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Gringolandia
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Gringolandia

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About this ebook

In Cile, il papá di Daniel, Marcelo, gioca a calcio, balla la cueca e accompagna i figli a scuola nel suo taxi verde malconcio. Ma la sua attività più importante è clandestina: un giornale per denunciare il regime militare del generale Pinochet.

Per questo viene arrestato nel 1980, e la sua famiglia è costretta a emigrare negli Stati Uniti. Qui l’adolescente Daniel si fa una nuova vita: suona la chitarra in un gruppo rock, s’innamora di Courtney, la figlia di un ministro di culto locale, e spera di diventare cittadino americano a 18 anni. Ma quando suo padre viene rilasciato e si riunisce alla famiglia, anche Daniel si trova a dover affrontare le conseguenze terribili di cinque anni di prigionia e di torture. Marcelo è semiparalizzato, alcolizzato, tormentato da incubi e amareggiato per l’esilio in un paese che ritiene complice di Pinochet e chiama sarcasticamente “Gringolandia”. Courtney, appassionata attivista in erba, vuole realizzare con lui un giornale a difesa dei diritti umani. Daniel, invece, teme che la continuazione dell’impegno politico possa peggiorare le tendenze autodistruttive del padre. Con lui, il ragazzo sogna un rapporto normale. Poi però si accorge che, per salvargli la vita, dovrà rinunciare ai sogni e affrontare la realtà, riscoprendo le proprie radici.
LanguageItaliano
Release dateFeb 26, 2014
ISBN9788865641057
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    Book preview

    Gringolandia - Lyn Miller

    Note

    Gringolandia

    Lyn Miller-Lachmann

    Gringolandia

    titolo originale

    Gringolandia

    © 2009 Lyn Miller-Lachmann

    © 2009 Curbstone Books

    traduzione dall’inglese di Giampiero Cara

    Premi letterari:

    2010 ALA Best Books for Young Adults (Miglior libro per ragazzi negli Stati Uniti d’America)

    2010 Bank Street College of Education Best Children’s Books of 2010 (dai 14 anni in su)

    2010 Américas Award Honor Book

    Medaglia d’oro di IPPY (Associazione Editori Indipendenti Americani)

    Finalista, Foreword Book of the Year, YA Fiction

    ALAN’s Pick, 2009

    2011 TayshasHigh list

    ISBN cartaceo: 9788865640210

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    Collana Biblioteca dei ragazzi, Febbraio 2014

    SINOSSI

    In Cile, il papá di Daniel, Marcelo, gioca a calcio, balla la cueca e accompagna i figli a scuola nel suo malconcio taxi verde. Ma la sua attività più importante è clandestina: un giornale per denunciare il regime militare del generale Pinochet. Per questo viene arrestato nel 1980, e la sua famiglia è costretta a emigrare negli Stati Uniti. Qui l’adolescente Daniel si fa una nuova vita: suona la chitarra in un gruppo rock, s’innamora di Courtney, la figlia di un ministro di culto locale, e spera di diventare cittadino americano a 18 anni. Ma quando suo padre viene rilasciato e si riunisce alla famiglia, anche Daniel si trova a dover affrontare le conseguenze terribili di cinque anni di prigionia e di torture. Marcelo è semiparalizzato, alcolizzato, tormentato da incubi e amareggiato per l’esilio in un paese che ritiene complice di Pinochet e chiama sarcasticamente Gringolandia. Courtney, appassionata attivista in erba, vuole realizzare con lui un giornale a difesa dei diritti umani. Daniel, invece, teme che la continuazione dell’impegno politico possa peggiorare le tendenze autodistruttive del padre. Con lui, il ragazzo sogna un rapporto normale. Poi però si accorge che, per salvargli la vita, dovrà rinunciare ai sogni e affrontare la realtà, riscoprendo le proprie radici.

    NOTA DELL’AUTRICE

    Nel settembre del 1970, il popolo cileno elesse presidente il medico e politico socialista Salvador Allende. Allende propose di nazionalizzare (ossia di affidare alla proprietà statale) delle industrie chiave e di redistribuire la ricchezza del paese in maniera più equa. I suoi atti provocarono il governo degli Stati Uniti, che temeva l’ascesa di un’altra nazione comunista nelle Americhe. Dopo tre anni di tentativi di destabilizzazione, gli Stati Uniti, attraverso la CIA, sostennero un colpo di stato militare guidato dal comandante dell’esercito cileno, il generale Augusto Pinochet.

    Questo colpo di stato, verificatosi l’11 settembre del 1973, portò alla morte di Allende e di circa 3.000 suoi sostenitori, all’incarcerazione e alla tortura di altre 30.000 persone e all’esilio e all’emigrazione di quasi un decimo della popolazione del paese. Il colpo di stato mise fine alla lunga storia di democrazia e di legalità stabili del Cile – motivo d’orgoglio per questa nazione sudamericana – e diede inizio a diciassette anni di violenta repressione. Il regime di Pinochet annullò non solo le politiche di Allende, ma anche i decenni precedenti di riforme sociali, lasciando l’economia alle politiche di libero mercato, che determinarono effettivamente una crescita economica, accompagnata però da condizioni di miseria sempre peggiori per i poveri. Oggi il Cile ha una distribuzione delle ricchezze tra le più disuguali dell’emisfero occidentale.

    In linea con i dettami della Costituzione del 1980, da lui stesso scritta, il 5 ottobre del 1988 Pinochet indisse un plebiscito. Dopo aver vissuto per anni nella paura, e nonostante le limitazioni alla stampa e altre regole in favore del generale, il popolo cileno votò NO alla continuazione della dittatura di Pinochet. Nel marzo del 1990, assunse il controllo un governo civile.

    I personaggi di Gringolandia sono inventati ma basati su persone reali che hanno lottato contro la censura, la repressione e il terrore per portare la democrazia nel loro paese. Il musicista Victor Jara e il giovane fotografo Rodrigo Rojas Denegri (o De Negri) sono stati, purtroppo, vere vittime della brutalità del regime di Pinochet.

    Per approfondire:

    Allende, Isabel, Il mio paese inventato, Milano, Feltrinelli, 2004

    Arce, Luz, El infierno, Santiago, Planeta, 1993

    Constable, Pamela e Valenzuela, Arturo, A Nation of Enemies: Chile Under Pinochet, New York, W.W. Norton, 1991

    Dorfman, Ariel, Other Septembers, Many Americas: Selected Provocations, 1980-2004, New York, Seven Stories Press, 2004

    Jara, Joan, Victor Jara: Una canzone infinita, Milano, Sperling & Kupfer, 1999

    In memoria di Alexander Sandy Taylor

    1931-2007

    PRIMA PARTE

    Allora

    Capitolo 1

    23 ottobre 1980

    Santiago, Cile

    Un improvviso frastuono, seguito da un urlo, lo scosse da un sonno profondo.

    Era il grido di sua madre. Daniel buttò indietro le coperte e si alzò a sedere sul letto.

    Lei urlò di nuovo. Ormai completamente sveglio, Daniel udì strane voci. E passi che non erano né di sua madre né di suo padre.

    «Dov’è?» chiese lo sconosciuto.

    Dov’è chi?

    «Qui non c’è» rispose la mamma. «Vi prego di non svegliare i bambini».

    «Bugiarda!» urlò l’uomo. Il suono di uno schiaffo fece tremare Daniel. Non sapeva se affondare sotto le coperte o uscire dal letto per difendere sua madre. Dal soggiorno si levarono singhiozzi attutiti. Nell’appartamento, dall’altra parte della parete della stanza di Daniel, una bambina cominciò a piangere.

    Abbracciandosi per smettere di tremare, Daniel raggiunse in punta di piedi la porta e la socchiuse appena.

    La stanza sembrava piena di soldati, uomini che indossavano uniformi cachi con maschere da sci nere per coprirsi il volto. Daniel ne contò quattro. Ognuno aveva una fondina sulla cintura e portava una mitragliatrice. Una mitragliatrice vera, di quelle capaci di uccidere. Gli uomini circondavano sua madre, piccola e spaventata nella sua camicia da notte. Aveva le guance d’un rosso acceso.

    «Perquisite il posto» ordinò quello più alto.

    Un soldato grasso si avviò verso la camera di Daniel. Daniel si appiattì sulla parete dietro la porta. In un istante la porta andò in pezzi, e un panello di legno lo colpì sulla fronte, facendolo guaire di dolore.

    «L’ho preso!» gridò il soldato.

    Mani ruvide afferrarono Daniel per il pigiama e lo trascinarono verso la luce.

    «Maledizione! È suo figlio!»

    Daniel sbatté gli occhi rapidamente e cercò di coprirseli con la mano destra, ma il soldato alto gli afferrò entrambi i polsi e glieli spinse bruscamente dietro la schiena. Lo sgambettarono con un calcio, e lui atterrò sul tappeto con un tonfo attutito che gli tolse il fiato. La lana del tappeto gli raschiò la guancia. Sentì un oggetto piccolo, freddo e duro premergli sul lato della testa. Fiutò un odore di grasso mescolato ad aglio.

    «Ora ci dici dov’è, sennò facciamo fuori il marmocchio».

    Per un lungo momento sua madre non disse nulla.

    Mamá, vogliono davvero uccidermi?

    La bambina non piangeva più. Nel silenzio assoluto, Daniel udì uno scatto metallico.

    «La… la finestra» balbettò la mamma.

    Il soldato tolse la pistola dalla tempia di Daniel e si alzò. Il ragazzo rimase sdraiato sul pavimento, cercando di riprendere fiato. Senza i suoi occhiali, non riusciva a leggere i distintivi sulla spalla dell’uomo, ma immaginò che si trattasse della CNI, la polizia segreta. L’uomo sollevò il walkie-talkie dalla cintura e diede rapidamente un ordine: «Chiudete tutte le uscite sul cortile. È sceso dalla finestra sul retro».

    Daniel immaginò i soldati appostarsi veloci e silenziosi, proprio come nei film polizieschi in TV.

    Ma stavano dando la caccia a suo padre, e suo padre non era un criminale.

    Suo padre guidava un taxi. Daniel non sapeva altro del suo lavoro. Ogni mattina portava a scuola Daniel e sua sorella, Cristina, nel malconcio colectivo[1] verde e tornava a casa ogni sera per cena.

    Mentre giaceva sul tappeto del soggiorno, visualizzò suo padre. Alto, con gli occhiali dalla sottile montatura dorata, coi capelli castano-rossicci ondulati, i baffi e la barba. Mani grandi e delicate e braccia forti. Ancora adesso che Daniel aveva undici anni, quasi dodici, suo padre riusciva a sollevarlo sulle spalle per guardare una partita di fútbol.

    Forse riuscirà a scappare. Se non avessi fatto rumore… Se non mi fossi alzato dal letto… Le lacrime riempirono gli occhi di Daniel, che li chiuse con forza.

    La porta danneggiata dell’appartamento si aprì sbattendo contro la parete.

    «È nostro, capo».

    Daniel si alzò. Nei pochi secondi prima che uno degli altri soldati lo spingesse nuovamente giù, vide tre uomini con caschi e senza maschera trascinare dentro suo padre, che indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni sgualciti. Sembrava esserseli infilati in fretta.

    «Marcelo!» gridò la madre di Daniel.

    Daniel udì il rumore sordo di un pugno contro un corpo, seguito da un grugnito stridulo.

    Qualcuno afferrò Daniel per i capelli e gli tirò bruscamente la testa all’indietro. Lui alzò gli occhi verso la faccia coperta dell’uomo alto. Il capo. Quell’uomo aveva gli occhi neri e terrificanti nell’ombra, e la sua bocca, un piccolo buco rotondo ritagliato sulla maschera, si muoveva come quella di un robot.

    «Guarda bene, ragazzo» ringhiò. «Ecco cosa succede ai comunisti».

    I soldati con il casco se ne andarono. L’uomo alto si accovacciò e premette il ginocchio tra le scapole di Daniel, che sentì mani ruvide tra i capelli torcergli la testa all’indietro. Gli altri tre uomini mascherati si avventarono su suo padre, colpendolo sulla testa e sul corpo. I suoi occhiali volarono via e finirono schiacciati sotto uno stivale nero. Lui cadde sulle ginocchia, con il sangue che gli colava sul viso e in mezzo alla barba.

    Daniel chiuse gli occhi e cercò di escludere il suono di suo padre che tossiva e soffocava con rantoli orribili. Stanno picchiando papá a morte. Qualcuno… li faccia smettere. Quando Daniel riaprì gli occhi, suo padre stava carponi. Lo stivale di un soldato lo colpì al lato della testa. Lui cadde pesantemente sulla schiena e giacque immobile.

    «Portiamolo fuori di qui».

    Avevano portato un gigantesco sacco di tela, simile alla borsa della squadra di fútbol, solo più grande. Due soldati appallottolarono il padre di Daniel, e un terzo lo spinse dentro il sacco.

    Con le mani sporche di sangue, i tre soldati sollevarono il sacco e lo portarono fuori dalla porta. Daniel si sforzò di vedere se ci fosse movimento all’interno del sacco, o se suo padre fosse già morto. Il capo si alzò, prese Daniel per il bavero del pigiama e lo trascinò sulle ginocchia.

    «Hai imparato la lezione, ragazzo?»

    Daniel non disse nulla.

    L’uomo lo scosse e gridò: «Rispondimi, piccolo bastardo!»

    Daniel annuì rapidamente.

    «Bene» disse l’uomo «Perché viviamo in un grande paese. Per mantenerlo così, dobbiamo liberarci dei sovversivi, altrimenti prendono il potere e creano il caos. O un’altra Cuba». Fece una pausa, con le labbra serrate nel buco della maschera nera. Lasciò cadere un braccio lungo il fianco. «Al diavolo. Sei soltanto lo stupido figlio di un comunista». Sputò sul tappeto, imbracciò il fucile e uscì dall’appartamento insieme agli altri.

    Daniel pensò che non si sarebbe più rialzato dal pavimento, ma si ritrovò in piedi non appena i soldati se ne furono andati. Raccolse la montatura sottile degli occhiali di suo padre. Sua madre lo abbracciò.

    «Mi dispiace, mamá» mormorò più volte.

    «Non è stata colpa tua. L’avrebbero trovato comunque».

    «Lo uccideranno?»

    «No, Danielito. Lo stanno soltanto portando alla stazione di polizia per rispondere ad alcune domande. Tornerà presto a casa».

    Daniel sapeva che sua madre stava mentendo. «Ha commesso qualche crimine?»

    Lei scosse la testa e rispose con voce ferma. «No. Non è stato lui a commettere dei crimini».

    Daniel udì un piagnucolio proveniente dalla camera della sua sorellina di sette anni. Sua madre vi entrò e ne uscì stringendo la mano della bimba. Tina si succhiava il pollice dell’altra mano, con la quale teneva stretta al petto una bambola malconcia.

    Quando la mamma abbracciò forte Daniel e sua sorella, le lacrime salate le si erano già asciugate sulle guance. Aveva i capelli arruffati e un viso che pareva invecchiato all’improvviso.

    Daniel si sforzò al massimo di pensare. Se fosse riuscito a farlo con la necessaria intensità, forse sarebbe riuscito a cancellare quella giornata. Suo padre sarebbe tornato con loro come se niente fosse accaduto.

    Portati via questo giorno e fallo sparire, chiese a Dio con tono implorante. Suo padre gli aveva detto che Dio non esisteva, ma a lui non venne in mente nessun altro che potesse avere l’autorità necessaria per riprendersi un’intera giornata.

    Capitolo 2

    Il buco

    1980-1986

    Marcelo sapeva soltanto quel che gli avevano detto gli altri prigionieri. Un giorno, al terzo anno di una condanna di 19, si svegliò incapace di muoversi. Non riusciva neanche a parlare, e gli pareva di avere in bocca un enorme cotton fioc invece della lingua.

    La versione dei compañeros era troppo vaga, incompleta. Le guardie l’avevano portato giù dal comandante una domenica mattina. I compañeros ricordavano che era domenica, perché i medici, quelli che tenevano in vita i prigionieri affinché potessero subire altre torture, erano andati in chiesa. Il giorno successivo era stato trascinato di nuovo in cella, nudo e incosciente, coperto di sporcizia, col sangue che gli usciva dal naso e dall’orecchio destro.

    Diverse ore dopo aveva avuto una crisi, e le guardie l’avevano riportato via.

    ***

    Si risvegliò in un letto, sotto lenzuola bianche in una stanza dello stesso colore. In piedi sopra di sé vide un uomo in uniforme che imbracciava una mitragliatrice.

    Dove mi trovo? Una domanda che, pur essendo perfettamente formata nella sua mente, gli venne fuori come un lungo, indistinto guaito.

    «Tu sta’ zitto» ringhiò l’uomo armato.

    E tu chi sei?

    «Jué,[2] ha aperto gli occhi». L’uomo sparì dal suo campo visivo. Dopo qualche istante, Marcelo sentì dei numeri formarsi su un telefono. Poi, un commento: «Capo, lei non ci crederà, ma penso che stia riprendendo i sensi».

    Una pausa.

    «Già, pensavo che avessimo per le mani un vegetale».

    Un’altra pausa.

    «Allora, cosa vuole che faccia?»

    Ci fu un click, lo scatto di un accendino. «E se fa delle domande?»

    ***

    «Tu, stupido huevón,[3] sei caduto dalle scale. Sì, è andata proprio così. Volevi ucciderti?»

    «Va’ a farti fottere» borbottò Marcelo.

    «Mi sa che tu, Aguilar, usi dei paroloni, ma in fondo sei un vigliacco come tutti gli altri».

    Una luce gli risplendette calda sul viso. Gli si annebbiò la vista, e intorno all’occhio sinistro percepì soltanto il buio.

    «Ora dicci chi ha tirato fuori quelle lettere».

    «Non me lo ricordo».

    Sentì un colpo sul viso, ma sulla parte sinistra, quella già intorpidita. Come reazione ritardata alla botta, però, cominciò a dolergli la parte destra della mascella.

    «Dicci cosa ricordi».

    ***

    Il suo taxi verde non trasportava soltanto passeggeri. Portava la verità su delle strisce di carta che lui prima imparava a memoria e poi ingoiava. Dei volantini, soffiati dal vento nelle poblaciones,[4] raccontavano le storie delle vittime e facevano i nomi dei loro assassini e torturatori. Si diffusero delle voci sul tassista, ex giornalista, che scriveva i volantini e li faceva cadere dove il vento poteva portarli nei posti giusti.

    In prigione, Marcelo aveva un sistema per vedere attraverso le bende. E l’ultimo nome che ricordava, prima che tutto sparisse, era quello del comandante Alberto Estrada.

    ***

    «Fino a che punto possono arrivare in basso questi fascisti? Torturare uno storpio» disse il compañero di nome Jaime.

    Il dolore faceva contorcere il corpo di Marcelo. Stavolta era sicuro che gli avessero spaccato un paio di costole. Gli veniva quasi da svenire a ogni respiro.

    Jaime, che fuori di lì aveva studiato medicina, cominciò a massaggiare la gamba sinistra paralizzata di Marcelo. Ma poi gli si bloccarono anche i muscoli della schiena, facendolo urlare.

    «Maledizione, sei peggio delle guardie!» Marcelo riusciva a parlare, ormai, ma biascicava le parole come se si fosse ubriacato.

    «Devo farti questo, se vuoi tornare a camminare. In quell’ospedale non ti hanno curato per niente, ti hanno semplicemente ributtato qui».

    «Non puoi aspettare fino a domani?»

    «Domani avrai gli stessi dolori di oggi».

    ***

    Col tempo i compañeros lo rimisero in sesto. Se non fosse stato per loro che gli muovevano le gambe paralizzate e gli insegnavano di nuovo a parlare, avrebbe pure potuto gettarsi dalle scale come le guardie sostenevano avesse già fatto. Quando ricominciò finalmente a camminare, ruotava verso l’esterno la gamba sinistra, trascinando il piede, e spesso doveva appoggiarsi alle pareti, alle sbarre della cella o al mobilio per sostenersi. Il braccio rimaneva debole e impacciato. Se non si addormentava tenendo qualcosa nella mano sinistra, si risvegliava con le dita contratte a scavargli nel palmo. Ma dal giorno in cui riprese conoscenza in avanti, la sua memoria rimase intatta, e s’impegnò a non dimenticare mai quelli che l’avevano salvato.

    ***

    Gli inquisitori volevano sapere del comandante Estrada. Il buco nella memoria di Marcelo gli costò delle costole incrinate, un paio di denti rotti, una mezza dozzina di incontri con il telaio del letto elettrificato, delle bruciature di sigarette e la reclusione in una cella d’isolamento. Quest’ultima era la cosa peggiore.

    Dopo averlo picchiato, lo scaricarono in una scatola lunga un metro e mezzo e larga meno di un metro, di modo che non potesse sdraiarsi. Non c’era nessuno che potesse aiutarlo ad allungare il suo lato paralizzato, che si contraeva in spasmi tormentosi. La cella d’isolamento non aveva finestre; era come vivere in una notte senza fine. Si accorgeva del passare del tempo dalla lunghezza della barba e dei capelli arruffati e sudici.

    Tre uomini facevano dei turni di guardia davanti alle celle. Lui non riusciva a vederli, ma le loro voci erano distinte. Le guardie scommettevano su chi sarebbe stato il primo a morire tra i prigionieri in isolamento. Uno aveva puntato su Marcelo, e ogni volta che questi tentava di dormire un po’, la guardia lo svegliava per chiedergli: «Non sei ancora morto, Aguilar?»

    «No».

    «Allora perché non ti sbrighi a morire? Presto arriverà il compleanno di mia figlia, e io voglio incassare i miei pesos per comprarle una camicetta nuova».

    Un’altra guardia lo avvisava dell’interrogatorio successivo. Gli evitava lo shock, ma lui trascorreva il tempo che mancava a tremare e sudare, rivivendo l’ultima dura prova.

    «Perché non dici al comandante Gonzales quel che ti chiede? Così potrai uscire».

    «Anche se potessi, non lo farei».

    «Si sta arrabbiando davvero, ti dico. Se non confessi stavolta, ti spaccherà contro il muro l’altro lato della testa».

    Marcelo si passò la mano buona sul lato della testa, dove una volta i capelli erano stati rasati, ma ora erano lunghi e aggrovigliati come il resto della sua chioma. Sentì la parte del cranio che era stata fracassata e si rese conto che la guardia gli stava dicendo la verità. Da quando faceva il giornalista, sapeva che quella lesione non poteva essere stata provocata da una caduta dalle scale, che invece avrebbe lasciato segni di molteplici impatti.

    Più di un anno di confusione gli si chiarì. Il suo stomaco bruciò di rabbia. «Lo hai visto mentre lo faceva?»

    «No, l’ho sentito dire. E ho sentito che è pronto a rifarlo».

    «Allora non potrò più confessare, perché non sarò più in grado di parlare».

    «Sai, il comandante Estrada era mio amico. Una volta l’anno invitava noi guardie a casa sua per un picnic. Quando mia moglie si ammalò e io ricevetti il conto dell’ospedale, lui pagò le tasse scolastiche per i miei figli. Vi è mai venuto in mente, a voi bastardi comunisti, che aveva una moglie, tre figli e un altro in arrivo?»

    «Ti è mai venuto in mente che anche le migliaia di persone che hai assassinato avevano madri, figli o bambini che hanno pianto per loro?»

    «Spero che il comandante Gonzales ti uccida, così non dovrò più ascoltare le tue cavolate».

    Era la seconda volta che la guardia menzionava il cognome di questo comandante. Marcelo insistette, come se fosse programmato per non mollare. «Carlos Gonzales?» Non sapeva perché, ma gli era venuto in mente il nome Carlos.

    «Miguel Gonzales».

    «E perché mi stai dicendo il suo nome se pensi che io abbia avuto qualcosa a che fare con quel che è accaduto al comandante Estrada?»

    «Perché non credo che uscirai di qui vivo».

    ***

    «Uno degli altri prigionieri ha già confessato che sei stato tu a ordinare l’uccisione del comandante Estrada. Se ti dichiarerai colpevole, la tua sofferenza finirà».

    Per un istante, Marcelo pensò a chi avrebbe potuto tradirlo. Ma quella era la loro tattica, sostenere che un compañero avesse tradito una persona per seminare discordia tra i prigionieri. E spesso le persone crollavano sotto tortura o sotto l’influsso del siero della verità.

    «La mia sofferenza finirà perché mi giustizierete per un crimine che non ho commesso».

    «Sì, è un delitto capitale. Ma puoi scegliere di morire con dolore o senza».

    Marcelo ripeté silenziosamente il nome del comandante, così da non dimenticarlo nemmeno se quel figlio di puttana gli avesse fracassato l’altro lato della testa.

    «Morirò da uomo».

    ***

    Quel giorno non lo torturarono a morte. E la volta successiva che la guardia venne a prenderlo, fu per toglierlo dalla cella d’isolamento. Quando tornò alla cella che condivideva con i compañeros, trovò un fascio di lettere ad aspettarlo. Due anni di lettere da Victoria, che dopo il suo arresto aveva portato i bambini negli Stati Uniti. Ironia della sorte, pensò, che finissero proprio là, a casa della CIA che aveva instaurato la dittatura. Sul francobollo c’era scritto Madison, Wisconsin. Lei gli scriveva dei bambini, dei suoi studi di sociologia, e dei loro incontri con delle persone che potevano farlo rilasciare. Il comandante Gonzales gli fece avere carta, penne e istruzioni perché potesse rispondere a sua moglie: «Scrivile che sei in buona salute e

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