Vento di terra
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La vicenda è speculare a una odierna, riguardante gli amori segreti tra il segretario comunale di un paesino del sud-Italia e una discendente di Elena Macchiaroli.
L’agguato del Costa impedì a Rosario Macchiaroli e alla promessa sposa la fuga per le Americhe.
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Vento di terra - Giuseppe Costantino Budetta
pubblicati.
ELENA DI TROIA
Remoti ricordi. Contadini del mio paese tornare a casa curvi, scuri e sudati. Luce crepuscolare. Quei contadini che, ragazzo, vedevo passarmi davanti avevano alle spalle i tascapane e la zappa. Le donne lente risalire la strada polverosa con canestri, sacchi o fasci d’erba in bilico sulla testa. Gruppi di gente sudata – non ricordo le voci e i particolari delle facce – con asino carico di legna e cesti legati al basto. A precedere o seguire gli asini, c’erano capre che spesso si raspavano ai muri.
Cortili con galline e tacchini a beccare crusca e porcilaie chiassose. Alberi nelle prime ombre serali pieni dello stridio assordante dei passeri.
Con un sasso ruppi la testa a una ragazzina sui quattordici anni dal nasino in su e treccia bionda. Si chiamava Elena, detta Elena di Troia, appartenente ai nobili del paese, sdegnosi del volgo. Forse non fui io a romperle la testa. Ero con un gruppo di ragazzi coetanei. Vedemmo giocare Elena e alcune amiche nel suo giardino confinante col mio. Rovesciammo su di loro male parole e istigati dalle smorfie che ci facevano, le prendemmo a sassate. Avevamo tutti una buona mira perché ci allenavamo a colpire da lontano coi sassi i tronchi degli alberi. Elena fu centrata alla fronte da una pietra e si mise a strillare. Arrivarono di corsa la madre e la serva che la portarono via sanguinante.
Arrivò a casa la madre di Elena con una frusta in mano. Disse a mia madre che avevo rotto la testa alla figlia. Era decisa: Non me ne vado da qui, finché non avrete frustato vostro figlio. Così impara e non scaglierà pietre contro mia figlia.
Le presi di santa ragione. Qualche giorno dopo vidi Elena nel giardino, con la testa fasciata, che rideva verso di me con gl’incisivi lucenti che irritavano ancora di più.
La odiai. Andai contro la rete metallica di recinzione e le gridai:
Chi ti ha detto che sono stato io a romperti la testa?
Mangiava pizza al pomodoro. Si bloccò, mi guardò e corse via impaurita. La madre si sporse dal terrazzo e mi fulminò con lo sguardo. Il giorno dopo la rividi nell’orto. La osservavo come una appartenente ad un altro mondo. Lei nobile ed io plebeo. Questa volta fu lei a chiamarmi. Rimasi sorpreso del fatto che non mostrò paura di me. Mi avvicinai al reticolato e le gridai:
Che vuoi?
Tieni. Facciamo pace.
Mi offrì cioccolatini. Guardato in su se c’era la madre, disse:
Domani ti porto dei giornalini. Mettiti sotto quel calesse e aspettami.
Settembre inoltrato. Le giornate si accorciavano e spesso pioveva impedendoci di giocare per strada. Il giorno seguente, alla stessa ora, andai ad acquattarmi sotto il calesse. Poteva essere un tranello per farmi sgridare dal padre. Se era così, mi sarei vendicato prima o poi con una nuova sassata. Puntuale, Elena scese le scale del loggiato e venne a infilarsi sotto il calesse accanto a me. Mi sguardò con quegli occhi azzurri. Stringeva un pacchetto di giornalini di Blek e Capitan Miki. Sembravano un pacco di moneta cartacea perché i giornalini erano oblunghi ed avevano la stessa forma rettangolare di un mazzo di dollari. I giornalini erano del fratello, di qualche anno più grande di lei. Aveva fretta e paura. Disse, andando via:
Domani te ne porto altri. Questi te li regalo.
La osservai allontanarsi. Vista da dietro, l’incavo delle cosce all’altezza dei ginocchi era di donna matura, coi due tendini tesi. N’aveva avuto di coraggio a venire all’appuntamento. Tornai nel mio orto e andai a chiudermi in camera a leggere i giornalini di Elena. Mi accorsi con gioia che due di Capitan Miki mancavano alla mia serie.
Verso le tre, il giorno seguente, ci vedemmo di nuovo. A controra tutti riposavano. In mattinata, era piovuto e c’era odore di terra arsa e di polvere. Con un frullo i passeri volavano sulla vicina legnaia.
Sotto il calesse mi porse altri giornalini, questa volta di varia forma, non solo di Blek e Capitan Miki. Per esempio, c’erano alcuni Intrepidi ed alcune collane prateria
di Tex Willer.
C’era una sottile pioggia. Sentimmo chiamare: Elena, Elena, dove sei?
Era la madre arcigna. Ebbi paura ed anche lei, questa volta.
Mia madre!
, disse uscendo da sotto il calesse.
Si fece vedere dalla madre: Sono qui mamma.
Entra dentro, viene a piovere.
Vengo sùbito. Aspetto una mia amica e poi vengo in casa.
Appena la madre ebbe chiuso i battenti, Elena s’accostò a me e disse:
Domani te ne do ancora. Aspettami qui domani a quest’ora.
E se ci vedono?
Facciamo sùbito. Mia madre dorme sempre a quest’ora.
Il padre non c’era, forse in città. Il fratello se ne andava spesso da un cugino a giocare. Nella mia cameretta andai a sfogliare i nuovi giornalini. Oltre ai soliti, c’erano quelli de L’Intrepido e di Tex Willer. Nella fretta e timorosa di essere scoperta dal fratello, Elena poteva aver arraffato alla meglio alcuni giornalini. Vidi che ce n’era una di spessore e formato diverso; sembrava un rotocalco tipo Grand Hotel. Cazzo! Erano immagini erotiche. Belle ventenni facevano pompini a maschi muscolosi e vogliosi. Alcuni uccelli erano più mostruosi di quello del mio amico Michele. C’erano bellezze nude da spasimare. Fui tentato di mostrare l’opuscolo agli amici, che avrebbero sgranato gli occhi. Poi mi dissi che era meglio non fidarsi. Avrei restituito il giornalino a Elena, osservandone la reazione. Voleva provocarmi? Era un invito a fare con lei le scostumatezze? Non potevamo fare i giochi di sesso sotto il calesse dove eravamo troppo visibili. L’unico posto adatto rimaneva il vecchio cesso sul ballatoio, ai lati del suo terrazzo. Però non era sicuro se lei ci stava. Chissà che ha in mente, pensai. La casa di Elena aveva decine di stanze e alcune andavano ristrutturate. Le parti più malandate erano il piano terra, la cantina, il fienile, le stalle e quel cesso ai lati del terrazzo.
L’indomani, mi fece cenno da lontano che non poteva venire. Potevamo vederci il giorno seguente. Ci volle un po’ a farmelo capire a gesti, ma alla fine fu chiaro. Una momentanea delusione che incrementava il desiderio di vederla da sola. All’ora convenuta, mi appostai sotto il calesse. Arrivò in ritardo. Tenevo il porno sotto la maglietta e lei il mazzo di giornalini in una mano. Mi consegnò il solito dono e si accovacciò accanto a me, tirandosi pudica il bordo della gonna sui ginocchi. Disse, accennando al cerotto in fronte:
Si sta rimarginando. Il medico dice che tra giorni non si vedrà più niente.
Io sono innocente. Non ti ruppi io la testa…
I passeri erano lì tra le zolle di terra arata, lì a guardarci malignamente. Sparivano coi loro stridi nella stasi del giorno. Poi, di colpo riapparivano, irrequieti, arruffati, con occhietti neri di carbone.
Mi feci coraggio e dissi: Ho trovato questo in mezzo gli altri…
Le misi tra le mani il giornalino sporco. S’infiammò come un papavero; lo sfogliò e indugiò con insistenza su alcune di quelle immagine scandalose. Disse: Davvero si fa così tra uomo e donna?
Quando si gioca a marito e moglie…
Prese ad allargare e chiudere le cosce in continuazione come se una specie di formicolio le friggesse senza interruzione lungo le cosce. Era tutta avvampata. Il suo rossore mi diede il giusto coraggio. Ebbi la forza di dirle sottovoce, ma senza guardarla: Vieni con me. Andiamo in quello stanzino affianco al tuo terrazzo. Lì non ci vede nessuno.
Indicai il vecchio gabinetto a metà della rampa di scale che dal terrazzo portava in giardino. C’era un ampio ballatoio e la porta verdastra del cesso. Un muricciolo di mattoni faceva da parapetto nella parte esterna. Dall’altro lato, c’erano le quinte della sua casa. Chiese ingenua: A fare che?
Questa volta ero rassicurante e sorridendole dissi: Giochiamo un po’.
Si avviò prima lei in silenzio. Aspettai ch’entrasse. Il cuore a palpitarmi. In fretta, salii le scale piegato col busto in avanti per non essere visto. Alla controra, tutti dormivano e regnava il canto delle cicale. Lo stanzino aveva una sgangherata portella di legno che strideva sul pavimento. Un finestrino dava luce al locale angusto dove potevano starci massimo due persone, oltre alla coppa del cesso. Chiudemmo con accortezza la porta. Fissandomi negli occhi, Elena abbassò le mutande bianche e si sollevò la gonna. Aveva la fessa con corti peli rossicci. Tenne con i gomiti la gonna sollevata contro di sé e con le dita stirò le grandi labbra della fessa a imbuto. Ci ficcai il cazzo dentro.
Stavo arrivando all’orgasmo e la paura di oltrepassare limiti pericolosi di metterla incinta mi spinse a cacciarglielo fuori. Volle toccarmelo. Sulla punta ardente del glande spuntò una