
«Mi permettete di parlare colla mia solita franchezza? Allora vi dirò che, tempo addietro, io avevo l’abitudine di passare le serate in casa della moglie del sindaco. Una brava donnina quella moglie del sindaco!... Ma per me aveva un difetto: quello, cioè, di tenersi sempre vicino, o sulle ginocchia, il suo caro Bibì, un canino bizzoso e spelacchiato, il quale tutte le volte che mi vedeva, o abbaiava con un guaito stridulo, che entrava nel cervello, o, brontolando, mostrava una fila di dentini appuntiti e sottili come tanti aghi d’Inghilterra; e quando poi era di buon umore e voleva farmi le feste, allora m’impelacchiava tutto dalla testa ai piedi. Una sera, mi ricordo che Bibì prese un brutto equivoco, ossia credé che le mie gambe fossero una cantonata o un piolo; e senza darmi il tempo di avvertirlo dell’errore, lasciò sui miei pantaloni chiari uno di quei ricordi indelebili, che tutti i cani, forse per una tradizione di famiglia, sogliono lasciare ai pioli e alle cantonate. Da quella sera in poi non ho più rimesso i piedi in quella casa; ma domani sera comincio a ritornarvi».
«Che forse Bibì è morto?» domandò la signora Sofia.
«No!... Bibì è vivo! Purtroppo è vivo! Ma che volete che vi dica? Seccatura per seccatura, tormento per tormento, confesso la verità, signora Sofia, preferisco sempre Bibì al vostro signor Giannettino».
La prima lettera di Giannettino.
Giannettino, che a tutto questo racconto aveva fatto delle grandi risate, quando sentì la chiusa, si rannuvolò a un tratto e cominciò a strofinarsi gli occhi e a soffiarsi il naso, per trattenere le lacrime; ma non vi riuscì.
Appena il dottore fu fuori dalla stanza, Giannettino dette in uno scoppio di pianto.
La mattina dopo, al dottor Boccadoro, venne recapitata una lettera.
La lettera diceva così:
Pregatissimo Signiore,
(pregatissimo invece di pregiatissimo; v’era una i di meno; e signiore invece di signore; v’era una i di più).
Siccome voi mi diceste ieri sera che io sono peggio di un cane spelacciato (invece di spelacchiato; l’h gli era rimasta nella penna), questa cosa mi ha fatto piangere di molto dal gran dispiacere.
Ho promesso anche alla mamma di corregermi (invece di correggermi; vi mancava una g), e per questo vi prego di voler tornare qui in casa per fargli (invece di farvi) vedere che sono diventato buono e per condurmi alla Lanterna Magica, colla quale vi saluto e anche la mamma che non sa nulla che vi ho scritto.
Vostro aff.mo Giannettino
La sera il dottore andò subito a trovare la signora Sofia: la quale, quando riseppe della lettera, disse sospirando:
«Meno male! È segno che quel monello sente ancora un po’ di vergogna...»
«Meno male davvero!» replicò il dottore «perché i ragazzi che hanno la fortuna (io la chiamo così) di fare il viso rosso sui propri mancamenti, o prima o poi finiscono col ravvedersi e col pigliare la buona strada. I ragazzi che non danno da sperare, sono quelli che non curano nulla e che non si vergognano di nulla».
In questo mentre apparve Giannettino, e la signora Sofia, senza far mostra di nulla, si alzò e li lasciò soli.
«L’avete ricevuta?...» domandò il ragazzo.
«L’ho ricevuta» disse il dottore «e l’ho trovata gremita di spropositi».
«Di spropositi?...» E Giannettino fece un atto di meraviglia, come se il dottore l’avesse calunniato.
Perché bisogna sapere che Giannettino, come accade di tutti i ragazzi braccioli e svogliati, era pieno di presunzione, e si figurava sempre di non sbagliar mai e di saperne più degli altri.
«Ah! Non lo credi?» ripigliò il dottore ridendo. «Lascia fare a me: rileggeremo insieme la lettera, e così vedremo chi di noi due abbia torto o ragione».
E tirò fuori la lettera: ma Giannettino, lesto come un baleno, gliela strappò di mano, e fattala in minutissimi pezzi, la buttò fuori della finestra.
Poi con voce di pianto e di bizza, cominciò a dire:
«Già, anche voi siete di quelli che mi vogliono male... e che mi danno addosso... Vorrei sapere perché in questa casa tutti l’hanno con me... Nessuno mi può soffrire, e fra questi ci siete anche voi... Sissignore, anche voi!»
«Verissimo!» rispose secco il dottore. «D’altra parte, caro mio, bisogna sapere che in questo mondo vi sono due specie di ragazzi: vi sono i ragazzi che per le loro buone maniere, e per essere compiti, educati e a modo, si fanno benvolere da tutti; ve ne sono poi molti altri, sgarbati, molesti, impertinenti... e questi, in una sola parola, sai come si chiamano? Si chiamano ragazzacci».
«Sicché a sentir voi» disse Giannettino mortificato, «il mio posto sarebbe... fra i ragazzacci?»
«Caro mio, è un posto che ti tocca di diritto».
«Grazie del complimento!»
Vi furono due minuti di silenzio.
Tutt’a un tratto Giannettino, rialzando vivacemente il capo e tirandosi indietro quella gran ciocca di capelli rossi che gli scendeva sugli occhi, disse con una cert’aria di fierezza, che gli stava benissimo:
«E se volessi, non potrei diventare anch’io uno di quei ragazzi che come dite voi, si fanno benvolere da tutti?...»
«Perché no?»
«M’insegnereste il modo?»
«Volentieri: va’ a quel tavolino; tira fuori un lapis e un foglio di carta, e piglia ricordo di quel che ti dico».
Giannettino obbedì.
Una lezione di buona creanza.
Allora il dottor Boccadoro cominciò:
«Devi dunque sapere che un ragazzo della tua età, se vuol essere ceduto di buon occhio e accarezzato da tutti quelli che lo avvicinano, bisogna, prima d’ogni altra cosa, che metta una grandissima attenzione alla nettezza della sua persona e dei suoi vestiti.
Tienilo bene in mente: un ragazzo col viso e con le mani sporche, coi capelli arruffati, con le unghie orlate di nero e coi vestiti per il solito polverosi e pieni di strappi e di frittelle, sia pure il più bel ragazzo del mondo farà sempre, agli occhi delle persone pulite, la figura di un fagotto di panni sudici».
«Quanto a me» disse Giannettino lasciando di scrivere, «so che i] viso me lo lavo tutte le mattine e l’ho sempre pulito...»
«E le mani?...» domandò il dottore con un sorrisetto maligno.
«Di certo, anche le mani le ho sempre pu...»
Ma non poté finir la parola, perché nell’atto di far vedere le sue mani, si accorse che l’indice e il dito grosso della mano destra erano così tinti d’inchiostro, che parevano due cannelli di brace.
«O quella macchia d’inchiostro?»
«Ecco... dirò...» rispose il ragazzo, cercando una scusa «stamane ho dovuto ricopiare il componimento... e la penna era tanto cattiva... E io non ho mai sentito dire che l’inchiostro sia una cosa sudicia».
«Finché l’inchiostro è nel calamaio» replicò il dottore «non è davvero una cosa sudicia; ma quando lo vedo sulle dita dei ragazzi, dico la verità, non m’è parsa mai una cosa molto pulita».
Non mangiarti le unghie: non grattarti il capo.
Giannettino, lesto lesto, si portò le due dita macchiate alla bocca, per lavarsele colla saliva.
«Fermati!» gli gridò il dottore. «In questo caso il rimedio è peggio del male».
«Perché?»
«Perché non sta bene lavarsi le mani con la saliva; e se qualche volta accade lì per lì di dover ricorrere a questo ripiego, bisogna usare molta circospezione e regolarsi in modo che nessuno se ne accorga: e non fare come hai fatto tu e come fanno tutti, che si lavano le mani colla saliva, colla stessa disinvoltura come se fossero alla catinella di camera. Andiamo avanti; e le unghie?»
A questa domanda inaspettata, Giannettino tornò a nascondersi le mani e rispose un po’ confuso:
«Le ripulisco tutte le mattine, ma dopo cinque minuti mi si anneriscono daccapo...»
«E perché non porti in tasca un fuscello, una lamettina, o uno stecchino d’osso per potertene servire al bisogno?»
«Avete ragione; lo farò».
«In quanto alle unghie, ho notato in te un altro brutto vizio».
«E sarebbe?»
«Quello di mangiartele».
«Sta’ un po’ a vedere che non sarò nemmeno padrone di mangiarmi le unghie!... Mangio forse la roba degli altri?...»
«Io ti ripeto che è un brutto vizio, e che bisogna correggersi per tempo».
«Ebbene, mi correggerò...» disse Giannettino; e senza avvedersene, si avvicinò l’unghia del dito grosso alla bocca.
«Giù quel dito!» gridò il dottore.
A quell’urlo il ragazzo ritirò la mano con tanta velocità, come se se la fosse scottata; poi soggiunse:
«È proprio destino. Si dice di volersi correggere di un difetto, e subito vi si ricasca... Bisognerebbe avere... non so come dire... bisognerebbe che tutti i ragazzi avessero...»
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