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L'abbraccio perfetto
L'abbraccio perfetto
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L'abbraccio perfetto

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About this ebook

“Non tentare di Cambiarmi. Non tentare di Seguirmi.
Non tentare di Plasmarmi. Puoi solo tentare di Capirmi.
Le idee salveranno il Mondo. Sempre.
Ogni tuo gesto, se lo vuoi, se te ne accorgi,
è una danza in simbiosi col mondo che ti circonda.
Mi pare strano. Anche perché un uomo così non esiste.”

Può un legame temporaneo rimanere per sempre nelle menti delle persone? È il momento da vivere fuori dagli schemi, che regala emozioni uniche. Il Mondo cambia ad una velocità vertiginosa e le persone cambiano di conseguenza. Cosa c’è di meglio di una serata in cui il tuo incontro rimane perfetto, impeccabile?
Una persona ha fatto una scelta unica, figlia del coraggio: lanciare un segnale dai profondi valori in una società che accoglie sempre più la superficialità tra le proprie fila e la contestualizza come normalità.
Come può un uomo rendere indimenticabile un banale primo approccio? Una giornalista caduta nella tela del ragno indaga su qualcosa di prevedibile, che scopre diventare incredibile sotto i suoi occhi.
Mistero, fascino, attrazione, azione, imprevisti. Una catena di eventi sfiderà il Destino: nulla accade per caso.
Nulla accade, se non all’insegna di un uomo, che non ha un nome: J.
LanguageItaliano
PublisherLIBRINMENTE
Release dateJul 3, 2014
ISBN9788897911326
L'abbraccio perfetto

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    L'abbraccio perfetto - Kempes Astolfi

    http://www.librinmente.it

    ****

    A Mia Madre. E a Mia Sorella.

    A tutti gli Amici, quelli veri.

    Non sempre sono i miei primi fan,

    ma sono coloro che mi hanno aiutato a crescere, contribuendo

    coi loro pensieri, le loro emozioni, il loro modo di vedere le cose,

    alla creazione di questo libro.

    Grazie.

    Introduzione

    Alcuni personaggi del libro esistono realmente, sotto diverso nome. Alcune situazioni narrate in queste pagine si sono verificate veramente. Tutti i luoghi, le canzoni, e gli oggetti descritti sono autentici.

    Benvenuti là, dove finzione e fantasia si mescolano con la realtà, dando vita ad un mondo tutto nuovo.

    Il Mondo della Vostra Immaginazione.

    Kempes Astolfi.

    Prologo

    «Fermo!»

    La sua corsa era in realtà una rincorsa. Correva per le vie di una città che, in fin dei conti, non conosceva così a fondo, pur essendoci stato quasi cinquanta volte.

    Quell’uomo però, rincorreva anche il tempo. L’aereo sarebbe partito entro pochissimo.

    La situazione era inusuale. In momenti del genere ognuno reagisce in maniera diversa.

    Sul suo viso traspariva un sorriso isterico: sembrava elettrizzato. L’abbigliamento di certo non lo aiutava: le eleganti scarpe blu scuro Georges erano abbinate al completo Pal Zileri, quasi da gran galà. Entrando così vestito in un pub in quella zona della città, quasi tutti non potevano fare a meno di notarlo. Ed era esattamente quello che lui voleva.

    Le vie di Fatih, vero quartiere storico di Istanbul, di notte sono qualcosa di magico: il tempo sembra essersi fermato da secoli.

    L’inconsueto inseguimento si svolgeva lungo Balat, ripidissima via con case ottomane colorate d’intenso, messe in risalto dalla luce della luna piena. Se ci si fermava ad osservare a lungo quell’agglomerato urbano, l’unica sensazione che si poteva provare era quella di sentirsi come catturati, fagocitati da quel fiume di case, quasi a sembrare un’unica, immensa struttura. Il quadro si completava coi pochi passanti increduli ad osservare la singolare scena. Benché se ne dica, Istanbul non ha zone davvero pericolose, anche alle quattro di notte.

    Il problema dell’eventuale pericolo tra i due contendenti però, non esisteva.

    L’uomo continuava a correre, inseguito da una donna a piedi nudi. Lei era vestita con un completo millefiori intero; l’aveva indossato come la prima cosa che le era capitata a tiro, tanto che si vedevano ballare un po’ tutte le forme. Di questo però, la donna non si preoccupava: sapeva come correre.

    «Fermo!» continuava a gridare all’uomo ogni tanto.

    L’altro correva a perdifiato muovendo a ritmi alterni le braccia, con la giacca blu scuro che sventolava, ciclicamente, a tempo. Poteva sembrare quasi Batman, se non fosse stato per la maschera che non aveva. Forse era proprio perché non si copriva mai il volto che non poteva rimanere più di qualche ora in loro compagnia. Avrebbe potuto eludere quasi tutte, ma quella era una situazione a rischio, e non se era accorto.

    Eppure il campanello d’allarme sarebbe dovuto scattare ascoltandola attentamente, cosa che di solito accadeva. Quel giorno però, non aveva fatto come di consueto il riposo pomeridiano che lo aiutava a rimanere lucido ed in perfetta forma per le ore notturne.

    Si era perso qualcosa, in effetti: una frase in particolare a cui, in quel momento, non aveva dato così peso: «Sono un’atleta della nazionale italiana di mezzo fondo, siamo qui per uno stage.»

    In poco tempo, come suo solito, aveva fatto tutto. Gli era bastata un’oretta scarsa.

    ‘Entra, individua la preda, studia tutto attentamente per cinque minuti.

    Sorridi, e passa all’azione.’

    Non sembrava sempre così facile eppure lui rendeva tutto di una semplicità disarmante. Quella sera avrebbe dovuto mollare. Con una qualunque donna non ci sarebbero stati grossi problemi. In caso di eventuale imprevisto, però, farsi inseguire da un’atleta in perfetta forma poteva non risultare un problema di facile soluzione: aveva scelto quella sbagliata per fare un errore.

    Soprattutto per una fuga a piedi. O di corsa. Ma lui non doveva sbagliare. Non poteva. Mai.

    Il suo volo era alle sette: doveva essere all’aeroporto per il check in con almeno due ore d’anticipo; per fortuna il conto era già stato pagato.

    Perché strafare?’ si ripeteva correndo. ‘Questa è l’ultima volta che forzo le cose così.

    Che lei soffrisse d’insonnia non poteva saperlo. Visto che era proprio il suo, di sonno, a mancare per l’estrema stanchezza, l’uomo aveva dimenticato di domandarlo in fase di approccio; col tempo era diventato routine sollevare la questione. Proprio per l’inusuale spossatezza, erano state valutate erroneamente anche le fasi del sonno: accostando la porta della camera d’albergo la donna si era svegliata. L’uomo pensava comunque di avere un discreto vantaggio. Correre in quella maniera lo faceva sentire bene. Sicuramente non aveva fatto nulla di male, come sempre. Questione di punti di vista.

    «Fermooo!» urlò la donna con tutto il fiato che aveva in gola; qualche luce si accendeva negli antichi palazzi ottomani della metropoli turca.

    «Perché fai così?»

    Pochi minuti prima passeggiava tranquillo, fischiettando. Era contento di avere assolto il suo compito; stava per aprire l’agendina Moleskine color arancione, che portava sempre con se per scrivere qualcosa a riguardo, quando sentì un urlo: «J!»

    Si girò di scatto e la vide. J iniziò a correre, e lei, a un centinaio di metri di distanza da lui, iniziò, quasi d’istinto, l’inseguimento. Inseguirlo poi… per cosa? Ormai J era stato quasi agganciato dalla possente corsa dell’atleta: la sua mano lo stava per afferrare. Era a pochi passi.

    «Ahi!»

    J si voltò di scatto, rallentando. La super atleta aveva preso una distorsione. La corsa della donna si era fermata: non sembrava nulla di grave. Ormai fermo J aprì le braccia verso il basso con un sorriso accennato, senza parlare, come a dire: ‘Mi dispiace’

    Un Taxi di lì a pochi metri attendeva qualche turista fuori da un club. J lo fermò e salì, senza più voltarsi. Una donna appena uscita dal locale aveva osservato gli ultimi attimi della bizzarra scena. Si avvicinò per aiutare la donna.

    «Posso aiutarla?»

    «No, grazie, sto bene», disse tirandosi su, mentre zoppicava vistosamente verso il taxi, ormai sfrecciato via, come ad indicare la direzione che l’istinto ancora gli diceva di percorrere.

    «Cosa le ha preso quell’uomo?»

    «...Non… lo… so.»

    Capitolo 1

    ‘Jim? Julius? Jermaine? John? Era un nome banale oppure originale? O un cognome?’

    Quanti ne potevano iniziare per ‘J’? Il nome completo era importante, ovviamente.

    Fondamentale per la sua ricerca. Ma il nome era solo il simbolo. Il simbolo di cosa rappresentava quell’uomo per lei. Lisetti iniziava a perdere la speranza.

    ‘A parte che solo col nome non ci faccio nulla. Mi servono cognome e nome per rintracciarlo davvero.’ Solamente nella città di New York erano settantuno. Doveva avere lavorato anche qui per qualche tempo.

    ‘Come mai sono così tante le donne colpite e a distanza a volte di mesi, a volte di anni? Qual è il suo modus operandi?’

    Lisetti era sempre stata una tipa pragmatica ma questo mistero riempiva di quesiti la sua vita; domande, al momento, senza risposta.

    Era alla sua nona intervista e non sapeva se aveva voglia di sentirle davvero tutte. Provava sensazioni contrastanti al riguardo, che andavano oltre la volontà. Se da una parte si rischiava di avere interviste in fotocopia, dall’altra la determinazione e la speranza di scoprire qualche ulteriore cavillo la spingeva ad andare avanti; era quel flebile auspicio che un nuovo indizio, qualcosa di definitivo, la portasse finalmente sulla giusta strada. Per sua fortuna lei vedeva oltre, col suo sogno che si sarebbe materializzato.

    ‘Devo essere scientifica: un vero e proprio automa. Voglio andare avanti e non fermarmi mai. Alla fine arriveranno i premi, ne sono certa. Un premio sarà sicuro. Ma sono abbastanza convinta anche del secondo’ pensava con feroce determinazione.

    Assorta in una miriade di pensieri, Lisetti camminava ad un ritmo tutto suo, diverso dal passo svelto del newyorkese medio. Era sulla quattordicesima est in direzione Union Square dove una brezza risoluta creava caratteristici vortici che si innalzavano e facevano volare piccoli oggetti, foglie e terriccio per qualche secondo. Lisetti rallentò, ulteriormente; si tolse gli occhiali da riposo e si mise ad osservare per qualche attimo quelle spirali. J era come quel mulinello: si alzava, impetuoso, roteava, lo ammiravi a bocca aperta... Il tempo di un attimo. E vedevi la bellezza svanire. Ne potevi solo percepire la leggerezza quei pochi, intensi momenti.

    ‘Per tutte la stessa cosa. Tutto è così bello perchè è così intenso misterioso e.. Breve? O c’è dell’altro?’ rifletteva.

    Lisetti era completamente assorta nel suo mondo personale. Quel gennaio del 2012 era stato un mese eccezionalmente bollente nella grande mela. Di solito, a quelle latitudini c’era poco da stare allegri con l’inverno. Lisetti era uscita quella mattina ben coperta. Venne presa alla sprovvista da quell’ondata di caldo eccezionale: non guardava quasi mai le previsioni del tempo. Lei, dopo un anno di quasi fissa dimora, non si era ancora completamente abituata. ‘Bisogna coprirsi? E come? Quanto? Anche a Londra non scherziamo mica con gli sbalzi di temperatura; sono temprata e pronta a tutto’ pensava.

    La sua testa viaggiava, vagava, qua e là; spaziava dai pensieri su J a quelli personali, alle quisquilie. Il suo cappotto marrone chiaro l’avvolgeva in un alone di mistero ed i capelli ricci e biondissimi svolazzavano leggermente coperti da una sciarpa color avana. Gli occhi verde chiaro erano espressivi ma spesso, come quel giorno, coperti da un paio di occhiali con lenti da riposo: uno dei pochi vezzi estetici che si concedeva. Quell’oggetto serviva per coprire soprattutto il suo sguardo. Quell’espressione intensa, determinata, come lei era sempre stata, la considerava un suo patrimonio personale, di cui era gelosissima.

    Solo io posso decidere chi mi deve vedere per come sono realmente. Mi concedo a chi dico io, come dico io’ si ripeteva spesso.

    A volte la sua autocelebrazione si alternava a dubbi in un vortice di miliardi di pensieri che era la risultante delle sue riflessioni; questo produceva la testa di una donna in carriera, fortemente determinata. Questo era, in quell’esatto momento, Amanda Lisetti.

    ‘Chi ha gli occhi chiari di solito tende a mostrare la sua bellezza. Io mi proteggo.’

    Quel leggero vento tra l’altro irritava le sue delicate pupille facendole chiudere gli occhi ad ogni folata. Lisetti aveva ripreso a camminare quasi sforzandosi di lasciare gli occhi aperti per cercare nuovi mulinelli. Il suo camminare alternava momenti con passo deciso a momenti in cui tentennava. Quando pensava allo sviluppo della carriera, accelerava;

    ‘Niente mi può fermare, lo troverò’. Pensando al lato sentimentale della storia, invece, rallentava. I perché entravano nella sua testa e non ne uscivano. L’alternarsi di passi durava il tempo di una spirale. Ed il modo di camminare tornava ad essere deciso, determinato.

    ‘Io sono una macchina da notizie’, si caricava.

    ‘Come lo trovo?’, oscillava, quasi danzando, nel vento.

    Dovrei sfruttare meglio le interviste… certo, la maggior parte delle donne mi ha contattato direttamente dal blog; sono tutte propense al racconto’ si fermò; sorrise. ‘Ovviamente solo per scoprire chi fosse J.’

    Serviva una svolta. ‘Questi mesi sono stati un viaggio fantastico ma…’

    Lisetti non aveva ancora bene in mente tutto quello che andava fatto per trovare una soluzione vincente; anche se voleva trovarla a tutti i costi, con tutte le sue forze.

    Aveva iniziato a riordinare le idee un anno e mezzo fa quando, in vacanza a Cape Town con due amiche, lo riconobbe e lo inseguì per mezza città. Era quasi certa fosse lui, nel vederlo seduto a quel tavolo ed alzarsi senza staccare lo sguardo da quella ragazza. J gli era appena passato accanto, ed un leggero vento di Chanel gli inebriò l’olfatto. Fu in quel momento che iniziarono ad affiorare i ricordi del suo ‘Abbraccio Perfetto’: come flash abbaglianti, impetuosi, veloci, Lisetti avvertiva forti sensazioni. Intense e mai più dimenticate. Dopo qualche attimo di sbandamento si spostò da un’altra angolazione del locale in maniera da poterlo vedere in volto.

    J si intratteneva amabilmente con una ragazza mora, in leggero sovrappeso. Lei non sembrava resistere alle sue lusinghe; sorrideva nervosamente, si passava le dita nei lunghi capelli lisci, attorcigliandoseli. J era nella fase aggancio: regale ed elegante, davanti a lei. La guardava negli occhi, pieno di armonia e sicurezza. Come quando l’aveva visto la prima volta, aveva ancora una barba leggermente incolta, ma capelli poco più lunghi di come li ricordava: lisci, fluenti, brillanti; poteva anche avere avuto qualche dubbio solo guardandolo ma quella voce… come dimenticarla? Impossibile. Come già avvenuto con lei, anche in quell’occasione, J aveva appena pronunciato quella frase che gli era rimasta tanto in testa.

    «Non vorrei sembrarti scortese a dirti se ti va di uscire di qui ma…»

    Quell’ancoraggio aveva avuto un impatto travolgente per Lisetti perché, mentre articolava quelle parole, J si era alzato delicatamente dalla sedia per poi rimettersi subito a sedere. E le successive interviste avrebbero confermato che quello era un suo ‘Must’. Quella sentenza non l’aveva più dimenticata. Soprattutto per il dopo; come si faceva a dire di non essere scortese e poi a fare quello che avrebbe fatto?

    Ormai ne era certa. Anche perché, per quale motivo un uomo sarebbe dovuto scappare in quel modo non appena lei aveva urlato nel pub il suo ‘nome’: J! D’improvviso smise di ricordare. La sua immaginazione si interruppe di colpo, come i suoi passi, che erano diventati un gesto ripetitivo e quasi scontato. Il trillo ripetuto del suo telefono cellulare l’aveva riportata alla realtà newyorkese.

    «Dove sei?»

    Lisetti riprese a camminare. Un numero conosciuto, una voce scontrosa e rumori di sottofondo di fermento. Le sue gambe si rimisero in moto, in maniera automatica, di nuovo, col passo deciso della donna in carriera.

    «Sto arrivando»

    «Sbrigati, c’è un aggiornamento»

    «Un agg… cosa? Dimmi di cosa si tratta?!?»

    «Ti aspetto, muoviti.»

    Il vento era diventato più intenso, come la tempesta che aveva dentro. Il suo camminare, improvvisamente, divenne una corsa.

    Capitolo 2

    ‘Forse iniziano ad essere troppe. O forse no?’

    Il silenzio di Copenaghen alle cinque di mattina era quasi imbarazzante. In realtà il silenzio è una delle caratteristiche principali della città, soprattutto in inverno. Anche a Radhusspladsen, la piazza principale della città, la situazione era la medesima, ma solo in certe ore della giornata. J la attraversava a passo svelto, con un cappotto avana ed un colbacco, che amava. Faceva molto freddo. Il termometro al lato della piazza indicava meno nove gradi. Un leggero vento di tramontana caricava la sensazione del freddo percepito. Qualche lacrima scendeva, forzosamente, dagli occhi color celeste ghiaccio. Aveva appena finito di scrivere sulla sua agendina arancione qualche appunto fugace.

    ‘Non porti il problema, non ti riguarda’ pensava.

    Il dialogo interno si faceva sempre più contrastato; quella voce era pronta, spesso, a demonizzare questa routine. L’aveva fatto talmente tante volte che ormai si trattava di qualcosa di automatico. La cosa più bella, a suo parere, era il dopo. Più precisamente quei momenti la mattina presto, dove dava il meglio di sé: riflessioni, quesiti, a volte risposte. Domande su domande albergavano nella sua testa: ‘Gli sarà piaciuto?’, ‘Avrà capito il messaggio?’. Quello era il momento che tanto attendeva, che tanto voleva e che ogni singola volta valeva tutto quello per cui lottava. J immaginava mille maniere diverse in cui lasciava la malcapitata di turno senza parole. Quello che vedeva dentro di sé era come un film: ed era ogni volta diverso. Ogni tanto scendeva silenziosamente qualche lacrima; in fondo J non era un uomo malvagio. Lui si sentiva bene a fare quelle cose. Ed ogni volta, se c’era qualcosa che non andava, la sensazione di benessere, di fare qualcosa di più profondo, era superiore a qualunque disagio. Provava qualcosa di emozionante all’altezza del ventre; un calore che saliva dalle sue viscere fino al cuore: era il suo contributo al mondo. Quella era la passione che sentiva crescere dentro ogni volta che, nel cuore della notte, sgattaiolava via furtivo dalla zona del misfatto.

    ‘Devi andare via di qui.’

    Passeggiava, camminava; a volte correva. Si sentiva realizzato. Non riusciva a smettere, era più forte di lui.

    ‘Cosa penserà domani? Ci sarà una svolta nella sua vita? Avrà capito?’ rimuginava con un mezzo sorriso. Se le sue azioni equivalevano alla gratificazione di avere lanciato e lasciato un qualcosa di superiore, a volte si domandava se fosse stato il caso di porre fine a quella incredibile serie di avventure. La sua speranza era che loro potessero comprendere. Non dovevano dimenticare il suo messaggio. In ogni mattina, appena finito di operare, il tempo sembrava rallentare, per poi dilatarsi e rifiatare. La sua felicità si alternava ai dubbi, in un’altalena di emozioni. Sensazioni.

    ‘Fermarsi? E per quale motivo?’ rifletteva mentre camminava.

    Le perplessità duravano lo spazio di un attimo. La prova era sempre diversa ma lo scopo finale era comunque lo stesso; quando J si ricordava la sua vocazione, il suo pensiero tornava con determinazione e prepotenza alla sua mission: si autoconvinceva che niente gli avrebbe fatto cambiare idea.

    ‘Devi andare via di qui’. Spesso riecheggiavano nella sua mente queste parole.

    Ogni singola volta che un microscopico dubbio di J rischiava di increspare le sue credenze, rispondeva con quella frase, come un riflesso incondizionato: c’era sempre una buona scusa per auto pronunciarsele.

    La partenza era fissata domenica mattina prestissimo, come solitamente la sua azienda commissionava; per dare un imprinting di estrema serietà ed affidabilità dei suoi collaboratori, anche l’uomo di punta doveva eseguire il protocollo alla lettera.

    La ‘WellDone’ lavorava così: arrivo domenica in giornata, studio della situazione dal lunedì al mercoledì; risoluzione del problema dal giovedì al venerdì. Questi erano i tempi standard, salvo poi eccezioni, come un viaggio da un continente all’altro. In quel caso l’azienda prendeva dieci giorni, al massimo due settimane. Se tutto filava liscio, e lo andava sempre, il sabato era il giorno libero di J. Se aveva lavorato bene, poteva scegliere di vagare per la città di turno, studiarla o fare il turista, dormire tutto il giorno.

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