Gli ultimi giorni della Comune: In diretta dalle barricate di Parigi, la cronaca dell'insurrezione che ha cambiato per sempre il volto dell'Europa
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- Rating: 5 out of 5 stars5/5per non dimenticare e per far conoscere, nel mondo oggi vittima di quella terribile menzogna consistente nell'oblio e nella distruzione della ragione, un episodio di dolce, terribile e impareggiabile coraggio e intelligenza operaia e popolare.
Book preview
Gli ultimi giorni della Comune - Prosper-Olivier Lissagaray
dell’impero.
Capitolo I
Domenica 21 maggio, alle due del pomeriggio, più di ottomila persone assistevano al concerto dato nel giardino delle Tuileries a favore delle vedove e degli orfani delle guardie nazionali morte per la Comune. Questo concerto, annunciato da diversi giorni, doveva aver luogo in piazza della Concordia; ma il sabato sera si era giudicato più prudente non esporre l’uditorio agli obici versagliesi, i quali oltrepassavano notevolmente il rondò degli Champs-Élisées.
Le donne, in gran toilette, riempivano i viali. Il cielo era radioso. Sopra l’Arco di Trionfo volteggiavano i pennacchi di fumo dei colpi di mitraglia. Gli obici scoppiavano a meno di cinquecento metri, senza che il pubblico, tutto intento all’eccellente musica della guardia nazionale, si degnasse di preoccuparsene minimamente.
Alle quattro e mezza il tenente colonnello di stato maggiore X¹ salì sul palco dal quale il direttore d’orchestra dirigeva i suoi trecento musicisti, e disse testualmente:
«Cittadini, Thiers aveva promesso di entrare ieri a Parigi. Thiers non è entrato; egli non entrerà. Io vi invito per domenica prossima 28, qui, allo stesso posto, per il nostro secondo concerto a favore delle vedove e degli orfani».
Alla stessa ora, alle quattro e mezza, l’avanguardia dei Versagliesi entrava dalla porta di Saint-Cloud.
Da qualche giorno i Versagliesi si erano accampati ai piedi dei bastioni, da Montrouge fino alla porta Maillot. I forti di Issy, di Clamart, di Vantes, del piccolo Vanves, erano caduti. Auteuil, Passy, il Point-duJour, venivano bombardati violentemente e numerosi obici cadevano sul Trocadero. Inoltre i soldati compivano grandi lavori di approccio da questo lato. I loro attacchi, i loro successi, l’importanza strategica di questa posizione, che è la chiave di Parigi, tutto indicava che l’assalto sarebbe stato sferrato in questo punto e che esso era prossimo. Ma la stanchezza si era impadronita dei più energici. Da circa due mesi erano in linea gli stessi battaglioni della guardia nazionale. Gli stessi uomini avevano sostenuto tutto il peso della guerra senza ricevere il cambio. Allo stremo delle forze, scoraggiati dai continui insuccessi, malcontenti dei loro ufficiali, essi avevano perduto il loro primo slancio e perfino le loro abitudini di vigilanza. Così, la domenica 21 maggio, alle tre del pomeriggio, non vi era né un ufficiale né una sentinella alla porta di Saint-Cloud.
Il capitano di fregata Trèves si trovava in quel momento nelle trincee, a duecento metri dal muro delle fortificazioni, mentre i 70 pezzi di Montretout, la batteria di Breteuil, quelle di Quatre-Tourelles, di Issy e di Meudon facevano convergere i loro fuochi sulla porta di SaintCloud. Benché questa parte dei bastioni, crivellata dagli obici e dalla mitraglia, fosse pressoché indifendibile, il silenzio della città lo meravigliò. Nessuno rispondeva, né artiglieria, né moschetteria, quando, verso le tre, un uomo vestito in borghese apparve sopra il bastione 64 agitando un fazzoletto bianco ed emettendo dei gridi che lo strepito dell’artiglieria impediva di intendere. Tuttavia Trèves credette di distinguere queste parole:
– Venite, non c’è nessuno.
– Chi siete? – domandò Trèves.
– Sono Ducatel, sorvegliante di ponti e di argini e antico ufficiale di fanteria di marina. Parigi è vostra, se volete prenderla; fate entrare le vostre truppe; tutto è abbandonato².
Il comandante attraversò il ponte levatoio, al quale un obice aveva spezzato le catene, penetrò nella cinta e, guidato da Ducatel, visitò i bastioni di destra e di sinistra constatando la loro completa evacuazione; entrò nelle case vicine e si assicurò che non erano affatto sorvegliate. Ritornando immediatamente nella sua trincea Trèves telegrafò ai generali Douai e Vergé quanto succedeva, e un’ora dopo, sospeso il fuoco delle batterie versagliesi, rientrò nella cinta con una sezione del genio.
Verso le cinque i distaccamenti di linea più vicini alla porta entrarono a Parigi; i cannoni dei bastioni furono immediatamente sfilati dai loro infissi e rivolti contro la città. Il resto della divisione Douai fece seguito occupando i bastioni 66, 65, 64 e una parte del bastione 63. Dall’alto del Mont-Valérien, Thiers, il maresciallo Mac-Mahon e l’ammiraglio Pothuau, che vi erano arrivati alle quattro e mezza per osservare, contemplavano l’inatteso trionfo. Alle sei il generale Vinoy riceveva a Versailles il seguente dispaccio:
«Il corpo Douai sta entrando a Parigi dalla Porta di Versailles, fra i bastioni 65 e 66. La divisione Bruat seguirà e occuperà le sue posizioni. Fate armare la divisione Faron».
Alle sette e mezza di sera vi erano già ventimila uomini dentro la cinta di Parigi.
Verso le sei un messaggero atterrito portò un dispaccio al ministero della guerra. Esso veniva da Dombrowski. Annunciava l’entrata dei Versagliesi e pur tuttavia rispondeva di tutto.
Il delegato fece immediatamente avvisare il Comitato di salute pubblica. La Comune era in seduta. Il Comitato le inviò uno dei suoi membri. X entrò, domandò solennemente la parola e, in un silenzio di morte, lesse il dispaccio. Seguì un grande tumulto. Tutti si separarono poco dopo per andare a cercare altre informazioni, gli uni pieni di risolutezza e di entusiasmo, gli altri fortemente abbattuti.
Durante questo tempo Delescluze aveva mandato un messaggero all’Arco di Trionfo, da dove era evidentemente impossibile scorgere un movimento di truppe così facile da nascondere; e in serata fu affisso il seguente avviso:
«L’osservatorio dell’Arco di Trionfo nega l’entrata dei Versagliesi; per lo meno esso non vede niente che le assomigli. Il comandante Renard della sezione è stato nel mio ufficio e ha affermato che non c’è stato che un po’ di panico e che la porta di Auteuil non è stata forzata; che se alcuni Versagliesi vi si sono presentati, sono stati respinti. Ho mandato a cercare undici battaglioni di rinforzo da altrettanti ufficiali di stato maggiore, i quali non devono lasciarli prima di averli condotti alle posizioni che devono occupare. Delescluze».
Quasi alla stessa ora Thiers indirizzava ai prefetti e a tutte le autorità civili e militari la seguente circolare da affiggere in tutti i comuni:
«Versailles, 21 maggio, ore 7 e 30 della sera.
La porta di Saint-Cloud è stata abbattuta dal fuoco dei nostri cannoni.
Il generale Douai vi si è precipitato ed entra in questo momento a Parigi con le sue truppe. I corpi dei generali Ladmirault e Clinchant si apprestano a seguirlo».
Questo dispaccio, come si vede, era redatto in maniera da lusingare l’amor proprio delle truppe. Thiers non voleva ammettere che l’entrata a Parigi era dovuta ad una semplice sorpresa. Più tardi continuando queste fanfaronate egli ha coperto di fiori l’armata di Mac-Mahon. «Essa si è rivelata agli occhi del mondo» ha detto alla Camera. «I generali che hanno condotto l’entrata a Parigi sono dei grandi uomini di guerra». E l’ha passata in rivista sotto gli occhi dei Prussiani vittoriosi e beffardi. Non è necessario attendere il giudizio della storia per far giustizia di queste esagerazioni.
La Comune non ebbe un vero e proprio esercito, vale a dire un solido complesso di disciplina, di scienza e di ardore coraggioso. Certo non erano l’ardore o il coraggio che mancavano ai federati, ma la disciplina, i capi, l’amministrazione. Costituita per lo studio e per il lavoro, antitesi della centralizzazione e della dittatura, la Comune, così pronta a sviluppare tutti i servizi pubblici, era incapace di improvvisare un’organizzazione militare. Fu anche abilità dei Versagliesi impegnarla sui campi di battaglia, dove la sua disfatta era sicura. Costretta, per difendersi, a maneggiare le stesse armi della monarchia, la Comune non aveva affatto le risorse del sapiente dispotismo di quella. Era una rivoluzione politica e sociale che non comportava e non poteva suscitare il genio militare. La corsa alle armi del 18 marzo era stata tanto spontanea quanto quella del 14 luglio 1789. Alla notizia del colpo di stato fallito, i battaglioni repubblicani si erano trovati giù nella strada spinti dallo stesso segreto impulso, senz’altro scopo che quello di difendere la Repubblica, senza parole d’ordine, senza capi, a tal punto che vagarono a caso per una parte della giornata. Il Comitato centrale, preso alla sprovvista come il governo, si riunì con enorme ritardo³, esitò per ore intere, infine nominò Lullier generale in capo. La situazione richiedeva un uomo con la testa sulle spalle, colpo d’occhio, pronto, freddo e audace. Questo pazzo, che era uno stupido prima di diventare un disonesto, perse in poche ore tutti i vantaggi conquistati il mattino. Chiudere immediatamente le porte della città e far prigionieri ministri, ministeri, generali, gendarmi e vigili, marciare di notte su Versailles mal custodita, sorprendere l’Assemblea e riportarla a Parigi, queste erano le indicazioni del buon senso più comune. Lullier non fece niente di tutto questo e, grazie a lui, il governo poté evacuare Parigi con armi, bagagli e personale. Si dovette pure a lui la terribile sorpresa del MontValérien, abbandonato dal 18 al 20 dai