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Siamo ancora qui: Storia indigena del Chiapas e dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
Siamo ancora qui: Storia indigena del Chiapas e dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
Siamo ancora qui: Storia indigena del Chiapas e dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
Ebook510 pages7 hours

Siamo ancora qui: Storia indigena del Chiapas e dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale

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In Chiapas la resistenza all'oppressione condivide con l'arrivo degli europei in Messico una storia lunga ormai più di cinquecento anni: una ribellione mai domata che, oggi, trova una degna incarnazione nella rivoluzione zapatista e nell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). "Siamo ancora qui" racconta l'evoluzione di questa insurrezione permanente: una straordinaria epopea popolare che, incarnando dal basso i valori di "democrazia", "giustizia" e "libertà", ha nelle sei Dichiarazioni della selva Lacandona le pietre miliari di una strada ancora lunga. Dal motto "Unitevi a noi", pronunciato nel corso della Prima dichiarazione, fino all'"Insieme a quelli in basso a Sinistra", parola d'ordine della Sesta, gli zapatisti - incarnati dal passamontagna del Subcomandante Marcos nell'immaginario collettivo occidentale - hanno avuto la forza di aggiornare le proprie pratiche senza abbandonare mai i princìpi che, da sempre, ispirano la loro lotta, contribuendo a diffondere ovunque idee come quella della democrazia partecipata, della rotazione delle cariche politiche e dell'economia di comunione.
LanguageItaliano
Release dateDec 10, 2014
ISBN9788867180714
Siamo ancora qui: Storia indigena del Chiapas e dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale

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    Siamo ancora qui - Alessandro Ammetto

    UNALTRASTORIA

    9

    Siamo ancora qui

    Storia indigena del Chiapas e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale

    di Alessandro Ammetto

    © 2014 Red Star Press

    La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.

    Prima edizione in «Unaltrastoria»: gennaio 2014

    Prima edizione in e-book: dicembre 2014

    Design Dario Morgante

    Red Star Press

    Società cooperativa

    Via Tancredi Cartella, 63 – 00159 Roma

    www.facebook.com/libriredstar

    redstarpress@email.com | www.redstarpress.it

    Alessandro Ammetto

    SIAMO

    ANCORA QUI

    Storia indigena del Chiapas e

    dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale

    REDSTAR PRESS

    Introduzione

    Esclusi per legge naturale

    E quanto al fatto che quelle popolazioni manchino completamente di ogni religione e conoscenza di Dio, che altro è questo se non il negare l’esistenza di Dio e il vivere come le bestie? Non vedo che cosa si potrebbe escogitare di più grave, di più turpe, di più alieno alla natura umana. [...] E quelli che si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che gli abbiamo mandato, si discostano tanto dalla loro primitiva condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli empi, e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie.

    Così l’umanista domenicano Juan Ginés de Sepúlveda, a mezzo secolo dal loro incontro, presentava le popolazioni autoctone americane all’imperatore Carlo V, nel libro Democrates alter, seu de justis belli causis apud Indios del 1545. Non certo voce isolata, de Sepúlveda fu, al contrario, l’esponente più noto della dottrina giusinternazionalista elaborata all’università di Salamanca nei secoli XVI e XVII da tre generazioni di teologi-giuristi. Quelli che lui chiamava humuncoli erano così lontani dalla sua realtà da escluderli dalla stessa specie umana. Gli indigeni americani non erano semplicemente barbari, quanto bestie; non uomini diversi e incivili che non parlavano la lingua dei conquistatori, ma una diversa specie animale. Partendo da questa inferiorità, Sepúlveda individuò quattro motivi per legittimare la guerra che i conquistatori mossero contro gli indigeni, guerra che col tempo divenne di sterminio. La prima justa causa fu rintracciata da Sepúlveda nei testi aristotelici: gli indigeni erano natura servi¹. Gli indigeni cioè avevano una natura servile; la loro condizione naturale era quella di essere schiavi e dunque se ne rendeva necessaria la sottomissione da parte dei castigliani, i quali erano invece domini natura. Le altre tre «giuste cause» di guerra contro gli indigeni erano di carattere più strettamente teologico: i peccata contra legem naturalem da loro commessi; la necessità di salvare le vite degli innocenti sacrificati nei riti idolatrici (che Sepúlveda identificò direttamente con Satana); la necessità di diffondere la fede cristiana. Fu la «guerra giusta» il valido principio sul quale si fondarono le conquiste del Nuovo Mondo. La guerra contro gli indigeni fu riconosciuta iusta dalla speculazione teologica e giuridica spagnola, e questo riconoscimento legittimò gli abusi e i crimini; fu considerato un sistema di dominio legittimo e permise la caccia contro coloro che, «nati per servire», rifiutavano la schiavitù. Sebbene la disputa teologica sul possesso o meno dell’anima da parte degli indigeni fu risolta d’autorità nel 1537 da papa Paolo III con la bolla Sublimis Deus, che sanciva l’appartenenza degli indigeni al genere umano, la realtà fu più forte della cattiva coscienza. Così, anche se i teologi-giuristi della scuola di Salamanca non ricevettero oro in segno di riconoscimento per la loro opera (come avvenne invece allo stesso de Sepúlveda) da parte dei notabili di Città del Messico, giusinternazionalisti come Luis de Molina, Marquardo de Susannis o John Mair agirono come ferventi agenti di propaganda dei padroni di terre e d’indigeni d’America². Come scrisse il francescano Bernardino de Sahagún, la Conquista rappresentò l’unica via per convertire i popoli amerindi alla vera religione e come perfetto castigo di Dio nei loro confronti per aver abbracciato la religione idolatra³.

    Grazie a questa speculazione razzista di conquistatori tracotanti, gli humuncoli potevano essere considerati degli animali da soma e trattati alla stessa stregua; marchiati a fuoco in faccia per individuarne condizione e padrone al primo sguardo, furono forzati a lavorare nelle piantagioni nelle pianure o finirono schiavi nelle miniere d’oro e d’argento in montagna. Solo tre indigeni su dieci uscirono vivi dalle gallerie, il che convinse la Corona Spagnola a importare schiavi africani, ben più resistenti degli indigeni; si stima che nella sola Potosì, tra il 1545 e il 1825 morirono circa otto milioni di schiavi⁴. Il razzismo fu un elemento fondamentale per i dominatori europei dell’età coloniale tanto quanto lo fu la polvere da sparo: il primo per giustificarsi, la seconda per convincere i recalcitranti. Il razzismo fornì l’alibi al terribile sfruttamento delle popolazioni sottomesse e rilasciò salvacondotti alle atrocità militari commesse. Radicatosi nei meandri delle coscienze nel corso dei secoli, il disprezzo per gli indigeni, le cui comunità sono state cacciate dalle loro terre ancestrali nelle foreste o sulle montagne attraverso un processo tuttora in corso, ha generato sfruttamento, ingiustizia ed esclusione. E tutt’oggi i diversi tratti del volto segnano la differenza tra gli indigeni e gli altri latinoamericani. In tutto il Cono sud, chi esercita il potere, salvo rari casi, è di pelle chiara e tratti occidentali; sono i discendenti dei conquistatori spagnoli, degli investitori stranieri o di creoli arricchiti. Viceversa, man mano che si scende nella scala sociale, il colore della pelle passa dal bianco al «colore della terra» degli indigeni. Due secoli fa a Città del Messico durante il suo viaggio latinoamericano, il naturalista tedesco Alexander von Humboldt scrisse che «in Messico la pelle più o meno bianca decide il posto che un uomo occupa nella società»⁵; come nel resto dell’America: ubicazione definita alla nascita, soltanto in dipendenza dal grado di mescolanza del sangue. Così la pelle del colore della terra e i tratti visibilmente diversi relegano gli indigeni nei gradini più bassi della scala sociale, da dove è impossibile uscire. Una stratificazione nata già cristallizzata nelle strutture sociali coloniali del sedicesimo secolo, quando i conquistatori spagnoli importarono nelle Americhe non solo tutta la classe dominante formata da hidalgos e caballeros (l’aristocrazia guerriera, arrogante e violenta forgiatasi nel lungo periodo della Reconquista), ma soprattutto la struttura stessa del potere feudale che si è radicalizzata nel corso dei successivi cinque secoli di dominio e che sopravvive tuttora in molte haciendas delle regioni rurali del Sudamerica⁶.

    Marginalizzazione sociale

    Ingabbiati in strutture rigide di stampo medievale, la partecipazione alla vita pubblica risulta praticamente impossibile agli indigeni, anche a coloro che appartengono a comunità al di fuori dell’influenza delle haciendas.

    Molto spesso, in Messico, l’esercizio delle cariche tradizionali delle comunità è inficiato dalla presenza di pubblici ufficiali governativi, i quali continuano a imporre modi che inibiscono l’esercizio delle funzioni proprie delle comunità. Un esempio è quanto accade nel calpulli, una tipica organizzazione comunitaria di origine azteca. Questa è l’unità base dell’organizzazione locale indigena, dove le decisioni sono prese da un consiglio formato da anziani (e in tempi preispanici anche dai guerrieri più valorosi). Accanto all’organizzazione dell’istruzione, delle risorse comuni (boschi, fiumi, acque) e della raccolta delle imposte, uno dei compiti è la gestione delle terre coltivabili. Queste rimangono sempre proprietà del calpulli e il consiglio degli anziani decide, di volta in volta, come distribuirle. Le terre possono essere concesse stagionalmente a uso individuale (ma il beneficiario può avanzare diritti solo sui frutti della terra e non sulla terra stessa), oppure possono essere adibite a uso collettivo, generalmente per soddisfare le esigenze comuni: pagamento di tasse e tributi o mutuo soccorso dei membri della comunità in difficoltà. Ma affiancando al consiglio degli anziani delle persone legate al partito al potere o comprando alcuni membri del consiglio, è possibile dirigere le scelte dell’assemblea verso interessi diversi da quelli della comunità, e il calpulli si trasforma in un altro strumento di controllo.

    Anche l’azione politica istituzionale è fuori della portata degli indigeni. Sebbene le grandi mobilitazioni di cui sono capaci possano portare all’elezione di cariche municipali e all’esercizio di pubblici uffici, tale evento rappresenta solo una vittoria effimera e di scarsa rilevanza, per motivi legati a due diverse dinamiche: il rapporto eletto-elettori e il rapporto eletto-istituzioni.

    Nel primo caso, se i rappresentanti delle comunità indigene chiamati a ricoprire incarichi interni sono sottoposti a un certo controllo da parte della comunità stessa e vengono dunque obbligati a svolgere i loro compiti nel rispetto dell’interesse collettivo, sugli eletti non si ha alcuna possibilità di controllo. Gli indigeni eletti a qualche carica istituzionale sono tenuti a rispettare solo le leggi dello stato federale e nulla possono gli elettori per obbligarli a tenere fede agli impegni presi. L’effettivo vantaggio che una comunità può ottenere grazie alla conquista di una carica pubblica dipende esclusivamente dall’onestà dell’eletto. Sebbene questo sia un limite per qualsiasi modello di democrazia rappresentativa, laddove peggiorano le condizioni di vita, aumentano le possibilità di corruzione del rappresentante.

    La seconda dinamica, che coinvolge l’indigeno eletto e la struttura di potere esistente, si articola su tre linee:

    1. La rigida burocrazia e la complessità delle leggi fanno sì che le richieste indigene siano rese impraticabili da una serie di cavilli legali, diluendo la portata delle istanze. Ad esempio, nel 1985 la riforma della legislazione penale messicana incorporò sia il diritto degli indigeni sotto processo ad avere un interprete sia il diritto di considerare gli usi e i costumi tradizionali in fase di giudizio. Tuttavia, a oggi non esiste nessuna istituzione che presti i servizi di traduzione e i giudici ignorano gli usi e i costumi tradizionali. Ancora, alla legislazione sul diritto d’autore, all’inizio degli anni Novanta, fu aggiunto il diritto delle comunità indigene di registrare le proprie opere. Tuttavia la Dirección General de Derechos de Autor, l’ente messicano preposto al rispetto della normativa, non può includerle poiché non esiste una sezione dedicata a fornire questo servizio.

    2. La violenza con cui spesso si risolvono i contrasti politici. Nei territori a forte presenza indigena, i ladinos discriminano, reprimono, imprigionano e assassinano i loro oppositori politici. Lo stato e i grandi proprietari terrieri, uniti nella difesa dei loro interessi e dei loro privilegi, applicano una persecuzione sistematica, implacabile e brutale. Se in Messico è stato possibile assassinare il candidato alla presidenza della Repubblica⁷, assolutamente sotto silenzio passa l’assassinio di un indigeno. Così gli eletti, indipendentemente dalla loro volontà di tradire o meno le aspirazioni della comunità, spesso non hanno altra scelta che farsi corrompere sottomettendosi alle logiche dei più potenti, o perdere la vita. La democrazia rappresentativa in Messico spesso non è neanche formale.

    3. L’effettivo rapporto di forza. Anche nel caso in cui i rappresentanti indigeni riescano a non sottomettersi (o almeno a restare parzialmente autonomi), riuscendo ad ottenere vantaggi per le proprie comunità, la loro partecipazione alle decisioni non altera mai significativamente la stratificata relazione di potere tra i diversi attori dell’agone politico: chi alla fine decide realmente sono i grandi proprietari terrieri e i grandi allevatori⁸.

    Il potere economico finanzia i privilegi delle classi politiche che in cambio rivestono di legalità gli espropri delle terre comunitarie cui sono sottoposti gli indigeni. In Messico, la pratica dell’esproprio delle terre comunitarie e l’espulsione degli indigeni che vi abitano ha origini lontane ed è un fenomeno che ha coinvolto la maggior parte dei popoli indigeni sudamericani. L’espulsione degli indigeni dalle loro terre d’origine avviene in tempi e modi differenti, ma in Chiapas è possibile individuare due linee principali.

    La prima modalità, comune a molte realtà, è l’esproprio delle terre comunitarie in favore del latifondo e dello sviluppo agricolo moderno. Le autorità competenti legalizzavano l’acquisto da parte di grandi proprietari delle terre comunitarie degli indigeni, convinti in qualunque modo, compresa la violenza. Una cessione di terre in cambio di altre terre, decisamente meno accessibili e meno fertili o addirittura da ricavare ex-novo dalla foresta.

    La seconda linea seguita è quella dell’espulsione delle comunità dalle haciendas dove esse vivevano in condizioni simili a quelle dei servi della gleba: perennemente legate alla terra e all’haciendas, e solo formalmente libere di abbandonarla. La maggior parte degli indigeni vivevano all’interno delle fattorie, dove prestavano il loro lavoro in cambio di uno stipendio appena sufficiente al loro sostentamento. Il salario ricevuto per l’opera di bracciantato è sempre stato minore dei prezzi dei generi di prima necessità venduti nello spaccio dell’azienda stessa, unico negozio raggiungibile dagli indigeni. Così, nel tempo, l’acquisto di generi di prima necessità costringeva i salariati a contrarre un debito destinato ad aumentare lentamente ma inesorabilmente fino a trasformare gli indigeni in debitori insolvibili. A questo punto la scelta che si presentava era tra la prigione per insolvenza o il lavoro a vita per pagare i debiti. Questo modus operandi è stato utilizzato in modo sostanzialmente invariato dai proprietari terrieri messicani per ottenere manodopera praticamente gratuita nel corso del XIX e XX secolo, dall’abolizione della schiavitù fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo. Tra gli anni Cinquanta e Settanta il Chiapas conobbe un periodo di fioritura economica. Gli investimenti statali nelle infrastrutture energetiche trainarono anche i settori commerciali tradizionali. La produzione delle principali coltivazioni e delle materie prime si espanse; gli allevamenti si consolidarono come una delle principali attività produttive e il guadagno dello stato in questo settore si moltiplicò di cinque volte⁹. Ciò comportò che le terre che potevano essere dedicate alla coltivazione furono trasformate in pascoli e gli indigeni espulsi furono impiegati come manodopera a basso costo. La presenza di manodopera a buon mercato fece sì che per i latifondisti divenne più conveniente pagare stagionalmente i braccianti piuttosto che mantenere i propri servi anche nelle stagioni agricole morte. La dinamica si autoalimentò: più vi erano expulsados disponibili per la manodopera e meno conveniente risultò tenere i peones, che dunque venivano cacciati.

    Agli indigeni messicani expulsados si aggiunse una massiccia affluenza d’indigeni del Guatemala che fuggirono dai massacri compiuti dal governo di Efraín Ríos Montt. Quasi centomila indigeni guatemaltechi varcarono i confini con il Messico per sfuggire alla tragedia che si consumò nel loro paese nei primi anni Ottanta. Quasi duecentomila vittime indigene furono il risultato delle attività contro insurrezionali dell’esercito guatemalteco, che colpì con estrema ferocia qualunque comunità anche solo sospetta di avere rapporti con la guerriglia dell’Ejército Guerrillero de los Pobres. Gli indigeni guatemaltechi fuggiaschi andarono a ingrossare le fila degli indigeni expulsados ma, pur essendo di etnie maya affini a quelle chiapaneche, non subirono una reale integrazione.

    Gli indigeni espulsi furono incoraggiati e aiutati dal governo a recarsi sulle montagne o nella selva Lacandona, perché le regioni erano in grado di assorbire le tensioni sociali che le nuove ondate di poveri avrebbero creato nelle periferie suburbane e, simbolicamente, per relegare gli indigeni ai margini geografici e sociali della nazione messicana, come una macchia da nascondere. I nuovi villaggi sorsero senza aiuti, perciò privi anche delle strutture di base. Nessun sistema fognario è tuttora presente e spesso neanche l’acqua potabile, costringendo le donne a percorrere fino a due ore di cammino per procurarsela¹⁰. Ancora peggiore è la situazione sanitaria: i villaggi non possiedono le strutture per il primo soccorso e le più vicine possono essere a ore di strada. In ogni caso, indipendentemente dal fatto che la morte sopraggiunge durante il cammino, le cliniche e gli ospedali presenti nelle città non sono per gli indigeni: questi non verrebbero accettati e sarebbero troppo cari per loro. Più dell’80% della popolazione chiapaneca non ha diritto ad assistenza sanitaria, che rimane privilegio solo di una parte della popolazione. La mancanza di medicinali e di punti di primo soccorso fa sì che malattie curabili quali la tubercolosi, il colera, il morbillo, il tetano, la polmonite e il tifo provochino ancora numerose morti. Si calcola che 15.000 persone muoiano ogni anno per denutrizione e diarrea, soprattutto bambini e anziani. In queste condizioni, allora, non stupisce che una donna su quattro muoia di parto, che la mortalità infantile sia di quattro bambini su dieci, che di essi uno su dieci nasca sotto peso per malnutrizione della madre, che tra il 70 e l’80% dei bambini indigeni soffra di malnutrizione, alzando così la probabilità di contrarre malattie. Le malattie curabili e la malnutrizione sono i responsabili dell’abbassamento della vita media degli indigeni a un valore appena sopra i quaranta anni. La vecchiaia nei villaggi indigeni è quasi un’età inesistente.

    Marginalizzati in ogni settore, gli indigeni traggono sussistenza svolgendo quei lavori che sono relegati in fondo alla scala sociale. Sono attività di bracciantato stagionale o di lavoro in affittanza che spesso costringono gli indigeni a restare fuori per molti giorni dal luogo di vita abituale: prelevati dagli isolati villaggi in cui vivono, si trasferiscono per il tempo necessario a svolgere l’attività lavorativa direttamente presso i datori di lavoro. In Messico la retribuzione percepita è, per oltre due milioni d’indigeni, inferiore al salario minimo (cinque dollari al giorno) e oltre un milione d’indigeni non ha nessuna paga, trovandosi ancora nella condizione di peones (contadini senza terra). In Chiapas le percentuali aumentano: il 33% della popolazione indigena lavorante non ha entrate economiche, il 32% riceve meno di un salario minimo e il 20% guadagna una cifra compresa fra uno e due salari minimi.

    La condizione di povertà è resa ancora più ingiusta dal razzismo: in qualunque settore e a parità di lavoro svolto, un lavoratore indigeno maschio riceve dal 30 al 50% in meno di quanto percepisce un suo collega non indigeno. Ancora peggiore è la situazione dell’infanzia. Il censimento agricolo del 1990 ha rivelato che oltre il 30% degli oltre tre milioni di lavoratori agricoli sono bambini e bambine indigeni di età compresa tra i sette e i quattordici anni¹¹.

    Un caso di studio: lo sfruttamento delle foreste

    Un esempio di politica clientelare è la legge sul taglio del legname nella selva Lacandona. Ma è anche una situazione che ha generato una forte reazione indigena, un sopruso a cui le comunità hanno risposto con fermezza; una larga mobilitazione condotta dagli indigeni contro l’applicazione di una legge che li danneggiava gravemente.

    Le popolazioni indigene, arrivate nella selva Lacandona negli anni Cinquanta, presentarono da subito la richiesta di assegnazione delle terre in cui erano stati mandati a vivere: terre che erano già state incluse nella ripartizione agraria, sotto la pressione delle richieste dei peones. Ma dal governo, le assegnazioni di terre avvenivano solo in modo limitato rispetto alle migliaia di richieste. Tuttavia le terre interessate alla distribuzione non rimasero inutilizzate. Nel 1963 il governo messicano rilasciò ufficialmente alcune concessioni per il taglio del legname nella Selva, principalmente a tre imprese private: l’Aserraderos Bonampak, la Maderera Maya e la Cofolsa. Eppure su alcune di quelle terre concesse per il taglio, vi erano già diciassette comunità che ne godevano i diritti di usufrutto.

    Ma il gioco si rivelò solo con l’applicazione di un decreto promulgato nel 1972 dal governatore dello Stato del Chiapas e dal presidente messicano Luis Echeverría. Il decreto prevedeva l’assegnazione a 66 famiglie d’indigeni caribes di uno sterminato territorio forestale a detrimento di circa duemila famiglie di tzeltales, choles, tzotziles e tojolabales (26 comunità) che vi si erano stabilite recentemente, e che in alcuni casi avevano ottenuto un formale attestato di proprietà. La decisione fu motivata con l’intenzione di restituire la selva Lacandona ai suoi «legittimi proprietari, diretti discendenti degli antichi maya» e istituire una riserva ecologica. Ma il processo per la denominazione e l’assegnazione a quella comunità che il governo chiamava «comunità Lacandona» era così pieno di irregolarità da sfiorare l’assurdo¹². Per prima cosa i beneficiari dell’assegnazione non erano i «legittimi proprietari» della Selva. Le 66 famiglie erano di etnia caribes, giunte nel Chiapas nel XVIII secolo. I veri indigeni lacandones perirono nella lotta di resistenza terminata nel 1697. Inoltre, dei tre villaggi di caribes interessati all’assegnazione (Metzabok, Nahá e Lacanjá Chansayab), i primi due si trovavano fuori dai confini dei terreni comunali interessati. Ma l’assurdità si presentò nella quantità di terra: a seguito della domanda di assegnazione di diecimila ettari fatta il 3 aprile 1971 dai caribes, il presidente Echeverría ne concesse 614.321, oltre 61 volte di più! Nessun progetto di conservazione del territorio, ma solo interessi occulti di carattere economico: ottenere il controllo delle risorse forestali, petrolifere e del potenziale idroelettrico della zona. E infatti, ad assegnazione avvenuta, le maggiori compagnie di sfruttamento delle foreste si affrettarono a concludere accordi con le poche famiglie caribes beneficiarie.

    Per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il taglio di legname fu un’attività lucrosa per le compagnie che abbattevano gli alberi senza nessun tipo di controllo, facendo esse stesse le regole. Dal 1986, la distruzione della selva Lacandona diventò un tema del dibattito pubblico messicano e nel 1988 l’amministrazione Salinas attuò i provvedimenti più importanti contro l’abbattimento degli alberi. Le limitazioni furono ovviamente ben mirate. La proibizione del taglio si estese immediatamente a tutte le terre comunitarie; in tal modo agli indigeni venne a mancare un’altra possibilità nelle poche attività relativamente redditizie o quanto meno commercializzabili come la vendita del cedro e del mogano. E se qualche compagnia era stata bloccata o aveva dovuto diminuire la sua attività, la macchina messicana del clientelismo funzionò correttamente. Nel 1995 si commercializzarono comunque 525.607 tonnellate di conifere e, nell’ottica dell’Accordo di libero commercio del Nord America, compagnie multinazionali come Simpson, International Paper e Lousiana Pacific manifestarono l’interesse a investire nella produzione di carta così come l’impresa Pulsar di Monterrey, già in possesso di molti boschi intorno ad Ocosingo. Anche la famiglia Castellanos, una delle più importanti dell’oligarchia chiapaneca, non risultò interessata dalle proibizioni di taglio. In quello stesso periodo, Absalón Castellanos era governatore dello Stato del Chiapas.

    Né terra né libertà

    La proprietà della terra in Messico è evidentemente influenzata dalla storia del paese stesso. Anche con l’indipendenza dalla Spagna nel 1821, il processo di espropriazione delle terre comunitarie e l’accrescimento dei latifondi non subì nessun arresto, anzi si accentuò. La politica agraria del laissez faire imposta dai liberali a partire dalle leggi di Riforma, tolse alle comunità anche la protezione della legislazione regale, paternalista ma efficace, che vietava la vendita di terre comunitarie, limitando in tal modo la voracità dei grandi latifondisti. La situazione degli indigeni peggiorò ulteriormente, tanto da far rimpiangere i tempi della dominazione spagnola contro cui gli indigeni avevano combattuto accanto ai nazionalisti e ai liberali, e dai quali avevano ricevuto promesse di miglioramento. Furono le privazioni della terra e lo sfruttamento nei latifondi che causarono numerose sollevazioni popolari, tra le quali la ribellione delle comunità chamules in Chiapas scatenata dalle leggi del 1856 contro l’esproprio delle terre comunitarie (sull’alienazione dei beni di manomorta, di colonizzazione e sui terreni incolti), e la sollevazione zapatista del 1910¹³. Quest’ultima «rivoluzione incompleta» però, pur prevedendo l’inalienabilità delle terre comunitarie nell’articolo 21 della Costituzione del 1917, non ebbe alcun effetto in quanto i nuovi esponenti del governo lasciarono sostanzialmente immutata una situazione agraria pressoché medievale. Il processo di espropriazione delle terre comunitarie nelle valli fertili continuò inalterato. Inoltre, le numerose attribuzioni di terre alle comunità, concesse da vari presidenti, non resero effettiva giustizia ai contadini senza terra, agli indigeni e alla loro storica mancanza di terra. Le distribuzioni, infatti, già a partire dalle riforme di Lázaro Cárdenas del Río che formalmente smantellarono il sistema medievale delle haciendas tradizionali, servirono in realtà a scopi ben diversi dal miglioramento delle condizioni di vita dei peones e degli indigeni. In seguito alla riforma agraria e alle distribuzioni di terre, i proprietari più grandi e quelli maggiormente legati al potere politico riuscirono a ottenere speciali decreti di esenzione da qualunque espropriazione di terre: nella distribuzione del 1988, circa il 70% degli allevamenti bovini era ufficialmente esente da qualunque riforma agraria. I latifondisti proprietari delle terre incluse nei decreti di distribuzione, invece, cedevano le terre da loro scelte: quelle peggiori. Di fatto, il partito al potere (il Pri, Partito Rivoluzionario Istituzionale di cui tutti i presidenti hanno fatto parte dalla Rivoluzione fino alle elezioni del 2000) ha sempre utilizzato le leggi agrarie solo in modo funzionale al consolidamento della rete clientelare. Distribuendo le terre in modo mirato, il partito al potere ha ottenuto il duplice effetto di legare a sé gli strati contadini beneficiari delle attribuzioni e di dividere le comunità con attribuzioni selettive di terre, sradicandone la coesione interna.

    Conoscere con precisione la distribuzione attuale della terra è un compito impossibile, dato che l’ufficio governativo di statistica non fornisce i dati ufficiali delle aziende. Però, da studi particolari di settore è possibile farsi un’idea della differenza quantitativa tra le estensioni dei possedimenti. La distribuzione della terra viene descritta da due modelli: da un lato la grande proprietà a base agricola capitalista, dall’altro una agricoltura di minifundia che produce per l’autoconsumo o per il mercato locale. Uno studio di settore nel ricco distretto chiapaneco del Soconusco ha evidenziato che su un totale di poco più di tremila fattorie, un centinaio superano i mille ettari di estensione, circa 150 hanno superfici variabili fra i cinquecento e i mille ettari, mentre i restanti appezzamenti sono composti da circa 25 ettari¹⁴.

    In generale, i possedimenti inquadrabili nel primo modello occupano non solo la maggior parte delle terre coltivabili (due terzi del totale) ma anche i terreni delle valli fertili e in generale le terre migliori. Questi terreni vengono sfruttati per le coltivazioni intensive e per gli allevamenti bovini destinati all’esportazione. La produzione agricola fornisce banane, canna da zucchero, caffè, cotone e cacao per il mercato internazionale, tanto che il Chiapas è oggi il maggiore esportatore di caffè, il terzo produttore nazionale di mais e fra i primi tre stati messicani produttori di banane, tabacco e cacao. Poiché la produzione è rivolta all’esportazione, queste coltivazioni sono soggette alle fluttuazioni globali dei prezzi. Ad esempio, il censimento del 1990 indicava che a fronte di un aumento del 39% dell’area di coltivazione del caffè vi era stata una diminuzione degli utili del 12%. Con l’entrata in vigore dell’Accordo di libero commercio del Nord America (North American Free Trade Agreement, abbreviato con «Nafta») e con la maggiore competitività degli agricoltori statunitensi e canadesi vi è stata anche una caduta nella domanda del granturco e dei fagioli (rispettivamente del 20 e del 18%). Di conseguenza, vi è stato un cambiamento nella produzione, trasformando il Chiapas in esportatore internazionale di soia, arachidi, sorgo e tabacco. Anche l’allevamento bovino ha subito un boom della commercializzazione: fra il 1982 e il 1987 il mercato della carne è aumentato del 400%, una domanda massicciamente assorbita dall’estero e solo in minima parte generata dal consumo nazionale che, tuttavia, è da considerarsi privilegiato.

    Al modello dei minifundia fanno invece parte circa 180.000 aziende messicane di dimensioni ben minori, la cui estensione media è di undici ettari. La Commissione Economica per l’America latina e i Caraibi delle Nazioni Unite divide questo gruppo di medi e piccoli agricoltori in tre sottogruppi, differenziati tra loro dalla produzione e dall’accesso al mercato dei loro prodotti:

    1. Produttori commercialmente «vitali». Formato dall’11% dei piccoli e medi agricoltori, destinano al mercato il 90% della produzione. Sono quei produttori, spesso nuclei familiari, che conducono porzioni di terre in modo sostanzialmente privatistico e capitalisticamente efficiente. La loro vitalità viene attribuita a un più facile accesso al credito bancario e dunque all’impiego di trattori, fertilizzanti e pesticidi sulle loro terre. Molti di loro impiegano stagionalmente, e in alcuni casi permanentemente, anche lavoro salariato.

    2. Produttori «diversificati». Formato dal 62% dei piccoli e medi agricoltori, commercializzano una parte significativa della loro produzione. Questa però è rappresentata in larga parte da granturco e fagioli, cioè il cibo di base destinato al mercato locale, scarsamente redditizio. Dal loro surplus questi produttori traggono a mala pena i mezzi per sopravvivere.

    3. Agricoltori «di sussistenza». Rappresentano il 27% dei piccoli e medi agricoltori e consumano gran parte di ciò che producono; destinano alla vendita meno di un terzo della loro produzione ma il surplus prodotto è decisamente inferiore a quanto sarebbe necessario per vivere¹⁵.

    Sono gli agricoltori delle ultime due tipologie quelli maggiormente a rischio nella svolta neoliberista messicana. Dal primo gennaio 1994, allo sfruttamento si è aggiunto il peso di un accordo ineguale di libero commercio. Nello stesso modo in cui la classe politica locale avvantaggia i grandi possidenti, così la classe politica nazionale avvantaggia i potentati economici mondiali; ne è prova l’adesione del Messico all’ideologia neoliberista che lascia presagire un’accentuazione nello sfruttamento delle risorse umane e naturali nazionali. L’entrata in vigore del Nafta rappresenta una doppia minaccia per gli indigeni e i piccoli coltivatori. In primo luogo, il Nafta ha come prerequisito la modifica dell’articolo 27 della costituzione degli Stati uniti del Messico del 1917, che garantisce l’inalienabilità degli ejidos. Un ejido è un appezzamento di terra di uso pubblico, appartenente allo stato o al municipio. Attraverso domande di assegnazione, questa terra viene data in usufrutto alle comunità per un determinato numero di anni, rimanendo tuttavia di proprietà pubblica. Fino all’entrata in vigore del Nafta, gli ejidos erano al riparo dalla vendita, garantiti dall’articolo 27 della Costituzione, anche nei casi di assegnazione individuale. Infatti molti ejidos non sono utilizzati dalle comunità indigene o contadine perché la comunità stessa è disgregata o divisa in fazioni, dunque incapace di prendere decisioni. In contesti del genere, l’applicazione delle leggi sui terreni incolti ne permette l’uso a singoli privati e ad aziende la cui assegnazione avviene in modo clientelare. Nel Soconusco, ad esempio, solo il 10% degli ejidos è coltivato in modo comunitario. La maggior parte viene coltivata da piccoli agricoltori che impiegano manodopera indigena. La percentuale di utilizzo di ejidos sale spostandosi nelle regioni indigene, dove la redditività dei terreni però diminuisce. Con la riforma costituzionale, promulgata il 6 gennaio 1992 dal presidente Carlos Salinas de Gortari, gli usufruttuari individuali degli ejidos possono chiedere di ottenere la proprietà della terra. Considerando le condizioni in cui versa l’agricoltura messicana e quali sono i suoi prevedibili sviluppi (il probabile fallimento di molti agricoltori medio-piccoli, che sono proprio i beneficiari delle assegnazioni delle terre pubbliche), la possibilità di vendita degli ejidos significa l’ulteriore inclusione dei piccoli appezzamenti nei grandi latifondi. Gli espropri delle terre a favore dei latifondi continuano indisturbati il loro corso, sempre protetti dalla legge¹⁶.

    La seconda minaccia per i contadini è rappresentata dall’ingresso sul mercato nazionale dei prodotti agricoli statunitensi. Il mais e i fagioli, i due principali prodotti dell’agricoltura messicana (commercializzati e di sussistenza), verranno completamente sostituiti sul mercato dai prodotti nordamericani. Infatti, se il mais messicano ha una produttività di 1,7 tonnellate per ettaro e necessita di 17,8 giornate di lavoro per tonnellata, il mais prodotto negli Stati uniti ha una produttività di sette tonnellate per ettaro e necessita di un’ora e mezza di lavoro per tonnellata. Lo stesso discorso vale per i fagioli. Se in Messico la produttività media dei terreni è di 0,5 tonnellate per ettaro e necessita di 50,6 giornate lavorative per tonnellata, negli Stati uniti la produttività raggiunge 1,6 tonnellate per ettaro con poco più di mezza giornata di lavoro. Il crollo del prezzo dei prodotti agricoli, dovuti a un abbassamento dei prezzi per le merci importate, renderà sempre più difficoltoso il sostentamento delle aziende agricole messicane e si prevede che circa quindici milioni di messicani saranno costretti ad abbandonare i campi; essi andranno a ingrossare le fila del sottoproletariato urbano¹⁷. Un fenomeno che non sarà arginato dal programma governativo «Procampo» messo in atto per salvare l’agricoltura messicana mediante una conversione agricola finanziata da fondi pubblici. Quei sussidi (ufficialmente cento dollari per ettaro all’anno), come al solito, andranno a vantaggio solo dei grandi latifondisti che saranno in grado di convertire le loro coltivazioni di mais in colture di fragole o di altri prodotti destinati all’esportazione. Tra i coltivatori medi e medio-piccoli si salveranno solamente quelle aziende sufficientemente colluse con il potere da usufruire dei fondi contribuendo al rafforzamento del sistema clientelare. Il programma Procampo ritarderà soltanto l’abbandono dei campi e la diminuzione della possibilità di bracciantato accentuerà ancora di più la condizione di miseria dei contadini e degli indigeni.

    Mostri neoliberisti

    Oltre agli accordi di libero commercio, vi sono le illusioni dei governi per uno sviluppo del paese sulla strada della modernità, una strada imposta da altri. Sono i grandi progetti di sviluppo che i governi impongono ai propri paesi; progetti calati dall’alto che devono essere subiti dalle popolazioni interessate e che non tengono conto delle reali esigenze degli abitanti. Due progetti in particolare pendono sulle popolazioni, indigene e non, del Chiapas, del Messico e di tutto il Centroamerica: una grande opera infrastrutturale denominata «Plan Puebla Panamá» e un progetto di bioprospezione e conservazione naturale.

    Il Plan Puebla Panamá è un progetto che prevede la costruzione di numerose infrastrutture attraverso tutta l’America centrale. È prevista la costruzione di due autostrade (una lungo la costa pacifica, dal confine con la California al Centroamerica e un’altra lungo la costa atlantica, dallo Yucatan all’Honduras); la costruzione di gasdotti; il potenziamento di porti sui due lati della striscia più sottile del continente americano, strategica per il commercio tra oriente e occidente; il cablaggio con fibre ottiche; l’ampliamento di alcuni aeroporti tra cui quello di Tuxtla Gutiérrez già completato; la costruzione di ulteriori dighe per la produzione di energia elettrica che verrà utilizzata sia nell’area interessata all’industrializzazione che seguirà sia per l’esportazione verso gli Stati Uniti. Il Chiapas è una delle zone maggiormente ricche di acqua: sebbene occupi solamente il 4% della superficie messicana possiede il 30% delle acque superficiali e le sue quattro centrali idroelettriche sul fiume Grijalva (Malpaso, la Angostura, Chicoasén e Peñitas) forniscono il 52% di tutta l’energia idroelettrica messicana. Il nuovo progetto ha pianificato la costruzione di venticinque dighe, di cui cinque sul solo fiume Usumacinta, il confine naturale tra Chiapas e Guatemala. La colossale opera riguarderà tutte le sette repubbliche dell’America centrale (Messico, Belize, Guatemala, Costa Rica, Honduras, Nicaragua e Panama) e otto stati degli Stati Uniti del Messico (Guerrero, Oaxaca, Veracruz, Chiapas, Campeche, Yucatan, Puebla e Quintana Roo), regioni a forte presenza indigena.

    Della possibilità di un trattato internazionale per la realizzazione di un grande progetto di sviluppo nel Sudest del paese, l’allora presidente Vicente Fox iniziò a parlarne nell’ottobre 2000. Il documento di presentazione, intitolato Anche il Sud esiste, descrisse in termini paternalistici la situazione dei popoli del sudest, con l’intento di commuovere l’opinione pubblica sulla situazione di povertà degli indigeni e sulla necessità di ricevere gli investimenti dei grandi capitali per uscire dai loro problemi secolari. Il documento proseguì affermando che una delle condizioni di base per l’applicazione del piano era proprio la modifica dell’articolo 27 della Costituzione e la conseguente possibilità di aumentare le estensioni delle piantagioni a monocultura. Alle nazioni interessate, il piano venne presentato ufficialmente dal presidente Fox nel 2001, come un modo per affrontare la povertà della regione in modo «integrale». Integrale perché puntava a sviluppare tutto l’intero ciclo economico, dalla produzione dei beni materiali (dove nasceranno nuove fabbriche grazie agli investimenti stranieri) all’estrazione e alla valorizzazione delle materie prime, all’agevolazione del commercio, all’integrazione della rete autostradale e a ulteriori allacciamenti energetici. Tutto questo naturalmente realizzato nel «pieno rispetto» delle regole sociali e ambientali.

    La realizzazione delle infrastrutture (la cui stima iniziale dei costi è di dieci miliardi di dollari) è necessaria per attirare gli investimenti delle grandi imprese multinazionali. Se è vero che queste ultime sono desiderose di cogliere le opportunità di profitto in tutto il mondo sfruttando il bassissimo costo del lavoro e la possibilità di non rispettare quelle norme ambientali, sociali e sindacali che sono invece vincolanti nei paesi del primo mondo, è anche vero che è in corso una competizione globale da parte dei paesi poveri che ha per oggetto i loro investimenti: ciò permette di alzare le loro richieste nei confronti dei paesi ospitanti. La prima condizione essenziale è, appunto, la presenza di infrastrutture adatte. Se infatti si vogliono costruire industrie lo si dovrà fare dove vi è possibilità di approvvigionamento energetico, o dove vi sia una buona rete viaria per far circolare

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