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Fortuna, il buco delle vite
Fortuna, il buco delle vite
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Ebook773 pages12 hours

Fortuna, il buco delle vite

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About this ebook

Quando ci si accorge di essere vicini alla morte è quasi inevitabile tentare di fare un bilancio della vita che si è vissuta. Ed è proprio quello che tenta di fare “Fortuna”, la protagonista di questo romanzo mentre uno strano individuo, che assomiglia spudoratamente a un etereo angelo del Signore, la sta accompagnando verso il cortile dove verrà eseguita la sua condanna a morte. oltanto che, a differenza di altri, Fortuna deve cercare di tracciare il bilancio di ben tre vite. È impossibile vivere tre vite completamente diverse l’una dalle altre? La storia di Fortuna ne è un raro esempio.
LanguageItaliano
Release dateJun 22, 2012
ISBN9788866600459
Fortuna, il buco delle vite

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    Fortuna, il buco delle vite - Jolanda Buccella

    Jolanda Buccella

    Fortuna,

    il buco delle vite

    Romanzo

    FORTUNA, IL BUCO DELLE VITE

    Autore: Jolanda Buccella

    Copyright © 2012 CIESSE Edizioni

    Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)

    Telefono: 049 8862219 - Fax: 049 2108830

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it

    ISBN versione eBook

    978-88-6660-045-9

    Impostazione grafica e progetto copertina:

    © 2012 CIESSE Edizioni

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Collana: Green

    Direttore di Collana: Sonia Dal Cason

    Editing a cura di: Irina Turcanu

    A Karol.

    "Ogni sofferenza umana,

     ogni dolore,

     ogni infermità racchiude una promessa di salvezza,

    una promessa di gioia."

    K. W.

    J.

    1.

    Tra qualche minuto il sole spunterà dalle colline e comincerà un nuovo giorno. Un altro giorno caotico e normale, per il resto del mondo ma non per il Ruanda: è dal 6 aprile del 1994 che qui, la normalità non esiste più. È successo l’inferno ma ora lei ne ha soltanto un vago ricordo, perché da quando è sepolta tra queste quattro mura marce, non ha più alcuna percezione di quello che sta succedendo là fuori. Ogni tanto però ha la sensazione di sentire dei flebili lamenti. Appartengono a gente che ha perso tutto e non ha più alcun motivo per credere nell’umanità, perché qui, fratelli e sorelle si sono uccisi, senza provare un briciolo di compassione l’uno per l’altro. È stata una carneficina silenziosa. Molto spesso, le bestie hanno usato armi più efficaci delle bombe e dei mitra. Armi affilate che hanno fatto a pezzi corpi di esseri umani, come se si trattasse di carne al macello. Armi sulla cui lama lucente, è rimasto il sangue di bambini che non sapevano nemmeno riconoscere le differenze tra un tutsi e un hutu. Hanno lasciato cadaveri massacrati dappertutto: sulle colline, per le strade, nelle scuole e persino nelle chiese, dove molti si erano rifugiati, per chiedere al buon Dio di fermare la strage degli innocenti. Preghiere rimaste inascoltate, come sempre. La verità è che il Cielo e la Terra hanno completamente lasciato solo il Ruanda. Dio non esiste e ai potenti che reggono le sorti dell’umanità e ai loro media questo Paese, povero e affamato, non interessa. Fortuna sapeva sin dall’inizio che sarebbe andata a finire così. Lei è cresciuta in quel mondo che tutti gli ingenui o gli ipocriti considerano l’emblema della democrazia e della civiltà e, spesso, le ha dimostrato quanto può essere testardamente indifferente al grido di dolore degli ultimi. Il Ruanda: l’ennesima guerra tribale, ecco come il mondo evoluto ha liquidato questa maledetta storia, così l'ha lasciato da solo a combattere e a perdere, contro gli orchi cattivi. È molto stanca, ha passato l’ennesima notte insonne per colpa del dolore che non le dà tregua da giorni. Continua a farle dannatamente male la gamba destra, molto probabilmente gliel’hanno rotta durante uno degli ultimi interrogatori a cui l'hanno sottoposta. Sembra che nelle ultime ore si sia gonfiata ancora di più, ha persino iniziato a cambiare colore: ormai è quasi viola. La donna prova a toccarla, affonda con forza le mani nella carne, ma ormai non sente più nulla anche quel po' di sensibilità che ha sempre avuto negli arti inferiori sembra svanita nel nulla. Forse sta andando in cancrena e, con una gamba ridotta in quello stato, non riuscirà a sopravvivere a lungo: finalmente la morte è vicina! Lui è ai piedi della sua branda, si sta esercitando a fare il salto del cucchiaio che gli ha insegnato per tenerlo un po’ in allenamento perché, da quando è arrivata lei, è notevolmente ingrassato. Con le zampette anteriori afferra il manico del cucchiaio, si dà una bella spinta e, dopo vari tentativi andati a vuoto, finalmente riesce a saltare dall’altra parte con tutto il corpo. Durante la prigionia il povero ragno, le ha tenuto una discreta compagnia. È rimasto sempre accanto a lei, nonostante avesse la possibilità di andarsene in giro per tutto il carcere indisturbato. Fortuna è inquieta, ha il presentimento che quella appena iniziata non sarà una delle solite, noiose giornate in carcere. Ha freddo e le labbra secche. Si solleva leggermente per bere un sorso d’acqua, ma un nodo alla gola le impedisce di deglutire e le provoca una tosse antipatica. È molta agitata, cerca di tranquillizzarsi e quando sembra esserci riuscita, anche il cuore comincia a fare i capricci: l’intensità dei battiti aumenta sempre più, fino a sfiorare una fastidiosissima tachicardia. È da un po’ di giorni che il cuore le dà dei problemi, è stanco e offeso, ma ancora non ha il coraggio di fermarsi per sempre, pur avendo il suo totale consenso. Finalmente i primi pallidi raggi del sole iniziano a filtrare dalla minuscola finestra della sua cella e, come ogni mattina, le accarezzano il viso. È una sensazione piacevole, le fa persino dimenticare il suo malessere, ma dura pochissimi istanti: il sole dell’Africa è una creatura troppo preziosa per fermarsi a illuminare il puzzolente pertugio di una povera straniera. Eccolo che arriva! Ormai la donna ha imparato a conoscere i passi di tutti i suoi carcerieri e quelli da elefante inferocito, che si stanno avvicinando, appartengono al Gran Generale che l’ha accolta in carcere la prima volta. Riconosce persino i suoi passi, anche se l’ha visto soltanto due volte. È come sempre: superbo e altezzoso, nella sua maleodorante divisa, a dispetto della grave zoppia alla gamba sinistra. Questa mattina però ha uno strano sorriso sulle labbra, è la prima volta che Fortuna lo vede sorridere, da quando ha avuto il disonore di conoscerlo.

    «Si dia una sistemata, tra un po’ verranno a prenderla» dice con la sua solita vocina stridula.

    Ecco perché questa mattina, il potente e valoroso condottiero sorride con tanto entusiasmo: tra un po’ eseguiranno la sua condanna a morte, altro sangue innocente sporcherà ancora quelle che un tempo sono state le verdi colline del Ruanda. Hanno deciso di mettere fine alla sua vita perché non sono riusciti a farle dire i nomi degli hutu che hanno aiutato i suoi amici, a far fuggire migliaia di poveri disperati verso le frontiere. Ci hanno provato in tutti i modi a farla confessare, l’hanno massacrata di botte nonostante fosse una povera donna malata, ma l’unica cosa che i suoi carcerieri sono riusciti a ottenere è stato il suo disprezzo.

    «Non prova mai orrore per quello che fa?» chiede Fortuna.

    Il Generale si stupisce alla domanda della donna, le ha appena annunciato che è stata condannata a morte e lei sembra rimasta impassibile, come se la notizia non la riguardasse. Purtroppo lo stupore dell’uomo dura soltanto lo spazio di qualche secondo, poi risponde con tono sicuro:

    «Mai».

    «Quanta gente avete ucciso fino a oggi?»

    «Perché mi fa questa domanda? Non capisco che cosa gliene importi dell’altra gente, visto che tra un po’ toccherà a lei morire».

    L’uomo in divisa urla, ancora una volta sembra aver perso la pazienza con la prigioniera che non gli ha mai dato soddisfazione.

    «Sono la vittima numero…».

    «Io… non ho mai visto una persona come lei».

    Il valoroso assassino sospira, confessando ad alta voce quello che ha sempre pensato di lei: è dura, spavalda, persino un po’ arrogante, nonostante sia una donna che si trascina dietro un gravissimo handicap.

    «Sono la vittima numero…» ripete.

    Fortuna ormai ha quarant’anni ma, in fondo, è rimasta una povera ingenua: un macellaio non può ricordarsi il numero delle vite che ha violato, perché è un dettaglio, un numero che non vale niente. Il Generale non ha più voglia di lottare, sembra essersi rassegnato all’idea che non riuscirà mai a capire la straniera bianca che, pur avendo incontrato soltanto due volte, ha sempre spiato di nascosto, incuriosito dai racconti dei suoi uomini che la descrivevano come una donna orgogliosa e indomabile persino di fronte alle punizioni corporali più feroci. Ha studiato ogni suo piccolo movimento, analizzato attentamente le poche parole che le ha sentito pronunciare, ma la sua vera natura gli è rimasta incomprensibile. Ormai non c’è più tempo per ulteriori analisi e con un leggero filo di delusione nella voce, l’uomo risponde alla sua domanda:

    «Ho perso il conto. Dopo i primi giorni, uccidere è diventata un'abitudine, come tornare la sera a casa e indossare le pantofole».

    «Un'abitudine… pantofole» ripete lei con sarcasmo.

    «Ha paura di morire?» le chiede il Generale, sperando di avere almeno una soddisfazione prima di dirle addio.

    «No» risponde la donna, anche se ha la sensazione di aver detto una delle più colossali fesserie delle sue vite.

    «Meglio così, la paura rende sempre le cose peggiori di quello che sono».

    «Lei lo sa che un giorno tutto questo finirà?» chiede ancora Fortuna, come se non fosse pronta a lasciar andare il suo carceriere.

    «Tutto inizia e finisce prima o poi».

    È l’ultima frase del Generale, poi le volta le spalle e se ne va. Nonostante la divisa militare, ora cammina curvo come un vecchio di mille anni. Forse a dispetto della sua spavalderia, sa che la fine di tutto è più vicina di quanto vorrebbe; persino il male peggiore arriva al capolinea. La donna è rimasta sola e il silenzio di tomba che la circonda la fa scivolare nel panico più assoluto. Si guarda intorno, sopraffatta da sensazioni talmente forti che le impediscono di muoversi e pensare. Ha mentito spudoratamente al Gran Generale, la verità è che ha una fottutissima paura di morire! Perciò non voleva lasciarlo andare via. Il cuore batte forte. Se continuerà a battere con tale prepotenza sicuramente scoppierà e non ci sarà nemmeno bisogno dell’intervento di un boia per mettere fine alla sua esistenza. Fino a pochi minuti prima della visita del Generale pensava che la morte fosse l’unica soluzione per concludere il suo calvario ma, adesso, l’idea di diventare cibo per vermi e topi sotto un mucchietto di terra scura la terrorizza profondamente. Forse quella che sta provando è una paura comune a tutte le persone che trascorrono la vita a sentirsi orgogliose di non credere nella farsa di un Dio buono e misericordioso, e poi quando si avvicinano all’ora della morte vorrebbero tanto cambiare idea, perché chiudere gli occhi e piombare nel nulla è un pensiero quasi inaccettabile. Deve calmarsi perché questi sono i suoi ultimi minuti di vita, non deve sprecarli facendosi fregare dalla paura. Davanti alla cella, il Generale le ha lasciato una bacinella d’acqua, una tunica pulita e uno specchio gigantesco, probabilmente per darle la possibilità di dire addio alla sua faccia. Non ha la forza per alzarsi, il dolore alla gamba è quasi insopportabile ma fa uno sforzo, sta per morire ed è importante che riesca a dire addio almeno a se stessa. Si butta a terra e si trascina fino alle grate, afferra tutto quello che c’è, poi ritorna sulla brandina. Sembra averci messo un’eternità; è molto stanca, ha pure il fiato corto. Afferra lo specchio con gli occhi chiusi e le mani che tremano come se avesse paura di quello che potrebbe vedere, lo avvicina lentamente e poi… Prova qualcosa di molto simile a una scossa di corrente, che parte dalla punta dei piedi e arriva con una violenza spropositata, fino al cervello, stordendola per un momento. Ha leggermente aperto gli occhi e non è riuscita a riconoscere l’immagine riflessa nello specchio: il suo bel viso non c’è più, è stato completamente deturpato dalle rughe. Sono davvero tante e molto profonde. Sembra che siano passati secoli da quando l’hanno catturata e messa in gabbia, come un povero topolino indifeso. Prigione di merda, militari bastardi, hanno rovinato irrimediabilmente l’unica parte del suo corpo che è sempre stata così gradevole. Però… come sono strane le sue rughe! Non ne ha mai viste di simili, eppure di facce segnate dalle cicatrici del tempo ne ha conosciute tante durante le sue tre vite. Ma forse a ridurla in quello stato non sono stati soltanto il tempo passato in carcere, le botte dei militari, la fame e il dolore fisico e morale che non le ha mai dato pace per tutto il tempo, perché sul suo viso c’è… sembra… una vera e propria ragnatela di rughe. La donna guarda per terra, lui è ancora nel suo angolino ed è rimasto completamente indifferente alla sua disperazione. Allora Fortuna capisce tutto, è stato lui! Quel maledetto ragno ha approfittato delle rare volte che è riuscita a prendere sonno o dei momenti di demenza per arrampicarsi sulla sua faccia e lasciare una bella firma di disprezzo. È così delusa, fino a qualche secondo prima di specchiarsi, era convinta che tra lei e la bestiola ci fosse un legame di solidarietà. In fondo con lui ha condiviso il suo pezzo di pane raffermo, quotidiano e gli ha persino permesso di arrampicarsi sulle braccia per farle un po’ di solletico con le sue microscopiche zampette. Perché tanta crudeltà gratuita? Perché tanto rancore nei suoi confronti? Forse è arrabbiato per aver perso il ruolo di re assoluto della prigione, ma non è colpa sua. È stata costretta a invadere il suo spazio, perché se avesse potuto scegliere il finale della sua ultima vita, sicuramente sarebbe stato molto lontano dall’inferno del Ruanda. Fortuna è accecata dalla rabbia, non si meritava un simile colpo alle spalle da un animale stupido e insignificante come un ragno obeso. Allora, nonostante la gamba rotta, trova la forza per alzarsi in piedi e trascinarsi fino a lui e poi… lo schiaccia. Lo schiaccia tante volte fino a quando il poveraccio diventa una cosa sola con il pavimento. L’ultimo atto di ribellione nei confronti di un ragno, che brutta soddisfazione!, pensa la donna mentre urla a squarciagola per il dolore insopportabile. Uno sforzo inutile. Un dolore inutile, perché probabilmente non è stata nemmeno colpa del ragno; è lei che non ha saputo invecchiare bene. Non si è lasciata andare con dolcezza alla vecchiaia. Non le ha dato modo di disegnare sul suo viso, lentamente e pacificamente, i solchi delle gioie e delle sofferenze dei suoi passati. Ma come avrebbe potuto, se i suoi passati sono stati atroci? Sono trascorsi soltanto pochi minuti dalla visita del Generalissimo, quando la donna sente ancora una volta dei passi che si avvicinano. Questa volta sono dell’uomo che la accompagnerà a morire. Che sciagura! Non è ancora pronta per presentarsi in modo decente all’appuntamento definitivo della sua terza vita. La morte potrebbe persino rifiutarsi di accoglierla tra le sue potenti braccia, perché disgraziatamente è conciata peggio del periodo in cui vagava per le strade di Roma come una povera barbona. È sicura di vedere l’ennesimo individuo travestito da militare valoroso, ne ha visti così tanti durante questi secoli di prigionia, invece quello che si ferma davanti alla sua cella è soltanto un esile ragazzino. Ha la pelle bianca come il latte, i lineamenti del viso delicati e gli occhi azzurri come il cielo terso d’estate. Se non avesse un piccolo difetto alla mano destra, gli mancano l’anulare e il mignolo, sembrerebbe quasi un angelo, una creatura soprannaturale che però ha qualcosa di estremamente familiare. Il suo sguardo misericordioso la strappa improvvisamente dal buio e dalla desolazione della cella e la catapulta nel suo passato, la riporta a un ormai lontanissimo e gelido giorno di dicembre quando conobbe l’uomo che la salvò definitivamente dal vortice, insistente e vorace, della sua disperazione. Il ragazzino sembra impacciato. È così giovane. Forse è la prima volta che gli è stato ordinato di accompagnare un prigioniero al patibolo. Apre la cella lentamente e con una delicatezza poco adatta a un militare sanguinario, si avvicina e cerca di metterle le manette ma gli tremano vistosamente le mani. Il primo tentativo fallisce così come il secondo e il terzo e alla fine ci rinuncia. Basta guardarla per capire che le manette non servono: è una prigioniera che non ha più nessuna possibilità o voglia di scappare via. L’angelo scuote la testa poi esce lasciando tutto aperto. Torna dopo qualche interminabile minuto con una vecchia sedia dove le fa cenno di sedersi, evidentemente vuole evitarle altre sofferenze. La donna obbedisce e mentre il ragazzino sta per cominciare a trascinarla fuori dalla cella, sembra sul punto di dire qualcosa poi tace; sicuramente gli avranno imposto di non rivolgere la parola alla condannata a morte. È talmente colpevole e indegna da non meritare nemmeno un’ultima parola di conforto. Perché il ragazzo è così giovane? Perché ha la pelle bianca? Non è del Ruanda, non è un africano, forse non è nemmeno di questo mondo. Chi l’ha mandato? È possibile che sia davvero un angelo di Dio? E che il terrore di morire la stia portando, per un attimo, a dubitare delle sue certezze? Dio non esiste ed è inutile illudersi proprio adesso, che sta per finire tutto. La donna sospira mentre alle sue spalle si chiude per sempre la porta della sua ultima casa terrena. L’angelo la trascina lentamente, sembra che faccia un grande sforzo. Fortuna ha la sensazione che tra lei e la sua morte ci siano ancora migliaia di chilometri di distanza. Come sfruttare i metri di vita che le restano? Come ingannare la logorante attesa del nulla? Ormai è una donna completamente impotente al cospetto del suo destino. Non può far altro che pensare, ricordare e capire quelle poche cose dei suoi passati che ancora non le sono chiare. Chissà se le basterà il tempo a disposizione? Ha vissuto tre vite, forse troppe per poterne fare un bilancio sereno in pochi minuti. È tutto così difficile… Deve innanzitutto controllare il respiro, affannoso da quando il suo cuore ha cominciato a fare i capricci. Chiude gli occhi e respira lentamente più volte in modo che i battiti tornino più regolari, la paura si plachi un po’ e magicamente si ricomponga il complicato puzzle delle sue tre vite. Le stanze vuote della sua anima si riaprono immediatamente, nonostante le abbia tenute chiuse a lungo e le serrature delle porte siano un po’ arrugginite. C’è tanta polvere che ha lasciato il tempo, ma agli impavidi fantasmi del suo passato basta vedere uno spiraglio di luce per avere la sfrontatezza di entrare e riempirla di nuovo di ricordi, luoghi, odori, sapori, volti, voci, sensazioni e dolori che pensava di aver dimenticato per sempre. Rivede Furano e le Quattrovie, i due piccoli borghi di un’anonima provincia dell'Italia meridionale che hanno dato origine alla sua numerosa famiglia. Le montagne, i prati verdi, i campi di grano, le stradine strette e lunghe dov’era stato così difficile far passare le macchine con l’arrivo della modernità. Poi ci sono le povere case fatte di pietra e i tetti di paglia, la grande Cattedrale del Santissimo Nome di Dio e la piccola piazzetta con l’altalena e la vasca piena di pesci rossi dove spesso andava a giocare da bambina. Eccoli i bellissimi roseti della povera zia Libera. Sono ancora splendidi. Poverina! aveva cominciato a coltivarli dopo una terribile delusione d’amore ed erano stati l’unica soddisfazione della sua vita solitaria. C’è anche la fantastica piantagione di pomodori della nonna! Così non possono più esserci dubbi è proprio lei: la casa del portone verde dove ha trascorso la sua indimenticabile infanzia, quando si chiamava J. Rizzutelli. Entra in punta di piedi nella piccola cucina come se fosse un luogo sacro. Ci sono ancora il divano di pelle marrone consumata e il vecchio televisore che aveva un solo canale e faceva un po’ di fatica ad accendersi. Ha l’impressione di sentire ancora i sospiri d’amore di Umberta, mentre guardava Lascia o Raddoppia? con Mike Bongiorno. Ha i brividi che le scuotono tutto il corpo perché l’emozione è troppo forte. Corre nella camera della nonna e si stende sul letto, è così grande e soffice, c’è ancora profumo di lavanda, il suo preferito. Quante notti meravigliose ha trascorso con Umberta Prima Rizzutelli in quel letto! Chiacchieravano e ridevano a lungo come due vecchie amiche, poi si abbracciavano talmente strette da sembrare un corpo solo e si addormentavano teneramente. Sta piangendo. Le lacrime scendono lungo le sue guance e non può far niente per fermarle, se non allontanarsi e continuare il suo viaggio. Tutte le volte che da piccola le capitava di sentirsi un po’ triste si rifugiava nella stanza magica dove Umberta impastava il pane e la pizza più buoni del mondo. Le sembra di vedere ancora farina sparsa dappertutto e di sentire quel profumo speciale di cose buone e genuine che dopo la sua infanzia non ha mai più sentito.

    «Nonna, perché il tuo pane e la tua pizza sono così buoni?» chiedeva incuriosita, seduta su una seggiola di paglia mentre Umberta impastava energicamente nella sua enorme madia.

    «Perché prima di cominciare, recito sempre tre Ave Maria alla Madonna del Carmelo, come faceva la tua povera bisnonna Irene. Il resto è tutto merito di questa stanza magica».

    «Davvero è magica?» chiedeva stupita lei.

    «Sì, piccola mia».

    «Perché?» continuava a chiedere la bambina che, spesso, pur di assistere a quello che ai suoi occhietti innocenti sembrava un vero e proprio prodigio della bontà, marinava la scuola fingendo di avere dei terribili dolori alla pancia.

    «Perché qua dentro si possono fare soltanto cose buonissime» rispondeva Umberta e poi cominciava a ridere a crepapelle, perché la sua nipotina era così dolce e ingenua da credere ciecamente in ogni sua parola.

    Fortuna pendeva dalle labbra di sua nonna, perché per lei era tutto, il suo esempio, il suo mito, l’orma da ripercorrere per non smarrirsi mai. L’unica persona al mondo che ora sa di aver amato veramente, senza egoismi né gelosie come solo i bambini sono in grado di fare. Di nuovo lacrime, era da molto tempo che non piangeva così. È tutto veloce. La memoria è veloce e così alterna momenti di straordinaria felicità ad altri di totale sconforto nel giro di pochissimi istanti. Ecco, finalmente, può vedere nitidamente anche i volti delle persone che nel bene e nel male hanno fatto parte delle sue vite: l’amatissima Umberta Prima, mamma Anita e papà Daniele, Giovanna, nonna Rosa e il mite nonno Noè. Poi ci sono i barboni del vecchio edificio e Nadir, Ruth, Becky, Mark e i bambini dell’ospedale con cui ha trascorso i momenti più importanti della sua terza vita e gli ultimi giorni di libertà. Sembrano tutti così reali, ma la donna è consapevole che si tratta soltanto di fantasmi e che se riuscisse ad alzarsi dalla sedia o allungasse una mano per tentare di afferrarne qualcuno, purtroppo, rimarrebbe vuota. Incontrerà la morte da sola, perché tutti i momenti cruciali delle sue tre vite ha sempre dovuto affrontarli da sola.

    Cominciare a ricordare i momenti più felici in assoluto, quelli che ha vissuto durante la sua prima vita, accanto all’amatissima nonna Umberta.

    2.

    Umberta Prima Manera nacque a Furano il 28 luglio del 1903. Era la quarta figlia femmina di due poveri contadini che lavoravano tutto il giorno nelle terre dei Fenicelli, una delle famiglie più facoltose del paese, in cambio di un tetto e qualcosa da mangiare. La casa dei Manera era piccolissima, c’era una sola stanzetta che bisognava condividere con una mucca, un paio di pecore e una decina di galline. Dormivano tutti nello stesso letto, mangiavano soltanto una volta al giorno e il menù era quasi sempre lo stesso, pane cotto con i fagioli. Nonostante tutto vivevano con grande dignità la loro condizione e tutti i santi giorni che arrivavano, ringraziavano il buon Dio per quel po’ che gli aveva donato. Così qualche anno dopo la nascita di Umberta, la loro fede incondizionata, fu abbondantemente premiata. Nel 1909 il signor Guido Manera ereditò molti soldi da un lontano parente senza figli e decise di comprare un bel pezzo di terra alle Quattrovie, un minuscolo paesino al di là del fiume Tenza, sul quale costruì una bella casa con un enorme portone di legno verde e cominciò a coltivare una piantagione di pomodori. Dopo pochi anni e tanto lavoro, la terra iniziò a dare degli ottimi raccolti e a ripagare il signor Manera di tutti gli sforzi che aveva fatto per lavorarla. I pomodori di Guido diventarono famosi e apprezzati in tutta la provincia di Salerno così la sua famiglia, che fino a quel momento aveva vissuto nella privazione più assoluta, cominciò a condurre una vita molto più dignitosa: pasti regolari, abiti e scarpe per ogni stagione dell’anno e persino un costoso modello di radio, per allietare le serate trascorse in casa dopo una dura giornata di lavoro. I Manera però rimasero sostanzialmente delle persone molto semplici. Il capofamiglia continuò a essere un contadino instancabile e la moglie Irene a preferire abiti molto semplici e una vita ritirata con le sue bambine che educò scrupolosamente, per permettere loro di diventare delle brave donne di casa. Gli anni trascorsero velocemente, le tre figlie più grandi si sposarono e andarono a vivere nel nord Italia, Umberta invece rimase alle Quattrovie per mandare avanti la piantagione e prendersi cura dei genitori. A differenza delle sue sorelle maggiori che erano tutte molto graziose, lei era una ragazza piuttosto bruttina. Non era altissima, aveva qualche chilo di troppo sui fianchi e delle sopracciglia eccessivamente folte. Ma il suo difetto più grande era il carattere, perché era forte, testardo e combattivo proprio come quello di un uomo. Nonostante tutto aveva tanti corteggiatori e quasi ogni mese riceveva delle interessanti proposte di matrimonio. L’ultimogenita dei Manera, però, aveva le idee molto chiare in merito al suo futuro: voleva sposarsi soltanto verso i trent’anni, perché prima di dedicarsi completamente a un uomo e ai suoi marmocchi voleva godersi un po’ la vita. Umberta era un tipo di donna piuttosto originale e decisamente indipendente, per gli anni in cui viveva. Portava degli abiti molto sensuali, andava a ballare tutte le domeniche sera, non disdegnava amicizie maschili e ogni tanto fumava qualche sigaretta al riparo da occhi indiscreti. Quando si trattava del lavoro però si trasformava in modo repentino, diventando la persona più attenta e scrupolosa del mondo. Comandava a bacchetta i suoi operai e, poiché erano quasi tutti uomini, la cosa le procurava una soddisfazione maggiore. Al tempo stesso non aveva paura di mettersi al loro pari e di sporcarsi le mani con la terra tutte le volte che era necessario, e dopo aver trascorso la maggior parte della sua vita a osservare papà Guido carpendogli tutti i segreti più importanti del faticoso mestiere del contadino, il suo lavoro valeva esattamente quanto quello di tre maschi robusti messi insieme. Accadeva soprattutto durante il periodo del raccolto quando bisognava lavorare a ritmi molto serrati, per consegnare puntualmente i pomodori alla fabbrica di conserve di Salerno che, dopo una bella chiacchierata tra il suo proprietario e l’astuta Umberta Prima, per la sua produzione sceglieva sempre e soltanto i frutti della piantagione Manera. Alla fine di ogni stagione estiva la ragazza era sempre molto soddisfatta dei suoi guadagni, così si concedeva qualche giorno di vacanza al mare lontano dalle Quattrovie. Lo stile di vita che conduceva Umberta preoccupava molto i suoi vecchi genitori, che desideravano a tutti i costi vederla sposata come le sue sorelle maggiori e dava modo di spettegolare alla gente che la additava come una povera peccatrice, soltanto perché si comportava in modo diverso dalle altre donne del paese. Ma lei non dava peso ai pettegolezzi che la circondavano né sembrava aver paura delle fiamme dell’inferno che il suo confessore le prometteva, le rare volte che andava a confessarsi, se non avesse cambiato radicalmente le sue abitudini, perché Umberta amava troppo la sua libertà e non era poi tanto sicura che il famigerato regno destinato ai peccatori incalliti esistesse davvero. Spesso le sue amiche e coetanee, che erano già tutte sposate e con almeno un paio di figli da accudire, le chiedevano se non le mancasse avere una famiglia, allora, la donna rispondeva in modo deciso e orgoglioso:

    «Il matrimonio è una schiavitù senza ritorno e la maternità una sofferenza inutile. Perché, nella società in cui viviamo oggi sono i padri che danno il cognome ai figli e che hanno il compito di educarli, le madri servono soltanto a partorirli».

    La fatidica data dei trent’anni si avvicinava sempre più, ma Umberta non era ancora riuscita a trovare un uomo che la facesse impazzire d’amore. Voleva provare qualcosa di speciale per il compagno della sua vita. Una passione travolgente e senza freni inibitori, perché lei era diversa dalle altre donne delle Quattrovie: non aveva bisogno di un uomo che la mantenesse o la trattasse come una stupida bambolina di porcellana. Per colpa delle sue convinzioni sull’amore e il matrimonio litigava continuamente con la madre che, naturalmente, aveva una mentalità molto diversa dalla sua. Irene Manera le chiedeva di non essere troppo schizzinosa e di accettare la proposta di qualsiasi pretendente buono e onesto, perché era convinta che per un matrimonio felice, l’unica cosa davvero importante fosse il rispetto reciproco tra i coniugi e non quell’amore oscuro e selvaggio che desiderava tanto provare sua figlia.

    «Preferisco rimanere zitella per tutta la vita, piuttosto che provare soltanto del semplice rispetto per un uomo» rispondeva la donna, alla conclusione di ogni discussione con la sua povera mamma.

    Gli scontri a muso duro tra Umberta e Irene diventarono una spiacevole consuetudine nella casa del portone verde, poi un giorno la donna incrociò degli occhi bellissimi e tutto cambiò improvvisamente. Quella famosa mattina, si era svegliata un po’ prima del solito e ne aveva approfittato, per portarsi avanti con il lavoro nella piantagione. Aveva già interrato più di un centinaio di piantine di pomodori quando, improvvisamente, arrivò lui: l’uomo dagli occhi azzurri più affascinante che avesse mai visto.

    «Buongiorno, mi chiamo Cosma Rizzutelli» disse il giovane, offrendole gentilmente la mano per presentarsi.

    Umberta si accorse che le sue erano completamente sporche di terra, così arrossì violentemente in volto e se le nascose per bene dietro la schiena. Per la prima volta nella sua vita, la donna era talmente imbarazzata che non sapeva cosa dire.

    «Forse, sono venuto in un momento poco opportuno per voi» domandò Cosma, accortosi dello strano effetto che aveva fatto alla donna.

    «Stavo… lavorando» balbettò lei.

    «Allora mi toccherà tornare un’altra volta, per parlare con vostro padre».

    «Che cosa volete da lui?» chiese stordita e felice per le forti emozioni che gli occhi di Cosma le stavano facendo provare.

    «Desidero comunicargli che sono perdutamente innamorato di voi, e che non vedo l’ora di portarvi all’altare» rispose l’uomo, sfiorandole audacemente il viso con una leggera carezza poi se ne andò senza aggiungere altro, lasciando la ribelle Umberta a bocca aperta e con il fiato corto.

    Cosma Rizzutelli aveva sempre abitato di fronte alla casa del portone verde ma Umberta non lo conosceva, perché era un po’ più grande di lei. A ventidue anni era partito per la Grande Guerra e dopo il 1918 si era fermato per qualche anno al nord, dove aveva lavorato come cameriere in un ristorante ma senza mai riuscire a mettere un soldo da parte perché aveva tanti vizi: gioco, alcool e donnine allegre. Era tornato alle Quattrovie da qualche mese. Inizialmente soltanto per partecipare al funerale della madre, morta d'infarto, dopo essere stata costretta a vendere la casa di famiglia per saldare i suoi debiti di gioco. Poi aveva deciso di fermarsi definitivamente in paese, perché non sapeva dove altro andare. Viveva in una vecchia stalla abbandonata e per tirare avanti preparava pranzi di nozze e battesimi, ma continuava a spendere tutto quel po’ che guadagnava per soddisfare la sua inesauribile voglia di divertimento. L’uomo aveva sentito parlare di Umberta, qualche sera prima di andare a trovarla nella sua piantagione di pomodori. Stava bevendo qualcosa nel bar del paese quando alcuni ragazzi, seduti a un tavolino vicino al suo, avevano cominciato a rimproverarsi a vicenda per non aver saputo conquistare la ricchissima e caparbia signorina Umberta Prima Manera. Allora Rizzutelli si era avvicinato e con un tono arrogante, aveva scommesso mille lire che nel giro di poche settimane il cuore della vecchia zitella sarebbe stato suo.

    «Preparate il denaro che mi dovete, verrò a esigerlo dopo la prima favolosa notte di nozze che le farò trascorrere» sentenziò l’uomo con spavalderia e che a metà pomeriggio aveva già bevuto più di un litro di vino.

    Dopo essersi presentato nella piantagione dei Manera, Cosma cominciò a corteggiare Umberta con una tenace insistenza, ricoprendola di tante piccole attenzioni che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi donna. Ogni giorno le lasciava bigliettini romantici e rose rosse davanti al portone verde e un paio di sere la settimana, le faceva suonare una struggente serenata dalla banda del paese. Una volta si nascose persino nel confessionale al posto del prete, pur di parlarle e convincerla ad accettare il suo amore. In quell’occasione Umberta ascoltò delle parole talmente commoventi che decise di accettare un appuntamento: era pazza d’amore per lui, era successo già dalla prima volta che lo aveva visto nella sua piantagione, ma aveva bisogno di conoscerlo più profondamente prima di dire sì alla sua proposta di matrimonio e regalargli la sua libertà. I due giovani cominciarono a vedersi tutte le sere di nascosto dagli occhi indiscreti dei compaesani e da quelli severi dei coniugi Manera, Cosma era molto determinato e non perdeva mai l’occasione per dimostrare alla donna quanto ci tenesse veramente a costruire un futuro insieme a lei, Umberta seppur lusingata dal suo affetto cercava di andarci con i piedi di piombo, perché non riusciva proprio a capire come mai un uomo tanto affascinante fosse interessato proprio a lei che, almeno fisicamente, non era di certo uno splendore. Poi dopo un favoloso bacio al chiaro di luna che la lasciò stordita e fece crollare in un lampo tutti i dubbi e le incertezze che aveva sempre avuto su quella relazione, la signorina Manera si accorse di essere stancata della sua vita solitaria e che era pronta per affrontare il grande passo, così decise finalmente di presentare l’affascinante fidanzato ai suoi genitori. Appena cinque mesi dopo il fidanzamento ufficiale, il 5 ottobre del 1929, Umberta Prima Manera e Cosma Rizzutelli si sposarono nella Cattedrale di Furano, con una cerimonia molto semplice alla quale parteciparono soltanto i familiari e gli amici più cari. Dopo un breve viaggio di nozze a Milano dove si era stabilita una delle sorelle di Umberta, pagato da Cosma con parte dei soldi vinti alla scommessa, la coppia andò a vivere nella casa del portone verde e da quel momento in poi la bella favola d’amore svanì come una fragile bolla di sapone. Umberta cominciò a rendersi conto che Cosma Rizzutelli non era la persona dolce e premuroso che le aveva fatto credere di essere durante il loro breve fidanzamento, ma uno scansafatiche sgarbato e prepotente. L’uomo non perdeva mai l’occasione di trattarla male e di picchiarla ferocemente, persino davanti ai suoi genitori e così alla fine i coniugi Manera, completamente impotenti di fronte al dolore della loro figlia più piccola, morirono di dispiacere a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Rimasta sola e senza il conforto delle uniche due persone al mondo che le avevano sempre voluto bene, Umberta cominciò a sentirsi una donna senza scampo. Costretta a vivere una vita insopportabile fatta di insulti e botte che, spesso, erano talmente pesanti da farle perdere i sensi e lasciarle segni indelebili sul corpo. Si sentiva schiacciata dalla prepotenza di quel marito, che le chiedeva continuamente del denaro per giocare a carte e pagare i debiti che contraeva nel vecchio bordello di Furano, il posto in cui trascorreva praticamente tutte le sue giornate. Tornava a casa soltanto per dormire e obbligarla a rispettare i suoi doveri coniugali, quando le tre puttane che lavoravano al bordello erano già occupate o indisponibili ma anche in quei momenti era un essere squallido e violento. La situazione diventò talmente insostenibile che ci fu un momento in cui Umberta pensò addirittura di suicidarsi, gettandosi nelle acque gelide del fiume Tenza. Poi arrivò Daniele e dopo di lui Antonio, Libera e Giovanni: i suoi quattro amatissimi figli, che le diedero la forza per andare avanti e sopportare un matrimonio infelice. Umberta era una brava madre, amava stare con i suoi bambini anche se non poteva mai occuparsi di loro a tempo pieno, perché ogni mattina doveva svegliarsi all’alba per andare a lavorare e tornava a casa molto tardi la sera. I vizi di Cosma, anno dopo anno, la costrinsero a licenziare alcuni dei suoi operai e a ridurre drasticamente la produzione di pomodori. Ma ci furono dei periodi in cui quei sacrifici non bastarono perciò, per tirare avanti, la donna fu costretta a inventarsi un secondo lavoro. Spesso, dopo una giornata passata nei campi, andava nelle case dei suoi compaesani più agiati a lavare e a stirare la biancheria per pochi spiccioli che però le permettevano di arrivare alla fine del mese. Era davvero una vita faticosa e stressante quella che era costretta a condurre la donna, della spensierata ed energica Umberta Prima di una volta non c’era più traccia, era sempre di cattivo umore, aveva dimenticato che cosa significasse sorridere e il suo corpo sano e robusto si era ridotto in pelle e ossa eppure, nonostante tutto, aveva la dignità di non lamentarsi mai. Apparentemente sembrava una donna determinata e combattiva, che non accusava il peso di tutti i problemi che doveva affrontare quotidianamente, ma in realtà quasi ogni notte era tormentata dagli incubi. Sognava sempre che i creditori di Cosma le portavano via la casa e i bambini e lei non riusciva a impedirlo, rimaneva impotente come tutte le volte che suo marito la picchiava a sangue. Succedeva spesso, almeno una volta a settimana come se fosse una vecchia tradizione di famiglia da rispettare scrupolosamente. Bastava un niente, per far scattare la rabbia che quel mostro aveva in corpo. Lei non reagiva mai, si lasciava far del male in silenzio per proteggere i suoi figli dalla verità. Infatti, tutte le volte che i bambini le chiedevano dei suoi occhi neri o delle braccia piene di lividi, inventava la scusa di essere caduta nella piantagione. Una sera però Cosma tornò a casa prima del solito e il castello di bugie che Umberta aveva costruito negli anni, si sgretolò miseramente. L’uomo sembrava più ubriaco e pazzo del solito, gridava e diceva delle cose oscene. La donna si chiuse dentro e ordinò ai bambini di andare a dormire: piangevano tutti in modo disperato, perché non avevano mai visto il padre in quelle condizioni. Cosma cominciò a picchiare con violenza il portone verde, allora lei corse in cucina e afferrò un coltello per difendersi nel caso fosse riuscito a entrare. Improvvisamente ci fu il silenzio, forse se n’era andato. Umberta si avvicinò alla finestra e scoprì che, invece, era ancora fuori e stava scrivendo qualcosa sul muro vicino al portone. La donna provò una rabbia e un odio indescrivibili, non aveva mai avuto dei sentimenti così negativi per nessuno fino a quel momento. Si affacciò e agitando il coltello che aveva in mano, gli disse:

    «Se non ve ne andate immediatamente via da qui, giuro sull’amore che provo per i miei bambini che questo ve lo ficco in gola, brutto figlio di puttana!».

    Cosma rimase scioccato, non aveva mai visto Umberta così arrabbiata, fece scivolare a terra il pezzetto di carbone che aveva usato per imbrattare il muro e con la coda tra le gambe si rifugiò nella stalla, dove si arrangiò a dormire in mezzo agli animali.

    Dopo quella vergognosa scenata, Umberta decise che era arrivato il momento di lasciare il marito e, naturalmente, la gente delle Quattrovie cominciò a mormorare. Arrivò persino a chiedere l’intervento del parroco per paura che altre donne del paese, in modo particolare quelle più giovani e meno pazienti, trovassero il coraggio per imitarla e perdersi nel peccato. Così don Giusto cominciò a farle visita tutti i giorni e, per convincerla a tornare con suo marito, le faceva delle prediche che erano a dir poco estenuanti.

    «Davanti all’altare avete promesso che gli sareste stata accanto per sempre, nella buona e nella cattiva sorte» diceva il prete alla fine di ogni pantagruelico discorso, durante il quale le ricordava tutti i doveri e gli obblighi di una buona e devota moglie cattolica.

    «Disgraziatamente, me lo ricordo fin troppo bene il maledetto giuramento che ho fatto quel giorno» rispondeva Umberta con tono amareggiato.

    «Dio punisce in modo severo, tutti quei figli che infrangono le sue regole eterne e immutabili».

    «Io non ho infranto nessuna regola, ho semplicemente salvato la mia vita e quella dei miei quattro figli» affermava la donna, ricordando al sacerdote che quella famosa notte Cosma era tornato a casa completamente fuori di sé a causa di tutto il vino che aveva bevuto.

    Umberta continuò a perseguire la strada che aveva deciso di intraprendere, con molta determinazione: la vita da separata le piaceva. Dopo anni di umiliazioni, riassaporare il gusto della libertà era una sensazione inebriante: persino una semplice giornata di sole, a volte le sembrava la cosa più bella del mondo. I commenti delle sante donne delle Quattrovie le facevano il solletico e Don Giusto era quasi divertente con le sue promesse di dannazione eterna, anche se non sopportava di vederlo tutti i giorni a casa sua. Così una volta lo afferrò per un braccio e lo portò davanti al muro che Cosma aveva imbrattato.

    «Voi dovete dichiarare sempre la verità, non è vero?» domandò la donna.

    «Sì» rispose l’uomo.

    «Allora ditemi che cosa c’è scritto su questo muro».

    Don Giusto cominciò a leggere a bassa voce e contemporaneamente ad arrossire in volto, probabilmente nella sua lunga vita di ministro di Dio non aveva mai letto niente di più osceno e volgare.

    «Per favore padre, leggete in modo che possa sentire anch’io» disse Umberta.

    «Ecco io… io…» balbettò il povero prete. Era molto imbarazzato, sembrava non avere abbastanza coraggio, per fare quello che la signora Rizzutelli gli chiedeva.

    «Allora?» disse ancora Umberta, che pretendeva di ascoltare la voce chiara e decisa del petulante ministro di Dio.

    IO LA QUI PRESENTE MEDESIMA SINIORA RIZUTELI LASCIO TUTTO AL MIO MARITO CHE SI DEVE ANDARE A DIVERTIMENTO CON LE PUTANE E A BEVERE IL VINO E A CIOCHIARE E CHE MI A UCISO PERCHE ERO SEMPRE STATA UNA MOGLIE CHE NON VALE UNO BEL NULA BRUTA VECHIA E CHE NON SA FARE IL SUO DOVERE DI MOLIE.

    «Che cos’e?» chiese stupita Umberta.

    «Sembra…».

    «Un testamento pieno di insulti e porcherie» disse la donna, continuando la frase che il sacerdote non riusciva a pronunciare.

    Non esagerate figliola mia cara. Cosma ha scritto quelle parole, in un momento di poca lucidità».

    «Sono sicura che se quella notte non avessi avuto abbastanza sangue freddo, oggi il signor Rizzutelli si divertirebbe con i soldi della mia eredità».

    Don Giusto si fece dieci volte il segno della croce e recitò un Padre Nostro e un’Ave Maria ad alta voce. Era visibilmente a disagio, sembrava quasi goffo nella sua tunica nera ben lavata e inamidata ma Umberta non ebbe la minima pietà per il suo misero stato, così gli chiese ancora:

    «Dopo quello che avete letto, siete sempre convinto che io debba riprendermi in casa quella bestia?»

    «Figliola mia, tutte le coppie sposate litigano ma dopo tornano a volersi bene come e più di prima».

    «E voi che cosa ne sapete?» domandò Umberta.

    «Confesso, conosco i turbamenti dell’animo umano» rispose il prete.

    «Voi non siete una donna, non vi siete mai sentito un oggetto inutile nelle mani di un uomo cattivo e prepotente, perciò non potete capire il dolore immenso che si prova».

    «Sì, ma i comandamenti… le promesse fatte a nostro Signore».

    «Nostro Signore, dovrebbe rendere impotenti tutti gli uomini che picchiano e violentano le loro mogli e poi farli bruciare nel forno dell’inferno».

    Don Giusto sbiancò e si fece ancora dieci volte il segno della croce, convinto che Umberta non sapesse quello che stava dicendo. Invece la donna era sicurissima delle sue parole, così rincarò la dose:

    «Tutti i giorni maledico il momento in cui ho conosciuto Cosma Rizzutelli e gli auguro tutto il male del mondo».

    Era tutto completamente inutile. Non c’era niente da fare. Umberta era una peccatrice, arrogante e presuntuosa, che non riusciva a trovare abbastanza umiltà nel suo cuore per inchinarsi ai comandamenti inappellabili di Dio. Così Don Giusto si arrese e da quel momento in poi non tornò mai più a farle visita, concedendole la libertà di curare da sola o consegnare definitivamente alle fiamme dell’inferno la sua anima indomabile.

    3.

    In realtà la signora Rizzutelli sapeva già, quello che c’era scritto su quel muro. Glielo aveva letto una delle sue operaie più istruite, e lei aveva provato una profonda vergogna per aver sposato un essere disgustoso come Cosma. Non voleva più tornare con lui, anche se quella decisione avesse significato tradire la legge di Dio e della Chiesa e finire all’inferno. Persino l’inferno, sembrava una passeggiata rispetto a quello che le aveva fatto vivere suo marito. Era riuscito a farle perdere la stima e il rispetto di se stessa, perché lo aveva persino supplicato in ginocchio di cambiare per la sua famiglia. Come risposta alle sue suppliche aveva ricevuto soltanto sputi e calci in pancia, che le avevano fatto perdere un bambino. Quella volta aveva persino rischiato di morire dissanguata, chiusa in bagno e con un fazzoletto stretto tra i denti per non gridare dal dolore e attirare l’attenzione dei suoi ragazzi. La disperazione che aveva provato in quei momenti non la augurava a nessuno. Nemmeno al suo peggior nemico, avrebbe mai potuto augurare di essere costretto a seppellire un figlio di nascosto come se fosse un povero cane. Tutte le volte che lavorava la terra e guardava quella piccola croce di semplice legno, non riusciva a trattenere le lacrime e inevitabilmente le ritornavano alla mente quei momenti terribili. Era una bambina, tenera e invisibile, l’aveva avvolta in uno straccio e nascosta nella dispensa della cucina, fino a quando aveva avuto la possibilità di scavare un piccolo fosso nella piantagione e dirle addio sottovoce.

    Umberta non poteva provare più niente per Cosma, nemmeno un briciolo di compassione. Perciò quando le capitava di incontrarlo per strada, stanco e abbattuto come una povera bestiola randagia non poteva far a meno di ridergli in faccia. Era lei quella più forte nella loro coppia perché aveva una casa, una proprietà e il denaro sufficiente da poter fare a meno di un povero uomo insignificante come lui. I bambini invece soffrivano molto per la loro nuova situazione familiare, soprattutto, il primogenito Daniele che sembrava essere il più sensibile dei piccoli Rizzutelli. Ogni tanto andava a trovare Cosma di nascosto e gli portava un pezzo di pane ma lui ne approfittava per dirgli che se sua madre non lo avesse perdonato, sarebbero successe delle cose terribili alla loro famiglia. Così il ragazzino sempre più spaventato dalle parole di suo padre, decise di parlare con Umberta per chiederle di farlo tornare a casa. Quando la donna rispose che non era possibile Daniele cominciò a piangere disperatamente, dicendo che aveva tanta paura di perdere Libera. Allora il bambino le confessò che aveva sentito dire che, se la Chiesa avesse saputo dell’esistenza di una famiglia di separati alle Quattrovie, sicuramente avrebbe portato la bambina lontano dal paese per farla crescere in un luogo con una moralità e una fede cristiana più adatte a una donna. Umberta rimase sbalordita dalla cattiveria di quelle parole, prese in braccio il suo piccolo e tentò di rassicurarlo, promettendogli che se qualcuno avesse provato a toccare la sua sorellina se lo sarebbe mangiato in un sol boccone. Per qualche settimana le acque si calmarono e almeno in apparenza Daniele sembrò accettare la separazione dei suoi genitori, fino a quando un giorno il piccolo tornò da scuola con un occhio nero come la pece e così dopo aver ascoltato una terribile confessione, Umberta fu costretta a prendere una decisione molto difficile.

    «La maestra mi ha sospeso da scuola» disse il ragazzino.

    «Che cosa è successo?» chiese Umberta.

    «Ho rotto la testa a uno dei miei compagni di classe» rispose.

    «E perché avete fatto una cosa del genere?»

    «Perché ha detto che voi siete una puttana separata».

    Quella frase lasciò la donna senza parole, ancora una volta. Era diventata la puttana del paese soltanto perché a differenza di tante altre donne che vivevano la sua stessa situazione, aveva avuto il coraggio di reagire e dire basta alle botte e ai tradimenti di suo marito. Se fosse stata sola avrebbe sopportato tutte le malelingue del mondo, perché il giudizio scontato della gente che la circondava continuava a non interessarle. Quello dei suoi figli, invece, era importantissimo: per il loro bene, si sarebbe lanciata a occhi chiusi dalla montagna più alta del mondo. Così pur facendosi una terribile violenza, mise da parte la donna per la madre di famiglia e cercò di ricomporre i cocci del suo matrimonio.

    Una mattina presto aprì il portone verde e andò nella stalla dove ormai Cosma dormiva da settimane, rannicchiato tra gli escrementi degli animali. Era ubriaco fradicio come al solito, lo afferrò per i piedi e lo trascinò in casa, fino alla stanza da letto. L’uomo era immerso in un sonno talmente profondo che non si accorse di niente, nemmeno di quando sua moglie lo spogliò e lo gettò nella tinozza per togliergli di dosso il cattivo odore della stalla. Dopo averlo messo a letto, Umberta si sedette accanto a lui e rimase a guardarlo fino a quando lui si degnò di risvegliarsi. Lo disprezzava fino al punto di volerlo vedere morto, ma era convinta di aver preso la decisione più giusta. Quando Cosma aprì gli occhi e la vide, rimase visibilmente sorpreso. Sembrava non ricordare più niente di tutto quello che era successo fino a quel momento, allora ci pensò Umberta a rinfrescargli la memoria:

    «Siete nella mia casa, ho deciso che potete tornare a vivere qui».

    «Vi prometto che non andrò mai più al bordello… perché da quando mi avete cacciato… ho capito di aver sbagliato tutto» .

    «Non fate promesse, non avete abbastanza fegato per mantenerle».

    «Davvero, io voglio ricominciare daccapo per voi e i nostri bambini» disse Cosma, con un atteggiamento da povera vittima.

    «Io ho smesso di amarvi tempo fa, d’ora in poi il nostro sarà soltanto un matrimonio di facciata».

    «Che cosa intendete dire?»

    «Che non avrete più il diritto di comandarmi come se fossi la vostra serva e di dormire nel mio letto» rispose Umberta.

    «Non potete trattarmi in questo modo, sono pur sempre vostro marito» cercò di protestare Rizzutelli.

    «Da questo momento in poi sarete soltanto il padre indegno dei miei figli, cercate di comportarvi bene almeno con loro che provano ancora dell’affetto nei vostri confronti, altrimenti farete la fine di uno dei miei polli» disse Umberta.

    «Non avreste mai il coraggio di farmi del male».

    «Ormai io non ho più paura di voi, se lo volessi potrei ammazzarvi senza pietà in qualsiasi momento del giorno e della notte».

    Cosma promise che avrebbe fatto del suo meglio per diventare un bravo padre e con il trascorrere dei mesi riuscì a mantenere la parola, rinunciò a tutti i suoi vizi e cominciò a essere gentile e affettuoso con i bambini che furono felicissimi del suo radicale cambiamento. Anche la gente delle Quattrovie fu contenta di vedere la famiglia Rizzutelli di nuovo unita. Le donne ricominciarono a salutare Umberta, quando andava al mercato o al fiume per lavare la biancheria e tutte le domeniche dopo la messa nella Cattedrale, mentre gli uomini facevano a gara per scambiare qualche parola con Cosma, ormai diventato l’uomo più popolare del paese perché era riuscito a farsi perdonare da sua moglie e a tornare a casa, come se non fosse mai successo niente. Umberta si sforzava di essere gentile ma nel suo cuore moriva dal desiderio di urlare il disprezzo che provava per quella gente meschina e interessata soltanto all'apparenza che, dopo averla trattata come una povera appestata, ora quasi pendeva dalle sue labbra.

    Stupide oche che non sanno vivere senza avere un uomo accanto. Credono che sia una vergogna o un peccato mortale e se non sei della loro stessa opinione, allora ti annientano e ti giudicano una puttana pensava, mentre era costretta a sorridere e dare la mano a quelle quattro donne insensate, che avevano prontamente avvertito Don Giusto della sua separazione.

    La donna era costretta a portare una terribile maschera di finta serenità, per tutto il giorno. Così aspettava con trepidazione la notte, quando poteva liberarsene ed essere veramente se stessa di nuovo. Dopo aver messo i bambini a letto e preparato il divano per Cosma nella minuscola stanzetta destinata agli ospiti, si chiudeva nella sua camera, metteva un bel vestito e usciva di nascosto per il balcone, timorosa di svegliare qualcuno della famiglia ed essere costretta a dare delle spiegazioni che non voleva. Prendeva la bicicletta e arrivava fino a Eboli, dove avevano aperto un nuovo locale in cui si ballava fino all’alba. Sera dopo sera cominciò a fare delle interessanti amicizie maschili, che le diedero la forza per sopportare la sua infelice vita matrimoniale. Cosma, invece, passava le sue notti insonne chiuso nella stalla insieme alle bestie, perché la poca dignità che aveva ancora, gli impediva di dormire sul divano come se fosse un estraneo. E, purtroppo, senza la compagnia dell’alcool era condannato a pensare per tutto il tempo. Così si rendeva sempre più conto che, a parte la soddisfazione di essere sopravvissuto alla strage di Caporetto, la sua vita era stata un completo fallimento e che soltanto un miracolo avrebbe potuto stravolgere le cose.

    «Una grande impresa, per riscattare questo schifo di vita» diceva, guardando e pregando una luna lontana e silenziosa.

    Il 10 giugno del 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò che l’Italia avrebbe partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, al fianco della Germania di Adolf Hitler. Il Paese accolse con inquietudine la notizia ma, tutto sommato, condivideva la convinzione di Mussolini che i tedeschi avrebbero vinto la guerra e, alla fine, l’Italia si sarebbe trovata dalla parte dei vincitori. Cosma ascoltò il discorso del Duce alla radio e non appena sentì che erano state inviate le dichiarazioni di guerra a Francia e Gran Bretagna, quasi saltò dalla sedia per la felicità. Il signor Rizzutelli era stato tra i primi uomini delle Quattrovie a iscriversi al partito fascista e credeva in Mussolini, come non aveva mai creduto in nessun altro essere umano, tanto da cominciare ad assomigliarli persino nelle movenze: petto in fuori e testa alta. Così aspettò con trepidazione di essere chiamato alla guerra che avrebbe dato fama all’Italia e un nuovo valore alla sua vita. Appena gli fu comunicato che doveva partire per il fronte, l’uomo mise poche cose in un borsone e se ne andò senza provare il benché minimo rimpianto per tutto quello che si lasciava alle spalle.

    «Non ho mai provato niente di sincero, né per voi né tanto meno per i vostri stupidi marmocchi» disse Cosma, quando Umberta gli chiese di ripensarci e fuggire per amore della sua famiglia.

    «Allora vi auguro con tutto il cuore di crepare in Russia, un uomo che non riesce ad amare nemmeno i suoi figli non è degno di vivere» gli gridò dietro Umberta.

    Cosma entrò a far parte dell’ottava armata italiana in Russia denominata ARMIR e, come gli aveva augurato sua moglie, trovò la morte durante la terribile battaglia di Stalingrado. Quando la notizia arrivò alle Quattrovie, Umberta iniziò a piangere e non riuscì più a smettere per dieci lunghissimi giorni. Sembrava una povera vedova inconsolabile ma, in realtà, le sue erano lacrime di gioia. Finalmente era di nuovo libera. Il destino le aveva dato una mano: aveva messo fine a un matrimonio, che le aveva regalato soltanto sofferenze, ora la sua vita le apparteneva di nuovo. Dopo aver ripreso il controllo totale sulle sue emozioni, la donna, che rifiutò assolutamente di vestirsi a lutto come si usava fare in paese per la morte dei parenti più stretti, fece dire una messa di suffragio per la povera anima di suo marito e giurò a se stessa che da quel momento in poi tutto sarebbe stato completamente diverso. Perché niente e nessuno sarebbe più riuscito a metterla in gabbia e trattarla come una persona inutile. La guerra risparmiò la casa del portone verde ma non la piantagione di pomodori. Dopo tanti mesi senza ricevere le cure adeguate, la terra sembrava diventata sterile. Così Umberta dovette rimboccarsi le maniche e faticare più di quanto non avesse mai fatto prima, per riuscire a riportarla allo splendore di una volta. Tornò a lavorare la terra con la stessa felicità di quand’era bambina e la sensazione che, il futuro dovesse riservarle ancora qualcosa di molto importante. Lavorò senza sosta fino a quando la piantagione cominciò a produrre nuovamente dei raccolti abbondanti, che le permisero di recuperare i soldi dilapidati da Cosma e addirittura di farne molti di più. Così in pochi anni la vedova Rizzutelli diventò la donna più ricca delle Quattrovie e quando la terra cominciò a non darle più tanta soddisfazione, allora decise di investire parte del suo denaro in una piccola attività commerciale. Il dottor Luisio Marino Giovanbattista, il medico del paese, aveva una bottega vuota a due passi da casa sua e Umberta stabilì che era il posto ideale per vendere quei nuovi prodotti alimentari, come il formaggio con i buchi, che spesso assaggiava durante le avventurose passeggiate che si concedeva in città mentre Daniele se ne andava in giro a combinare guai con i suoi amici balordi e i bambini più piccoli erano a scuola. Appena il medico seppe le intenzioni della vedova, cominciò a farle visita con una certa assiduità. Desiderava chiudere al più presto l'affare e comprare una casa al mare, come ormai facevano tutte le persone di un certo ceto sociale. Umberta però si dimostrò piuttosto titubante nel dover mettere una X su un documento senza conoscerne il contenuto. Ormai non si fidava più del suo prossimo, soprattutto se di sesso maschile, perciò chiese del tempo per andare a scuola e istruirsi un po’.

    «È un affare molto vantaggioso, non vi conviene aspettare» disse un giorno il dottore, stanco dei tentennamenti della vedova.

    «Soltanto quando sarò capace di leggere e scrivere, potrò rendermi conto se l’affare è veramente vantaggioso come dite».

    «Non sono un uomo che ama aspettare a lungo».

    «Allora cercate un altro compratore per la vostra bottega che abbia la mia stessa disponibilità economica» disse Umberta con tono fermo, facendogli chiaramente capire che non avrebbe mai accettato l’imposizione della sua volontà.

    Il dottore sapeva bene che in paese non c’era un’altra persona benestante quanto la vedova Rizzutelli, perciò alla fine le concesse tutto il tempo che desiderava. Così Umberta cominciò a frequentare la scuola e in poche settimane riuscì a diventare l’alunna più brava dell’istituto elementare delle Quattrovie. Imparò a leggere e scrivere con una velocità sorprendente e appena due mesi dopo l’accordo verbale, finalmente poté firmare con una stupenda calligrafia il contratto d’acquisto della bottega di Luisio Giovanbattista. Era una bella e spaziosa bottega della fine dell’Ottocento, appartenuta alla signora Anita Giovanbattista, la defunta madre del dottore, che per qualche tempo aveva tentato di produrre e vendere scarpe ma senza ottenere particolare successo. Dopo i lavori di ristrutturazione La bottega delle Meraviglie, come decise di chiamarla la vedova Rizzutelli, si trasformò in un posto incantevole. All’esterno aveva una sfavillante facciata di mattoni rossi e due ampie vetrine ai lati della porta, destinate a contenere i dolci più belli della domenica e di tutti gli altri giorni di festa. All’interno il pavimento era a scacchi, alcune piastrelle erano di legno chiaro altre di marmo bianco. Il bancone era di forma rettangolare e realizzato in legno di noce, decorato da alcuni manifesti che illustravano i marchi dei prodotti più in voga in quel periodo, come il famoso detersivo Olà. Sul piano d’appoggio c’erano una bilancia, un registratore di cassa dorato, un mucchietto di lecca lecca, dei contenitori di vetro a forma

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