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Apparition
Apparition
Apparition
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Apparition

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About this ebook

Elizabeth è appena tornata a Londra dopo alcuni anni e finalmente può dedicarsi alla scuola, agli amici e vivere come una qualsiasi ragazza della sua età. Eppure, nonostante riesca finalmente a inserirsi, non l'abbandona mai uno strano senso di solitudine, inadeguatezza che la spinge a chiudersi in se stessa, a sentirsi diversa e divisa dal resto del mondo, un vero e proprio disastro. Questo fino a quando non si accorgerà che qualcosa, o forse qualcuno, veglia su di lei in silenzio a ogni ora del giorno, senza mai abbandonarla, pronto ad asciugare ogni sua lacrima. E quel qualcuno, ormai, non riesce più a resisterle.
LanguageItaliano
Release dateJan 8, 2015
ISBN9786050347678
Apparition

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    Book preview

    Apparition - Anna Angelica Godoli

    Farm

    Prologo

    «Lo spreco della vita si ha nell’amore che non si è saputo dare, nel potere che non si è potuto utilizzare. Nell'egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità. » 

    Oscar Wilde

    Ed è come tornare a casa dopo tanto tempo, quando non sai dove mettere le mani, dove andare a ricercare qualcosa di familiare, che ti faccia sentire a casa. Hai solo voglia di lanciarti sul letto, scrutare attentamente il soffitto e avere la certezza di non dover più partire. Non so bene se sia questo ciò che Londra ti trasmette, dopo un paio d’anni… O se è il cielo grigio, quell’aria umida, i nuvoloni e quella strana malinconia che si prova a stare piantati in mezzo alla strada, ad aspettare che qualcuno ti rivolga la parola. Ma forse è meglio così, quando nessuno ti conosce, si ricorda di te, di quando sei caduta dritta sulla torta per il tuo ottavo compleanno. Quando hai un punto da cui ripartire, un nuovo inizio, una nuova pagina di diario. Quando ti ripeti che la tua vita cambierà come sconvolta da una raffica di vento, ma alla fine temi che rimanga inalterata. Perché, in fondo, l’idea di dover rimanere ancora sola in casa, a leggere libri, con la schiena appoggiata contro il letto e la pioggia che si abbatte violenta sulle finestre ti terrorizza. Con quelle pareti sempre bianche, immacolate, come un foglio da riempire, come la matita bianca costantemente abbandonata nell’astuccio perché inutile. Come una spia luminosa che si manifesta, incessante, con il solo scopo di ricordati che c’è un vuoto da colmare.

    Non chiedevo molto, solo qualcuno, qualcuno con cui parlare, qualcuno che capisse, con cui trascorrere le giornate al parco o chiusi in casa, davanti alla televisione, sotto il letto, a dichiarare guerra al mondo intero, a mangiare biscotti al cioccolato. Eppure, quando qualcuno è strano come me, si ritrova in mezzo alla strada, con l’impermeabile scuro, la valigia, abbandonata da tutti, con il vento che ti annoda i capelli, a pregare che qualcuno ti piombi davanti e ti salvi da tutto. Ma dopotutto non era scientificamente possibile che qualcuno fosse disposto ad ascoltare ogni mio singolo brontolio, parlare di libri per ore e ore o sedersi accanto a me, vicino al letto a scrutarmi attentamente, provando a capirci qualcosa. Avevo bisogno di qualcuno che si scagliasse contro tutti i muri che avevo alzato, a costo di farsi male. Qualcuno che ogni tanto facesse qualche strana promessa a una ragazzina dai capelli biondi e in disordine, aggrovigliati come i suoi pensieri, dagli occhi color del mare e che ricercasse costellazioni tra le lentiggini che le punteggiavano il volto, come schizzi di tempera.

    Bastava solo la voce squillante di mia madre a risvegliarmi dai miei pensieri, come sempre, come il campanello della bicicletta che sembra urlarti contro Spostati o t’investo mentre hai gli auricolari nelle orecchie. Quella donna forte, sempre elegante, che avanzava verso casa… La nuova casa. Sempre con quell’aria sicura di sé, padrona del mondo, mentre io la seguivo senza protestare, ignorando la sua euforia, i discorsi sul terrazzo, sul giardino...

    «Dov’è finito tutto il tuo entusiasmo?» chiese lei, portandosi le mani sui fianchi e scrutandomi con aria di rimprovero.

    Alzai gli occhi al cancello di ferro e poi alla nuova casa, al terrazzo, al giardino, a quel colore ocra malinconico e mi lasciai sfuggire un sospiro. 

    «Vedrai che ti farai dei nuovi amici, laggiù…»

    Annuii poco convinta, mentre mia madre si avviava trascinandosi dietro la valigia. Ma dopotutto cosa potevano saperne i genitori di come si sentiva una sedicenne completamente sola, in una città immensa come Londra. Per loro è troppo semplice, come se fossimo tutti destinati a rimanere soli. Magari sposati, in piazze che brulicano costantemente di gente, ma soli, terribilmente e costantemente soli. Soprattutto per mia madre, troppo impegnata ad aprire cassetti su cassetti, senza darmi nemmeno il tempo di fare mente locale su ciò che avevo appena visto, scoprendo tutti i mobili antichi, lanciando i veli a terra come tanti fantasmi che s’infrangevano al suolo e scomparivano, come se stesse scartando dei regali. Lei era così, con la sua passione per l’antico, con quella convinzione ben radicata che si potesse risolvere tutto. E poi c’era mio padre, quello schivo, disordinato, ma sempre di buon umore, mentre scendeva le scale e si lasciava rimproverare da mia madre per non averla aiutata a portare le valige. Quei due erano completamente l’opposto, lui disordinato, lei ordinata. Lui che conservava tutto, come me, lei che ogni anno doveva buttare qualcosa, facendomi sempre sparire frammenti di ricordi dalla camera da letto… Per questo avevo imparato a nascondere bene i sopravvissuti.

    Mia madre sbucò dalla cucina raccogliendo i capelli castani in uno chignon, cosa che faceva ogni giorno, lasciandoci scivolare le forcine. L’avevo vista farlo così tante volte, ma ancora non avevo imparato, i miei capelli non si lasciavano domare tanto facilmente.

    «Allora, che ne pensi? Non è meravigliosa?» chiese lei, porgendomi lo scatolone.

    «Perché non vai a vedere la tua camera? Sali le scale, a sinistra, in fondo al corridoio, vicino al bagno» continuò, accennandomi un sorriso rincuorante. 

    Strinsi lo scatolone e iniziai a salire le scale, inciampando immediatamente, guardandomi intorno alla ricerca della mia camera che scoprii essere abbastanza spaziosa, con una bella finestra sul giardino. Scrutai attentamente il letto, addossato al muro, con degli strani veli alle estremità che lo facevano sembrare tanto un baldacchino, un armadio, la scrivania ancora da mettere in disordine e le due librerie da riempire, le pareti immacolate da punteggiare di fotografie e ritagli di giornale. Aprii lo scatolone e mi misi all’opera, sistemando i libri in ordine alfabetico, le fotografie di quando ero bambina e le citazioni tra cui Carpe diem e Odi et amo che avevo realizzato trasformando pagine di riviste in lettere dell’alfabeto. Era la prima volta che camera mia risultava così graziosa e quasi colorata, uno specchio di ciò che ero… Mi guardavo intorno, soddisfatta, senza quasi accorgermi di mia madre che entrava per portarmi la divisa della scuola, ritrovata da poco. Sistemare una stanza è un gran lavoro e porta via fin troppo tempo, soprattutto se non sei mai sicuro di ciò che hai appena realizzato… Sistemate le cose più importanti, mi abbandonai sul letto, esausta, dopo aver preso l’Mp3, pronta a viziare i miei timpani con le mie canzoni preferite che trattavano di mondi sconosciuti e angeli custodi. Canticchiai il testo, sperando che anche per me ci fosse un qualche angelo… Non esclusivamente con delle ali, un’aureola, una tunica… Solo qualcuno che mi sorvegliasse. Un giorno mi tatuerò due grandi ali d’angelo sulla schiena e volerò via, pensai mentre le parole della canzone mi rimbombavano in testa.

    Era meraviglioso restare così, in bilico, con il cervello in stand-by, senza pensare a nulla, alla nuova scuola, alle lezioni, ai compiti. La musica mi trasmetteva forza, mi rendeva libera, in grado di scrivere ciò che volevo, anche se si trattava esclusivamente di pagine di diario. C’erano quelle canzoni che ti riportavano alla mente ricordi, che rischiavano di farti scoppiare in lacrime o che ti salvavano dalle tue paure.

    Improvvisamente avvertii qualcosa avvicinarsi e sorrisi, credendo che i miei genitori fossero venuti a tendermi un agguato. Impossibile, però, che riuscissi a sentire dei passi vista la musica a tutto volume… Eppure percepivo ogni singolo e lieve movimento. Sesto senso femminile? Mi tirai su di scatto aprendo gli occhi alla ricerca di una figura che, in realtà, non c’era. Scrutai attentamente la porta e sospirai. Quando ero piccola un bambino, per terrorizzarmi, mi aveva confidato che nelle case i divani o i letti non danno quasi mai le spalle alla porta: chi vi abitava avrebbe rischiato di impazzire credendo che qualcosa o qualcuno fosse sempre pronto a coglierlo di sorpresa. Allontanai le cuffie, ma probabilmente avevo immaginato tutto. Sentii qualcos’altro, però, qualcosa di ancora più strano mentre mi lasciai cadere a peso morto sul materasso. Qualcosa di caldo che mi sfiorava la guancia, come un raggio di sole, e che s’intrufolava sempre più in profondità, come se stesse penetrando perfino nelle ossa; rabbrividii, scostandomi, nonostante la sensazione fosse quasi piacevole, ipnotica, come una carezza effimera e delicata. O meglio allontanai quel qualcosa allungando la mano, come se un peso stesse gravando su di me… Il peso di qualcuno. Una spinta data all’aria. Detto così sembrava ancora più stupido, ma quel qualcosa sparì ancora prima di essere scostato. Tutto sembrò scivolare verso il basso per poi nascondersi sotto il letto, penetrare nel legno, impregnato di quel calore pericoloso, e tornarsene sotto terra.

    Rabbrividii involontariamente e scrollai le spalle ritrovandomi a cercare sotto il letto un mostro inesistente, come una bambina prima di andarsene a dormire. E, fortunatamente, quel qualcosa se n’era rimasto sotto terra o magari nell’armadio che non avevo il coraggio di aprire. Adoravo il sovrannaturale… Angeli, spiriti e tutto il resto, ma mancavano solo i biglietti con su scritto Questa casa è infestata, andatevene a rendere ancora più disastrosa la mia vita.

    Mia madre commentò l’avvenimento ricorrendo a strani discorsi su spiriti e fantasmi, per intimidirmi- era un asso con le storie dell’orrore- mentre mio padre restava con gli occhi scuri fissi sulle sue carte senza proferir parola, come sempre dopotutto.

    Capitolo primo

    Ero rimasta sveglia per tutta la notte, rannicchiata tra le mie coperte, a scrutare il soffitto, le ombre, a fare possibili progetti su quello che sarebbe successo, su come mi sarei comportata e tutto il resto. Almeno non dovevo preoccuparmi di come vestirmi avendo l’uniforme, un peso in meno per i miei standard.

    Il mio primo giorno dell’A-level doveva essere speciale. Sarebbe accaduto qualcosa che mi avrebbe sconvolto la vita e tutto sarebbe cambiato, speravo. Avrei avuto così tanti amici da non sapere più con chi uscire. Anche se, in fondo, la mia vita non poteva cambiare così da un momento all’altro, come per caso. Lo stesso caso per cui, nei romanzi zuccherosi per quattordicenni, la ragazza inciampa o fa qualcosa di altrettanto stupido ritrovandosi magicamente tra le braccia del ragazzo dei propri sogni. Mi alzai di scatto dal letto, precedendo la sveglia, senza indugiare, contando entusiasta i minuti che mancavano all’inizio della scuola. Indossai la mia uniforme: gonna e giacca blu, con lo stemma del college, e una camicia bianca. Feci una piroetta proprio davanti allo specchio lasciando che la gonna si alzasse e abbassasse intorno alle mie ginocchia, come i cavalli di una giostra. Lasciai sciolti i capelli color grano, lunghi fino a metà schiena, che si gonfiavano e si arricciavano. Mi sentivo quasi protetta e abbracciata da quella massa di capelli che mi ricadeva sulle spalle. Inoltre erano ancora rimaste le sfumature più chiare lasciate dal sole estivo. Impossibile come bastassero pochi giorni a far diventare quel sole delle vacanze in Italia esclusivamente un ricordo, anche perché quello settembrino era semplicemente malinconico con l’unico scopo di farti pensare che quel caldo non era poi così insopportabile rispetto al gelo invernale.

    Scrollai il capo, alternando qualche smorfia di fronte allo specchio, per poi recuperare la cartella avviandomi fuori di casa, correndo come inseguita, sperando che in quel modo il tempo scorresse ancora più velocemente. Saltellai prima su un piede e poi su un altro aspettando di aprire il cancello, ma quello decise di precedermi, spalancandosi da solo, come sospinto da una folata di vento. Inizialmente pensai proprio a quello, ma non c’era più la brezza londinese del giorno precedente, ormai sostituita da uno strano sole che, in fondo, non riscaldava nemmeno un po’, come se fosse stato una semplice illusione. Guardai il cancello inarcando un sopracciglio, stupita, per poi lasciarmi sfuggire un Grazie e un inchino appena accennato e accompagnato da una risatina mal trattenuta. Un’anziana signora, probabilmente la vicina, mi guardò stupita e iniziai a ridere come una pazza, piegandomi appena. Se il cancello mi si apriva da solo, nessuno mi avrebbe più fermata oggi, un altro buon segno. Oggi il mondo intero si prostrava ai miei piedi, forse.

    Uscii e chiusi il cancello alle mie spalle osservando il citofono, i miei genitori avevano già fatto scrivere i nostri nomi: Eldred Winsor-Anne Harrison-Elizabeth Winsor.

    La scuola era davvero enorme, sembrava una piccola città. Il cancello aperto permetteva allo sguardo di percorrere l’immenso giardino dove brulicavano folle di studenti, alcuni seduti sull’erba, altri che accerchiavano la bancarella dei dolci o che giocavano nel cortile. Tutto intorno a quel meraviglioso parco si ergeva l’edificio su cui figurava una torre con un orologio. Era interessante e anche abbastanza antico, almeno così sembrava. Come avrei fatto a trovare la mia classe?

    Sospirai iniziando a camminare verso l’entrata, o almeno quella che sembrava tale, visto che riuscivo a scorgere porte ovunque. Osservavo tutti quei volti sconosciuti che mi circondavano senza ricordarne nemmeno uno, come se mi trovassi in un grande stadio e tutte quelle persone si confondessero. Qualcuno mi sorrise con il risultato di farmi accelerare il passo, arrossire e distogliere lo sguardo mentre borbottavo sottovoce.  

    Entrai immediatamente nell’edificio lasciando che quel forte odore di disinfettante mi aggredisse. Sembrava di essere in un ospedale e il pavimento risplendeva come uno specchio. Tutto era impeccabile, come se fossi stata la prima a mettere piede lì dentro… Mi faceva sentire stranamente a mio agio e mi rilassai, abbandonandomi a un sospiro. Spostai per caso lo sguardo sulla segreteria, dove una ragazza dai capelli castani mi dava le spalle, aspettando la segretaria, appunto. Se c’era una cosa che sembrava odiare, proprio come me, era aspettare; lo intuivo da come batteva nervosamente il piede sul pavimento, come se volesse rompere lo specchio che aveva proprio sotto di sé. Aspettare persone, eventi o ciò che sapevi non sarebbe mai arrivato era odioso. Mi avvicinai lentamente sperando che abbandonasse tutta quell’ansia e mi aiutasse. Appena le fui abbastanza vicina accennai un saluto, nascondendo un velo di timidezza, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, cosa che facevo sempre quando ero così tremendamente agitata, ma lei non sembrò rispondermi. Mi sporsi verso di lei, sospettando che non si fosse accorta di niente e ripetei. Si girò di scatto, facendomi sussultare, permettendomi di osservare finalmente il volto della prima persona che avevo scrutato per qualche minuto e che, speravo, non avrei dimenticato. Era davvero graziosa, i capelli castani le ricadevano sulle spalle mentre mi scrutava da capo a piedi con i suoi occhi color nocciola, così caldi e profondi da trasmettermi sicurezza. Sulla bocca le si era delineato un sorriso, nonostante a primo impatto mi avesse scoccato un’occhiata poco rassicurante.

    «Ciao!» rispose al mio terribile tentativo d’approccio, sorridendo senza un briciolo d’imbarazzo, con un tono di voce sorprendentemente euforico.

    «Scusa se disturbo, ma volevo sapere se potevi darmi una mano a trovare la mia classe. Sai com’è, questo college è immenso…» dissi velocemente, spostando lo sguardo sui piedi che avevo iniziato a piegare verso l’esterno, per concentrarmi su altro. Avrei voluto eclissarmi.

    «Letteratura inglese del primo anno…» precisai.

    «Che coincidenza, anche la mia! Piacere, Mary Wilkinson!» disse porgendomi la mano, mantenendo ancora quel bel sorriso, senza nascondere quei denti bianchi e perfetti, come perle. Gliela strinsi sorridendo, sembrava una brava ragazza, originale e grintosa, ma brava.

    «Piacere, Elizabeth Winsor…»

    «Bel nome! Nemmeno io so dove sia la classe comunque, stavo giusto aspettando la segretaria… Il mio senso dell’orientamento è come quello di mia nonna ogni tanto, pessimo. Mio padre non fa altro che ripetermelo.» 

    Mi colpiva il modo in cui parlava apertamente e accennava a quei suoi piccoli aneddoti. Mi guardai ancora intorno senza abbandonare del tutto l’imbarazzo, lasciando che fosse lei a trovare un argomento valido per intraprendere una qualche conversazione. Come primo passo era buono, avevo trovato qualcuno di simpatico di cui fidarmi in giro per il college, soprattutto se quel qualcuno aveva scelto in parte le mie stesse materie. Mary si lamentò più per il ritardo che per il mio continuo chiederle il nome, non perché l’avessi dimenticato, ma perché volevo essere certa di averlo ricordato bene. Mi lasciai sfuggire un sospiro annoiato, anche perché avrei preferito parlare con lei per ore, appena riuscimmo a raggiungere la nostra classe e ci sistemammo ai primi posti, l’una vicina all’altra, iniziando a presentarci ad alcuni degli studenti. Molti si conoscevano da molto tempo e altri avevano formato vari gruppi. C’erano quelli più timidi, quelli con dei libri in mano e le ragazze che si sistemavano il trucco di prima mattina. Noi eravamo rimaste escluse, ma dopotutto ci andava bene, c’era ancora tempo e diventare popolare, andare alle feste e bere non era ancora uno dei miei obiettivi principali… Nemmeno quello di essere esclusa, però. Magari ci saremmo inserite, col tempo… Tanto tempo.

    Subito alcuni dei professori si presentarono, entrando velocemente in classe con il risultato di far tornare gli studenti ai propri posti, come tanti topolini che tentavano di raggiungere la propria tana, e il signor Walker, professore di letteratura inglese, restò con noi. Tutti lo conoscevano, era uno dei professori più preparati e competenti del college nonostante tendesse a litigare con il preside. Litigi di coppia commentò Mary,

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