Villaggio Vacanze
By Franco Mimmi
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Villaggio Vacanze - Franco Mimmi
Franco Mimmi
VILLAGGIO VACANZE
A mia madre e a mia sorella
A Marco e Alessandro
Mio padre, che non aveva capito niente, si lasciò tentare dalla signorina dell’agenzia di viaggio e si presentò vestito di lino bianco all’ingresso del Villaggio Vacanze.
«Non mi colpì tanto il fatto che mi accogliessero con un ciao,» ci raccontò poi. «Abbiamo visto il Sessantotto, non è vero? Ma la cena, la sera.»
Seduto alla tavola alla quale era stato assegnato, si era guardato attorno e ai sette occasionali compagni aveva detto candidamente: «Sembra un dopolavoro ferroviario jugoslavo.» Sei di loro avevano chinato gli occhi sul piatto, ma il settimo era un osso duro. «E se io mi offendessi?» aveva chiesto. «Santo cielo, e perché?» si era stupito mio padre. «Perché sono un ferroviere jugoslavo,» aveva detto quello, non indegnamente. Mio padre allora aveva scosso la testa. «Avete dei pessimi dopolavoro.»
Fu al ritorno da quella esperienza che maturò una decisione letale per le sostanze della famiglia. Ogni giorno si rivolgeva all’azzurra negligenza degli occhi di mia madre e ripercorreva tratti del proprio stupore al Villaggio Vacanze.
«C’era un ragazzo,» ricordava, «che a mezzogiorno, cercava di convincermi a tuffarmi nella piscina per recuperare dal fondo un cucchiaino in cambio di un aperitivo rosso e dolciastro.»
Mia madre taceva.
«Oppure,» continuava mio padre, «veniva una ragazza e pretendeva di farmi tirare con l’arco a un bersaglio lontano dieci metri.»
«C’è riuscita?» chiedeva mia madre, ma lui era già altrove, inseguendo un possibile rimedio. Si capiva benissimo che tutto quel raccontare di tuffi al cucchiaino e tiro al bersaglio (mio padre era stato un campione dalla piattaforma e era andato a caccia con l’arco nella foresta di Sherwood) era in realtà la ricerca dell’antitesi: di un piccolo sogno da realizzare e da sostituire a quella settimana di incredibile realtà.
Finché un giorno, guardando fisso negli occhi indifferenti di mia madre, espose un progetto capace di operare la selezione che gli avrebbe finalmente garantito incontri meno approssimativi. «Ci rovinerai,» disse tranquillamente mia madre. Già tutto immerso nella sua impresa, mio padre fece distrattamente segno di sì e qualche mese dopo inaugurò il Bovindo del Beau, ricordo del luogo preferito di Brummel al White’s.
Era una piccola oasi di cuoio e libri dove io fui ammesso perché mio padre voleva qualcuno della famiglia cui esprimere il suo pensiero. D’altra parte, anche ogni altra ammissione richiedeva solo e unicamente il benestare del socio fondatore, così dopo solo tre mesi il cameriere inglese fu licenziato e il club dovette chiudere: mio padre aveva blackballed tutti gli aspiranti e perduto la speranza di trovarne coi requisiti da lui richiesti. «Ma come si poteva essere ammessi?» si lamentò mio zio (suo fratello aveva respinto anche lui) con mia madre, che lo ignorava ostentatamente. «Non c’era neppure un regolamento,» continuò, «o una semplice lista con i punti uno due tre. Niente di niente: solo presentare una domanda e poi se stessi. E lui ti guardava e diceva no.»
«Eppure,» disse mia madre, «le domande non mancavano.»
«E vero,» ammise mio zio, «solo dio sa perché. Hanno continuato ad arrivarne anche dopo che era stato chiuso, qualche volta di gente che era già stata bocciata.»
«E lui le riesaminava?» Questa volta mia madre non riuscì a nascondere la curiosità.
«Ma sì!» esclamò mio zio. «Perché mai lo facesse, non riuscivo a capirlo. E sai che cosa mi ha risposto, quando gliel’ho chiesto?»
«Che cosa?» chiese lei ostentando uno sbadiglio.
«Che gli riusciva impossibile credere che quella gente si sopportasse così com’era, e sperava che dopo la prima bocciatura fossero cambiati. Non si capacitava che non lo fossero.»
«Nomi grossi?» chiese mia madre.
Lo zio fece un gesto con la mano che voleva dire i più grossi.
«E tu?» chiese mia madre, tornata ormai indifferente.
Mio zio scosse le spalle. «Io?» disse. «Io non ci avevo mai sperato.»
Col passare dei giorni si capì che mio padre, più che dalla perdita economica della sua impresa riparatrice, continuava a essere colpito dall’esperienza che l’aveva scatenata. «Si potrebbe dire,» disse un giorno a mia madre che sorbiva il caffè a occhi chiusi, comodamente appoggiata ai cuscini di seta di una poltroncina di vimini nera, «si potrebbe dire,» disse mio padre, «che è una specie di scuola di sopravvivenza.»
L’immagine lo esaltò, tanto che appoggiò la tazzina con un rumore secco che fece aprire gli occhi a mia madre. Si alzò e andò alla finestra a guardare la gente là fuori. La sua voce giungeva sommessa ma eccitata al tempo stesso. «Masse in lotta per le fette biscottate la mattina, per il pesce alla griglia a mezzogiorno, per il formaggio la sera. Colonne di persone dai tavoli del self-service alle griglie degli hamburger, dalle teglie delle tagliatelle ai vassoi dei cannoli. Un allenamento per il fall-out.»
Si voltò e mi guardò, un’occhiata critica. «Dovremmo mandarci anche Beniamino.»
«Certo,» disse mia madre. Ma aveva già richiuso gli occhi.
«Avremmo dovuto mandarcelo subito, tanti anni fa.»
«Certo,» disse mia madre, «a tre anni.»
Mio padre fece con la mano destra il suo gesto da gran signore. «C’è il baby club,» disse.
Mio zio si offrì. Disse che sarebbe andato e scommise che sarebbe resistito due settimane, una più di mio padre, ma mio padre non abboccò. Anzi, nemmeno vide l’esca. «Questo non proverebbe niente,» disse. «O almeno, niente a tuo favore.»
Ma la vicenda non sembrava volersi concludere, tanto che io, non essendo capace di opporre la resistenza passiva di mia madre, per sfuggire alle descrizioni di quel luglio ormai lontano ampliai il giro delle mie commissioni. La mattina uscivo prestissimo con la borsa ben stretta sotto il braccio destro, piegavo la testa con l’orecchio che quasi toccava la spalla e partivo tra la folla gridando: «Permesso, permesso!» Avrei anche voluto non tornare a casa per pranzo, ma mia madre fu inflessibile. «Questo,» disse, «è un onere che tutti i membri della famiglia si devono assumere,» e si capiva che non parlava del cibo. «La famiglia,» aggiunse con toni kennediani, «si aspetta che ogni uomo faccia la sua parte.» In quel momento appariva eroica e bellissima.
Così tornavo. Per fortuna erano frequenti le visite di mia zia, sorella di mia madre, e anche lei doveva fare la sua parte: fu per questo che mio padre, con grande beneficio di tutti, accorciò la sua permanenza di sobremesa e diradò i suoi stupori («Non tanto per quei ragazzi che mi davano del tu - si è già visto una ventina d’anni fa, non è vero? - ma per tutta la gente che una ventina d’anni fa non voleva saperne e ora ne sembra deliziata»). Il fatto è che mio padre soffriva un po’ la vista di mia zia perché una volta, anni prima, se ne era innamorato. Naturalmente lo aveva subito annunciato alla mamma, e lei si era limitata a rispondergli: «È una piccola borghese, ti farà soffrire,» poi aveva chiuso gli occhi e acceso una sigaretta.
Quella volta io non ero presente, ma lo zio sì, lui sosteneva per caso, semiaddormentato in una poltrona. «Certo, per caso. Tanto è vero,» mi aveva raccontato, «che non sentii l’inizio.» Ma io, conoscendolo, pensavo che in realtà quell’inizio volesse tenerselo non per sé ma per il momento migliore, quando avrebbe potuto spararlo addosso a suo fratello e vederlo trasalire. Credo che avesse tutta una riserva di proiettili, raccolti con pazienza e ferocia nel corso degli anni, e sempre aspettava il momento per spararli a effetto sicuro. O forse qualche volta, almeno una volta, aveva tentato senza successo e così ora continuava la sua raccolta e aspettava, forse pensando a una raffica, forse sognando di vedere suo fratello non solo trasalire ma anche barcollare o addirittura cadere. «Anche se,» diceva di lui la mamma quando lo vedeva nascondersi in una poltrona, «si accontenterebbe di essere notato.»
«Ma tu gli dicesti proprio così?» chiesi io.
«Così come?» chiese la mamma mettendo tra le labbra l’estremità perlata di una bella sigaretta lunga.
«Della zia,» dissi.
La mamma scosse la testa. «Ah, tuo zio,» sospirò.
«Ma dicesti così?» insistetti.
La mamma scosse la testa. «Ah, tuo padre,» disse con infinita pazienza.
Avevo fatto tardi e mi alzai di corsa, presi la borsa e piegai la testa. «Permesso, permesso! » gridavo aprendomi il varco tra la gente.
Io sono nato con la sindrome di Down, più nota come mongolismo, ma con caratteristiche la cui ironia non sfuggirebbe al meno intelligente dei semiologi. La prima consiste nel fatto che, nel mio caso, la sindrome ha colpito nel modo più benevolo (la mia mente è praticamente intatta, e anzi oserei dire piuttosto buona) ma anche nel modo più evidente: il mio viso e il mio corpo hanno tratti così marcati di mongolismo che tutta la mia intelligenza non è mai bastata a farmi superare la vergogna. So che questo è sbagliato ma è così, e fin da bambino aspetto con impazienza di invecchiare perché gli anni portano a qualsiasi faccia una certa bellezza che nulla ha a che fare col bello, e che perciò non potrà essermi negata. Nell’attesa, che si prospetta lunga (ho appena compiuto vent’anni), ho studiato molte mimetizzazioni senza trovarne di veramente risolutive, neppure il naso di cuoio che adottai dopo aver visto alla televisione il film con Jean Marais.
Ma in questa ricerca ho scoperto che anche la mia faccia, come le facce normali, ha un lato migliore (o meno peggiore), e quindi ho elaborato il seguente stratagemma: con la mia borsa sottobraccio, inclino fortemente il capo verso la spalla destra così da offrire alla gente solo la vista del mio lato migliore, e corro tra la folla chiedendo «Permesso, permesso!» a voce alta. Prese di sorpresa, le persone hanno appena il tempo di scansarsi e di lanciarmi un’occhiata veloce, che il lato sinistro della mia faccia dovrebbe in qualche misura attutire.
Questo modo di procedere mi era ormai divenuto così consueto, così automatico, che strada facendo avevo il tempo di pensare, e mi chiedevo quale fosse stata la frase d’inizio di quella storia di famiglia grazie alla quale lo zio sperava d’infliggere finalmente a suo fratello un colpo basso. Perché ormai lo zio, certo di essere ancora una volta sconfitto dalla serena indifferenza che la statura alta e slanciata di mio padre riservava a quel parente basso e diverso, non cercava neppure più di combattere lealmente.
Per esempio, una volta lo zio stava spiegando a suo fratello - acquistando via via sicurezza e aguzzando il suo lungo labbro superiore - perché non potesse distogliere dalla sua florida azienda (di mio zio, ma anche di mio nonno) l’ingente somma che mio padre voleva impiegare nell’acquisto dei quadri di un giovane francese pittore di nudi raffinatissimi. Lo zio era al culmine del conteggio e la sua sicurezza era quasi divenuta sicumera quando mio padre, dopo averlo fissato per un istante, disse: «Peter Ustinov è l’unica persona intelligente che io conosca col labbro superiore a punta e più lungo di quello inferiore.» Lo zio si spense.
Ma la zia, da come io la ricordavo, a parte qualche isteria molto accesa non era stata mai: che cosa, in lei, poteva avere infiammato mio padre? Mentre fendevo la calca («Permesso, permesso!») mi colse un’illuminazione: forse era stata proprio quella piccola borghesità che, guarda caso, di nuovo lo aveva travolto, sia pure sotto altra forma, quando era finito nell’inferno del Villaggio Vacanze.
E almeno questa seconda folgorazione era tanto vera, e ancora tanto viva, che mio padre, nonostante la presenza della sua ex innamorata (era questo un fatto ricorrente: di solito, in verità, la zia cacciava di casa il marito, che poi nella notte, in cerca di aiuto, ci telefonava dall’ufficio; ma talvolta il nulla in cui viveva stancava persino lei, e con scarso piacere di tutti noi veniva a raccogliere nuovi motivi di idiosincrasia per ritemprarsi alla sua rancorosa esistenza), mio padre riprese a allungare i tempi del caffè per parlarne, mentre mia madre chiudeva gli occhi, la zia scioglieva in bocca pilloline e fiale omeopatiche e lo zio si collocava in poltrona a stenografare nel dossier della vendetta ogni parola di plausibile utilizzazione, ogni frase passibile di ritorsione. Solo il nonno si alzava e se ne andava, perché più nulla della famiglia lo stupiva e invece proprio di stupore, o almeno di sorprese, era sempre a caccia. «Però,» assicurava mia madre in uno dei suoi sorrisi azzurri, «non c’è uomo al mondo che possa stupirlo. Solo qualche donna, di tanto in tanto.»
«E poi,» diceva mio padre, «la gente. Io credevo di conoscerla, che la conoscessimo, ma vi dico che non è così: voi non potete sapere, non potete credere che cosa sia la gente, se non andate al Villaggio Vacanze.»
«Io vengo dalla gente,» diceva la mamma per fermarlo, ma nessuno raccoglieva l’intervento e mio padre meno di tutti, perché l’idea che la mamma venisse dalla gente era assai meno credibile dell’ipotesi più accreditata, che venisse dalla luna.
«È colpa mia,» ammetteva mio padre. «Io avevo dimenticato (e qui lanciava alla zia uno sguardo colpevole: perché sulla zia nessuno della famiglia aveva dubbi: lei veniva dalla gente, ne era anzi l’esatta rappresentazione in tutto ciò che la gente offre di peggio: il rifiuto di una propria responsabilità per le cose del mondo, di una qualche necessità di coerenza tra il comportamento e le idee professate. L’avete capito, io la odiavo, e era perché mia madre la odiava perché mio padre l’aveva amata (mia zia) senza che lei (mia zia) meritasse quell’amore, sicché anche l’amore di mia madre per mio padre e viceversa ne era uscito sminuito e questo era ciò che mia madre e io non potevamo perdonarle), avevo dimenticato la gente,» diceva mio padre.
Si alzava, andava alla porta a vetri che si incominciava a tenere aperta sulla primavera (queste immagini rinfrancano la mia attesa di vecchiaia) e volgendoci le spalle, a voce alta per non poter fingere di non essersi sentito, diceva: «Dove sono stato, in questi anni? Come ho fatto a dimenticare tutto ciò?»
Mio nonno a quel punto era già sparito e mio zio era nascosto dallo schienale della poltrona, e la zia fumava nervosamente perché aveva ripreso da poco dopo aver smesso da poco, ma a me non poteva sfuggire un luccicore sospetto tra le ciglia socchiuse di mia madre, all’angolo degli occhi, vicino alla radice del suo naso sottile con una leggera gobba arrogante.
Scesa dalla luna, mia madre aveva fatto la poetessa (pubblicata cum laude) e l’indossatrice insieme (top model, per intenderci oggi) e poi aveva