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Vuoti di memoria
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Vuoti di memoria

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About this ebook

Il desiderio di sfuggire a un passato doloroso e insopportabile spinge un giovane ricercatore di fisica verso una nuovissima tecnologia di manipolazione della memoria.Sullo sfondo della storia c’è l’attualissimo, irrisolto, problema sulla sicurezza delle centrali nucleari in un momento in cui il mondo intero è sprofondato in una profonda crisi energetica.

Antonio De Marinis, questo è il nome del giovane, si trova involontariamente coinvolto in complotto internazionale in compagnia di una giovane ricercatrice che lavora in una clinica molto particolare.

Per i due ragazzi inizia una fuga rocambolesca che li vede inseguiti da una spietata coppia di malviventi che si avvale di mezzi e tecnologie avanzatissime.
LanguageItaliano
Release dateDec 29, 2013
ISBN9788868853570
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    Vuoti di memoria - Antonino Di Maio

    Sommario

    Antonino Di Maio

    Vuoti di memoria

    Copyright©2012 Antonino Di Maio

    185, Corso Italia

    80067 Sorrento (Na) - Italy

    Tutti i diritti sono riservati.

    Vuoti di memoria

    di

    Antonino Di Maio

    a Mauro

    1.

    Come accadeva ormai da un po’ di giorni, appena rientrato a casa dal lavoro, mi precipitai nella stanza del computer per controllare la posta.

    In verità, prima di ogni altra cosa, avrei gradito una bella doccia rinfrescante, ma non ce la facevo proprio ad aspettare. Così, mentre l’hard-disk rumoreggiava avviandosi troppo lentamente, mi sfilai gli abiti che si erano appiccicati addosso a causa del caldo bestiale di quella torrida fine estate. Finalmente apparve la schermata di accesso e la richiesta della password. Ci vollero ancora tanti, interminabili secondi prima che il programma della posta elettronica iniziasse a scaricare i messaggi in arrivo.

    La solita e fastidiosa sequenza di spam invase lo schermo facendo scorrere ritmicamente l’elenco dei messaggi e causandomi una frustrante sensazione di rabbia.

    Infine apparve.

    Stava giù, proprio in fondo alla lunga lista. Quasi non ci speravo più e invece l’inconfondibile intestazione faceva bella mostra di sé spiccando tra le altre.

    Dopo tanta attesa, esitavo ad aprirla: un po’ mi spaventava. Temevo che il suo contenuto non fosse quello sperato.

    Fissavo imbambolato il monitor senza decidermi a leggere il messaggio. Non saprei dire quanto tempo passò prima che, pigiando il dito indice sul tasto sinistro del mouse, aprii il documento per leggerlo.

    "Egregio signore,

    a seguito della sua richiesta n. XA-534-LU1, inviataci il giorno 18 agosto 2014, Le comunichiamo quanto segue.

    Dall’esame della documentazione risulta che Lei è in possesso dei requisiti necessari per accedere al nostro programma.

    La invitiamo pertanto a prendere contatto con la nostra sede di Roma, in via San Vitale n. 19 - Numero verde 800 807199

    Per attivare le successive procedure di verifica è indispensabile confermare telefonicamente la sua disponibilità per il primo incontro fissato per il giorno 18 ottobre 2014.

    Cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri distinti saluti.

    Valerio Farina

    Dirigente VII Dipartimento L.E.C. Sud-Europe"

    Era fatta! pensai.

    Rilessi il testo almeno cinque volte per convincermi di aver inteso bene; non c’erano dubbi: ero stato ammesso alla procedura.

    Non stavo più nella pelle ma, sebbene l’aspettassi con ansia da giorni, quella notizia mi aveva sconvolto.

    Stava finalmente per finire il tempo degli incubi, delle speranze tradite: la mia vita sarebbe cambiata.

    Poi fu questione di un attimo; nonostante il caldo che regnava nella piccola stanza e il velo di sudore che ricopriva la superficie del corpo, un brivido freddo mi percorse la schiena dall’alto in basso: ci avevo pensato bene?

    Stavo per cancellare una parte importante, seppur tremenda, del mio passato, senza possibilità di tornare indietro. Ero proprio certo di volerlo fare?

    Durò poco, la razionalità prese di nuovo il sopravvento: era proprio questo che desideravo.

    Ci avevo pensato a lungo, quasi due anni. Avevo valutato più volte i pro e i contro e, in piena consapevolezza, avevo deciso di inviare la domanda alla L.E.C..

    Quel giorno avevo avuto la convocazione per l’avvio delle procedure.

    Come sarebbero state? Facili, lunghe, complesse, seccanti, dolorose?

    Non lo sapevo ancora e non me ne importava. In quel momento l’unica cosa importante era che avessero accolto la mia richiesta.

    Mancava poco meno di un mese al 18 ottobre. Mi sarei messo al più presto in contatto con la sede di Roma per confermare l’appuntamento.

    Solo in quel momento mi resi conto che, a causa dell’eccitazione, dell’aria calda e dell’umidità che regnava nella stanza, grondavo sudore, tanto da gocciolare sul vecchio pavimento in cotto: era arrivato il momento di una bella rinfrescata. Così, lasciato il computer acceso con la lettera in bella mostra sullo schermo, mi buttai sotto il piacevole getto freddo della doccia. Vi rimasi a lungo cercando di abituarmi all’idea che avrei davvero cambiato vita.

    2.

    «Dove andiamo, dottò?»

    «Via San Vitale 19, per favore.»

    Il taxi si mosse dalla corsia riservata di Via Marsala, nei pressi della stazione Centrale di Roma, per immettersi nel traffico della capitale.

    Il mio piccolo viaggio stava volgendo al termine; il treno locale che da Frascati mi aveva portato a Roma contrariamente al solito era arrivato quasi in orario. Avevo scelto di spostarmi con i mezzi pubblici perché nella zona di Via San Vitale avrei avuto grossi problemi a trovare parcheggio e non volevo arrivare in ritardo all’appuntamento.

    Il taxi, nonostante le corsie preferenziali, procedeva lentamente a causa del traffico molto inteso. Ne approfittai per mettere in ordine le idee, come avevo già fatto durante il tragitto nel treno vecchio e sporco che mi aveva portato nel cuore della città.

    Quando avevo lasciato casa cadevano alcune gocce di pioggia, ma in quel momento un pallido sole invernale illuminava la capitale. Indossavo un paio di jeans, scarpe di ginnastica, una camicia bianca con un pullover di lana leggera di colore blu e un giubbotto impermeabile di colore rosso.

    Ancora una volta, come tante altre negli ultimi mesi, l’incertezza affiorava subdolamente a turbare i miei pensieri. La cosa che mi affliggeva era sempre la stessa: l’irreversibilità della scelta.

    Mi sentivo come chi si lancia la prima volta col paracadute. Nella fase di preparazione tutto sembra chiaro e non si vede l’ora di saltar fuori. Quando invece si è lì, fermi sulla soglia del portellone e l’aria fredda avvolge tutto il corpo, invade i polmoni e si viene strappati verso l’esterno, nel vuoto, si sa che si sta lasciando la sicurezza offerta dal velivolo. Sembra di aver dimenticato tutto, di non essere ancora pronti. Sopraggiunge il panico, perché si sa che, una volta balzati fuori, nel vuoto, non si potrà più tornare indietro.

    Eppure la mia decisione era maturata lentamente, senza forzature, senza l’influenza di emozioni forti. Piuttosto, avevo preso la decisione dopo infinite riflessioni; quindi non si poteva dire che fosse avventata. Avevo messo sui due piatti della bilancia tutte le possibili implicazioni, i pro e i contro, e mi ero preso tutto il tempo necessario per consentire all’ago di orientarsi.

    Ero consapevole che quanto mi accingevo a fare mi avrebbe procurato molte sofferenze ma ero certo che ne avrebbe evitato di peggiori.

    Il tassista ascoltava con attenzione la radio sintonizzata su un’emittente locale che affrontava, con la dovuta serietà, la profonda crisi in cui versava la squadra della Lazio. Di tanto in tanto l’uomo emetteva un grugnito indecifrabile che, nelle sue intenzioni, doveva essere un commento da condividere con me. Stavamo per giungere a destinazione. La mia inquietudine cresceva man mano che ci avvicinavamo a via San Vitale.

    Quello a cui stavo andando era solo il primo incontro, immaginavo abbastanza informale; la strada da percorrere sarebbe stata invece molto lunga. A partire da quel giorno, tirarmi indietro sarebbe stato sempre più difficile.

    Da quanto avevo appreso, fino al termine di tutto il procedimento sarebbero passati alcuni mesi. Un periodo intenso, impegnativo e doloroso.

    «Dottò, sono 8 euro e 40. Grazie.»

    Distratto da queste mie elucubrazioni non mi ero accorto che il taxi si era fermato dinanzi a un cancello. Pagai il tassista e scesi dall’auto. Mi soffermai a guardare il grande cancello verde alla ricerca del numero civico. Non dovetti impegnarmi molto perché proprio sul pilastro di destra spiccava il numero 19: era proprio quella la sede della L.E.C..

    All’interno scorsi un palazzetto signorile, di tre piani, circondato da un curatissimo parco con alberi e aiuole fiorite. Un ampio scalone conduceva all’ingresso costituito da un grande portone di legno e vetro. Gli stucchi e le decorazioni della facciata, dalle tinte tenui, conferivano all’insieme un’aria di sobria e antica eleganza, impreziosita dal silenzio del quartiere che si contrapponeva al rombo del traffico cittadino.

    Una rapida occhiata all’orologio m’informò che ero giunto lì con circa mezz’ora di anticipo. Erano le 10,30 e l’appuntamento era fissato per le 11,00. Avrei dovuto aspettare un bel po’ e non mi andava di starmene seduto in una sala d’attesa. Gettai lo sguardo nelle due direzioni e così individuai, non distante, l’insegna di un bar. Mi dissi che un caffè era proprio ciò che ci voleva in quel momento e così mi incamminai verso il bar.

    Presi il caffè al banco e, già che mi trovavo, assaggiai anche un bombolone alla crema che contribuì a migliorare il mio umore, fino ad allora non eccellente.

    Per impegnare ancora un po’ di tempo passai distrattamente in rassegna tutte le vetrine della strada finché, alle 10,50, mi ritrovai di nuovo dinanzi al cancello. Pigiai sull’unico pulsante del lucidissimo citofono in ottone e attesi la risposta.

    Una voce maschile mi chiese chi fossi e, quando mi annunciai, il sibilo di un silenzioso motore elettrico anticipò l’apertura di un’anta del cancello.

    Esitante, salii i gradini dello scalone ma, prima che potessi bussare al campanello, un signore sulla cinquantina, in completo blu scuro, mi aprì la porta vetrata invitandomi a entrare.

    «Prego signore, mi segua, la faccio accomodare nel salotto. Il dottor Farina la riceverà tra pochi minuti», disse ossequioso facendomi cenno di seguirlo.

    Nella stanza in cui mi fece accomodare regnava un’atmosfera ovattata, favorita dai grandi tappeti che ne ricoprivano in buona parte il pavimento di marmo bianco e grigio. Tre divani di velluto rosso scuro circondavano un basso tavolo di cristallo di forma circolare. Il tizio, facendo un cenno con il capo e indicando i divani, abbandonò la stanza lasciandomi solo. Sul tavolo spiccava un grosso cesto ricolmo di frutta fresca. Dall’alto pendeva un grosso lampadario costituito da centinaia di gocce di cristallo che producevano un’infinità di riflessi scintillanti. Da un’ampia porta-finestra che dava sul parco entrava la luce del mattino che si diffondeva nella stanza. Un delicato profumo di fiori si miscelava con l’odore di polvere, che solitamente si accompagna ai tappeti, scatenandomi un’ondata di ricordi dell’infanzia, di quando soggiornavo a casa di mia nonna, in campagna.

    Erano passati solo pochi minuti quando lo stesso tizio che mi aveva accolto entrò nella stanza seguito da una bellissima ragazza che indossava un tailleur giallo chiaro. La fissai attratto dal suo portamento elegante mentre si avvicinava sfoderando un cordiale sorriso. I tratti vagamente orientali ne caratterizzavano l’incantevole volto, uniti alla carnagione leggermente ambrata, le donavano una bellezza misteriosa. Il suono melodioso della sua voce con vago accento francese risuonò nella stanza.

    «Se vuole avere la cortesia di seguirmi, il dott. Farina la sta aspettando.»

    Annuii alzandomi dal divano e seguii la splendida creatura attraverso l’atrio fino per raggiungere un altro ambiente, molto più piccolo, in cui un ascensore ci aspettava con la porta aperta.

    Scostandosi di lato, la ragazza mi fece cenno di entrare e, una volta che fui nell’abitacolo, mi salutò con il suo formidabile sorriso.

    All’interno della cabina non vedevo tasti con i quali avviare la corsa. Stavo per richiamarla quando, silenziosamente, la porta automatica si chiuse e la cabina iniziò silenziosamente la salita.

    Dopo poco l’ascensore si arrestò e la porta si aprì con un leggero sibilo.

    Cazzo! pensai tra me e me uscendo dall’edificio.

    L’incontro con Farina non era stato facile. Aveva iniziato illustrandomi per grandi linee il programma, poi aveva preso a farmi un po’ di domande. Mi aveva messo subito in difficoltà chiedendomi di mostrargli la tutta la documentazione relativa al mio caso, della quale però ero completamente sprovvisto. Non avevo proprio pensato a portare con me alcuna documentazione immaginando che in primo colloquio non sarebbe stata richiesta.

    Farina non sembrò contrariato ma, intanto, mi aveva già messo a disagio. Alla fine, l’incontro si era tramutato in un fuoco di fila di domande, osservazioni, obiezioni, nel corso delle quali, seppur con cortesia, aveva messo in discussione quelle che fino a poco prima per me erano certezze. Aveva fatto vacillare molte delle mie granitiche convinzioni e mi aveva fatto sentire come uno scolaretto impreparato, o peggio, indeciso e immaturo. Man mano che parlavamo, Farina prendeva appunti e alla fine il foglio che aveva davanti era pieno zeppo di note e di osservazioni.

    Ero preparato a essere rivoltato come un calzino. Sapevo che avrebbero cercato di convincermi a desistere ma non mi aspettavo di uscirne così provato già al primo colloquio. Comunque, così com’era iniziato, il nostro primo incontro si concluse con sorrisi e strette di mano.

    Quando mi ritrovai di nuovo in strada mi sentii come se fossi stato bastonato. Mi sembrava di aver subito l’inquisizione di Farina per un tempo interminabile mentre, solo ora, mi rendevo conto che, da quando ero entrato, era passata appena un’ora e mezza.

    Nonostante tutto, però, mi ritenevo soddisfatto; se Farina mi aveva giudicato idoneo al trattamento, voleva dire non dovevo essere andato poi così male.

    Ancora una volta fu un’email della L.E.C. – Italy a convocarmi per il successivo appuntamento. Arrivò di domenica pomeriggio, la qual cosa mi autorizzò a pensare che in quel posto si lavorava anche nel week-end.

    Il contenuto del messaggio, con i soliti toni distaccati ma garbati, mi avvisava che avrei dovuto presentarmi il giorno 2 febbraio 2015 a Castiglione del Lago, sul lago Trasimeno, presso la loro sede centrale, per incontrare la dottoressa Jaulmes, che mi era stata assegnata come Patient assistant.

    La dottoressa mi avrebbe spiegato con dovizia di particolari tutti i dettagli e seguito lungo tutte le fasi del trattamento.

    Mancavano circa due mesi al 2 febbraio. Perché la prendevano così per le lunghe? Possibile che avessero così tante richieste? Inutile scervellarsi, non avrei trovato le risposte ai miei interrogativi e soprattutto non avrei potuto anticipare l’appuntamento, quindi tanto valeva mettersi l’animo in pace e aspettare. Avrei impiegato questo tempo per sistemare alcune cose di lavoro e per prepararmi all’incontro con questa dottoressa che, probabilmente, era una strizzacervelli.

    Forse quelli della L.E.C. lasciavano di proposito un gran lasso di tempo tra i due appuntamenti per consentire alle persone un’ulteriore, e forse ultima, possibilità di riflessione sulla loro volontà di proseguire nel programma prima che fosse troppo tardi.

    Preso dall’entusiasmo, e differentemente dal mio solito approccio alle cose che mi interessavano, non avevo ancora dedicato molto tempo all’approfondimento dei particolari tecnici del programma e alle teorie su cui si basava.

    Era dunque giunto il momento di mettermi al computer a studiare tutto quanto riguardava la L.E.C. e le tecniche che essi adoperavano.

    La prima volta se n’era sentito parlare alla fine degli anni ’90. Qualche trafiletto sui giornali annunciava che di lì a poco sarebbe stato possibile modificare i ricordi. Come accadeva spesso, la cosa era svanita presto dalle pagine dei quotidiani per rimanere relegata nell’ambito delle riviste specializzate di neurologia. I tempi, infatti, non erano maturi; la scienza era solo all’inizio della strada che, forse, in un futuro ancora da venire, avrebbe portato alla manipolazione delle menti.

    Improvvisamente però, una decina d’anni dopo, la ricerca aveva subito una brusca accelerazione. Alcuni giornalisti affermavano, senza però averne le prove, che questa ricerca era stata sempre tenuta sotto stretto controllo da qualche grande multinazionale. Quando poi un piccolo laboratorio danese sembrava aver finalmente trovato la chiave giusta, si erano riversati nel centro di ricerca ingenti finanziamenti per consentire agli scienziati di portare rapidamente a compimento gli studi e mettere a punto in tempi brevi un’applicazione funzionante.

    La teoria su cui si basava lo studio era apparentemente semplice.

    I ricordi sono costituiti da una sorta di memoria elettrochimica presente all’interno del cervello, più precisamente nella corteccia.

    L’articolo scientifico che mi sembrò più chiaro riferiva che:

    Il processo di memorizzazione modifica le connessioni presenti nella rete neuronale, grazie all'attivazione di un segnale; nei neuroni postsinaptici si attivano geni e proteine; queste ultime si muovono verso le connessioni presenti tra due neuroni, allo scopo di rinforzare o di costruire le sinapsi (i punti di contatto e di comunicazione neuronale). Ogni informazione viene memorizzata grazie alla formazione di una specifica rete neuronale, prima nell'ippocampo e poi nella corteccia, dove viene definitivamente conservata.

    Queste conoscenze indirizzarono l’attenzione dei ricercatori verso l’ippocampo, ovvero la parte del cervello che svolge funzioni importantissime nella formazione dei ricordi, ma sembra che non sia molto attivo nella manipolazione della memoria più antica.

    In un altro articolo lessi:

    "Alcuni ricercatori preferiscono considerare l’ippocampo come parte di un più ampio sistema mnemonico del lobo temporale mediale, responsabile in generale della memoria dichiarativa (ricordi che possono essere esplicitamente verbalizzati - questi includerebbero, per esempio, la memoria semantica oltre che la memoria episodica).

    Alcune prove sostengono l’ipotesi che, sebbene alcune forme di memoria spesso durino per tutta la vita, l’ippocampo smetta di svolgere un ruolo cruciale nella ritenzione del ricordo dopo un periodo di consolidamento. I danni all’ippocampo generalmente portano a gravi difficoltà nella formazione di nuovi ricordi (amnesia anterograda) e normalmente danneggiano anche l’accesso ai ricordi precedenti al danno (amnesia retrograda)."

    Nel piccolo laboratorio danese i ricercatori avevano messo a punto un protocollo che, agendo come una specie di software biochimico, consentiva all’ippocampo di leggere e decodificare la memoria consolidata nella corteccia celebrale, e, successivamente, di alterarla cancellandone delle porzioni. Le tecniche non erano ancora in grado di generare delle memorie nuove, frutto di esperienze mai vissute. I giornalisti erano però certi che ci stavano lavorando e che prima o poi, grazie ai soldi delle multinazionali, ci sarebbero riusciti.

    Per attivare le funzioni si utilizzava un virus, già adoperato in qualche terapia antitumorale, che, penetrando all’interno delle cellule dell’ippocampo, depositava il suo carico di DNA appositamente programmato.

    Le nuove cellule formate con il DNA proveniente dall’esterno erano sensibili a campi elettromagnetici di particolare frequenza, con i quali venivano inviate, previa codifica, le istruzioni all’ippocampo. La tecnica, dopo un periodo di test su animali, sembrava funzionare anche sull’uomo. Non era ben chiaro chi fossero stati i primi a fare da cavie.

    Intanto, nel 2010 erano sorte, nei paesi più ricchi, le prime agenzie paragovernative che si occupavano di cancellare, grazie a questa tecnica, parti di memoria in alcuni soggetti particolari. In genere si trattava di criminali reputati irrecuperabili, ai quali venivano cancellate tutte le memorie dei loro crimini, oppure di persone che avevano subito gravissimi shock che ne avrebbero compromesso il sereno proseguimento della vita.

    Nei primi mesi di attività la selezione dei soggetti era stata scrupolosissima. Prima di essere ammessi al programma era necessario passare diversi gradi di valutazione in cui commissioni di esperti, tra i più importanti sul pianeta, emettevano il loro giudizio sull’idoneità del soggetto. L’accesso al programma era gratuito. Sebbene i costi fossero esorbitanti, coloro che spontaneamente ne facevano richiesta non dovevano pagare nulla all’agenzia. I giornalisti più smaliziati affermavano che questo non era altro che un modo occulto per procurarsi cavie volontarie, senza spendere nulla. A supporto di questa tesi giocava il fatto che, dopo poco più di un anno dall’inizio delle attività, l’accesso al programma era stato esteso anche a casi meno gravi.

    Io rientravo tra questi.

    Quando avevo letto che il programma della L.E.C. era stato aperto alle persone che ne facevano richiesta, non immaginavo neanche lontanamente di poterne usufruire.

    Fu solo dopo qualche settimana, in uno dei tanti momenti in cui mi sentivo proprio a terra, che mi ritornò in mente quella notizia. La sera stessa visitai il sito della L.E.C. e decisi che ci avrei provato. Così, nei giorni seguenti, preparai una sorta di dossier nel quale illustravo le motivazioni che mi avevano spinto alla richiesta e lo inviai, includendo altri documenti a supporto di quanto affermato. Non pensavo che la mia candidatura sarebbe stata presa in considerazione, avevo inviato la richiesta più per dimostrare a me stesso che mi stavo impegnando a risolvere il problema, che con la speranza che essa fosse accolta.

    Leggevo sui forum che quelli non ritenuti idonei ricevevano nell’arco di una settimana una email con le motivazioni. Io invece ero stato giudicato abbastanza sfigato da poter entrare nel programma della L.E.C.. Il mio caso era già stato vagliato due volte ed entrambe mi era stato concesso di andare avanti. Non sapevo se considerarmi fortunato. Comunque, la convocazione a Castiglione del Lago mi impegnava ancora in profonde e continue riflessioni.

    Spesso, durante il lavoro, o magari mentre guardavo un film, mi perdevo a rimuginare se stessi davvero facendo la cosa giusta.

    Fino a poco tempo prima, i fatti che avevano segnato così profondamente la mia vita mi apparivano insopportabili; mi accusavo di essere troppo magnanimo con me stesso, di non avere il coraggio di rinunciare a un’esistenza oggettivamente triste.

    Dopo il primo duro colpo che aveva devastato la mia vita ero stato seguito da valenti psicologi che avevano canalizzato le mie energie in una direzione positiva. La loro azione terapeutica si era rivelata efficace soprattutto nel riportare la razionalità al centro delle mie scelte. Essi avevano abilmente costruito una solida base che mi sarebbe stata utile nel momento in cui avrei tentato di risalire la china. Infatti, col passar del tempo avevo ripreso quasi del tutto il vigore psichico e avevo iniziato a guardare al futuro con maggior ottimismo.

    La stroncatura definitiva era invece giunta proprio nel momento in cui ero proteso nel massimo sforzo per rimettermi in sesto, proprio quando ero al culmine dell’euforia per i buoni risultati che stavano giungendo.

    Fu, come si suol dire, un colpo di fulmine a ciel sereno. Con l’imprevedibilità e la forza distruttiva di un terremoto, accadde ciò che non doveva accadere. Così la mia vita era di nuovo precipitata nel baratro dal quale stavo appena provando a venir fuori.

    Questa seconda volta non c’erano stati psicologi, non c’era stato clamore. Tutto era ricaduto sulle mie spalle, che però non erano più così forti da sopportare quel terribile peso.

    Alle soglie dei quarant’anni, quando ormai ero convinto che la mia esistenza fosse irrecuperabile, ecco apparire inaspettatamente la L.E.C., con la sua capacità di cancellare la memoria. Una soluzione forse poco onorevole, ma di sicuro effetto: l’eliminazione biochimica di una parte, quella peggiore, indesiderata e dannosa, del mio passato.

    3.

    Ero davanti a una bella villa circondata da un rigoglioso parco. Chissà perché mi sarei aspettato una palazzina moderna, qualcosa di più simile a un ospedale o a una clinica piuttosto che a una residenza di lusso.

    Alla fine del viale alberato, costeggiato da piante e fiori, coloratissimi nonostante la stagione invernale, giunsi al lussuoso ingresso. Lungo il tragitto, un profumo di bosco donava alla silenziosa atmosfera un’aura quasi magica. Nonostante fossero le dieci del mattino, mi colpì il fatto che in giro non si vedeva anima viva. All’esterno della villa c’erano numerose telecamere di sorveglianza.

    Fui accolto da un uomo sulla cinquantina, in abito scuro, con tanto di cravatta. Cercai, senza successo, un distintivo o un fregio sulla sua giacca che lo identificasse come un dipendente della L.E.C.; sembrava piuttosto un uomo d’affari inglese che un usciere.

    Entrai nell’atrio nel quale c’era solo un tavolo di legno in stile antico; le gambe sagomate formavano una curva che conferiva al mobile una forma molto elegante. Sul tavolo erano poggiati un telefono e un vaso pieno di fiori colorati che liberavano un intenso profumo.

    L’uomo mi condusse in un lussuoso salotto scusandosi per la breve attesa, ancora un po’ e sarei stato ricevuto dalla dottoressa Jaulmes. Prese dalle mie mani con cortesia il giubbotto per sistemarlo nel guardaroba.

    Rimasto solo mi dedicai a osservare i mobili del salotto: tutta roba antica, abilmente restaurata, certamente di grosso pregio, e valore.

    Una vaga sensazione d’ansia si stava impadronendo di me. Non si sentiva alcun rumore e, ad eccezione dell’usciere uomo d’affari inglese, non si vedeva nessun’altra persona nell’edificio. Era strano che non ci fosse il caratteristico via vai delle cliniche o quello degli uffici. Quella bellissima villa stava diventando nella mia immaginazione una sorta di casa degli orrori e ciò non faceva che aumentare la mia ansia.

    Come se non bastasse sentii delle urla provenire dal parco. Forse più che urla era una persona che parlava a voce alta al telefonino o forse ad una ricetrasmittente. La cosa mi incuriosì al punto da spingermi ad andare alla finestra dove scorsi due uomini armati di pistola che stavano braccando qualcuno. Uno dei due aveva una ricetrasmittente con la quale stava comunicando.

    Rimasi profondamente turbato; non sapevo cosa pensare, non riuscivo a trovare una spiegazione per quanto avevo visto.

    Un senso di forte disagio si stava impadronendo di me; un forte impulso di andar via da quel posto mi spinse a ritornare nell’atrio.

    Avrei voluto dire all’usciere che non mi sentivo bene e che sarei ritornato successivamente, ma non si vedeva nessuno e non si sentiva alcun rumore. D’istinto mi spostai verso la porta d’ingresso senza sapere davvero cosa fare. Ero sul punto di avviarmi verso il viale d’accesso quando l’inequivocabile rumore di uno sparo mi fece gelare il sangue nelle vene. La situazione si stava facendo sempre più inquietante e la mia ansia cresceva a ritmi esponenziali.

    Scelsi di ritornare nella sala d’attesa: probabilmente era il luogo più sicuro in quel momento.

    Varcai di nuovo la soglia del grande salone dirigendomi verso il grande divano sul quale mi lasciai cadere. Per poco non mi prese un accidente: nella stanza c’era un uomo che mi guardava. Stava in piedi, immobile, accostato al muro lateralmente a uno dei finestroni accanto alla pesante tenda di colore marrone. Sul suo volto si leggeva un’espressione di terrore. Ci fissammo reciprocamente per alcuni secondi poi mi fece cenno con la mano di non parlare.

    Il suo sguardo era triste; i capelli brizzolati e qualche ruga in eccesso indicavano che era più anziano di me, all’incirca di una decina d’anni. Era ben vestito e curato nei dettagli. Aveva tutta l’aria di essere un professionista, un avvocato magari oppure un professore universitario, forse per l’aria distinta che mostrava.

    Era chiaro che era lui l’oggetto delle ricerche di quegli uomini. A me non sembrava né cattivo né pericoloso. Tuttavia il fatto di non denunciarne la presenza mi rendeva in qualche modo suo complice. Mi sentivo in grande imbarazzo, non sapevo come comportarmi.

    Intanto che facevo queste riflessioni sentii dei passi: doveva essere l’usciere uomo d’affari inglese che veniva verso il salone. Guardai verso la porta in attesa di vederlo apparire e infatti in breve fece il suo ingresso nella stanza. Istintivamente mi voltai a guardare in direzione del fuggiasco ma, con mia grande sorpresa, mi accorsi che non c’era più. Come diavolo aveva fatto a sparire?

    Intanto l’usciere dopo aver gettato un rapido sguardo per tutto il salone si rivolse verso di me.

    «Signor De Marinis, purtroppo c‘è un piccolo contrattempo con un’apparecchiatura che contiene gas medicali e la dottoressa è impegnata a risolvere il problema. Ma non si preoccupi, appena sistemato tutto, la riceverà. Nel frattempo la pregherei di non lasciare questa stanza. Sono certo che lei capisce che è per la sua sicurezza.»

    Io annui poco convinto ma tanto bastò per far andare via l’uomo.

    Mi stavo chiedendo dove fosse finito il fuggiasco quando lo vidi sbucare da dietro un divano.

    «Grazie!» mi sussurrò.

    Sollevai le spalle non sapendo cosa dire. Ero confuso: non sapevo se avevo fatto la cosa giusta. Il tizio si andò a sedere su una poltrona che non era visibile dalle porte-finestre.

    Eravamo entrambi molto tesi e ci scambiavamo occhiate sospettose.

    «Le sono grato per avermi aiutato.» disse a bassa voce.

    «L’ho fatto per me,» bofonchiai «non voglio trovarmi nei casini.»

    «Lei non sembra essere una loro vittima. Cosa ci fa qui?»

    «Sono qui per una consulenza e non vedo l’ora di andar via» risposi brusco.

    «Se ne scappi appena può. Si fidi di quello che le dico, questi sono dei delinquenti.»

    Che voleva dire con quelle parole?

    «Le spiace essere più chiaro?»

    «Certamente no! Se le va le racconto in breve quello che so» disse il tizio.

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