Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Gli Occhi dell'Assassino
Gli Occhi dell'Assassino
Gli Occhi dell'Assassino
Ebook625 pages8 hours

Gli Occhi dell'Assassino

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un’ombra ecco cos'era sempre stato Gabriel Pierce.
Un agente governativo ma anche un killer infallibile, assoldato per sistemare situazioni potenzialmente “critiche” per il governo.
L'ultimo incarico affidatogli lo farà vacillare, il muro di certezze che credeva incrollabile si sgretola come sabbia portandolo a scoprire un altro sé, non solo l'esecutore cinico e insensibile, ma un uomo nuovo con un cuore tutt’altro che freddo, capace di sentimenti che non avrebbe mai pensato di provare.
Questa aliena consapevolezza lo proietterà in una realtà a lui sconosciuta, che non riuscirà a gestire. Fuggire non sarà la soluzione e sarà costretto a tornare per proteggere il suo unico amore.
Alcune figure entreranno a fare parte della sua vita e aiuteranno Gabriel a scoprire meglio se stesso portandolo a conoscenza di un passato che mai avrebbe potuto immaginare.

Suspense, amore e colpi di scena sono le caratteristiche fondamentali di questa storia.
Sarà in grado Gabriel a far luce sulle sue numerose ombre e a riscattare la sua vita?
LanguageItaliano
PublisherS. L. Sibyl
Release dateJan 26, 2015
ISBN9786050351934
Gli Occhi dell'Assassino

Related to Gli Occhi dell'Assassino

Related ebooks

Romance For You

View More

Related articles

Reviews for Gli Occhi dell'Assassino

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Gli Occhi dell'Assassino - S. L. Sibyl

    2014

    Sinossi

    Un’ombra ecco cos'era sempre stato Gabriel Pierce.

    Un agente governativo ma anche un killer infallibile, assoldato per sistemare situazioni potenzialmente critiche per il governo.

    L'ultimo incarico affidatogli lo farà vacillare, il muro di certezze che credeva incrollabile si sgretola come sabbia portandolo a scoprire un altro sé, non solo l'esecutore cinico e insensibile, ma un uomo nuovo con un cuore tutt’altro che freddo, capace di sentimenti che non avrebbe mai pensato di provare.

    Questa aliena consapevolezza lo proietterà in una realtà a lui sconosciuta, che non riuscirà a gestire. Fuggire non sarà la soluzione e sarà costretto a tornare per proteggere il suo unico amore.

    Alcune figure entreranno a fare parte della sua vita e aiuteranno Gabriel a scoprire meglio se stesso portandolo a conoscenza di un passato che mai avrebbe potuto immaginare.

    Suspense, amore e colpi di scena sono le caratteristiche fondamentali di questa storia.

    Sarà in grado Gabriel a far luce sulle sue numerose ombre e a riscattare la sua vita?

    Prefazione

    Prima,

    il mondo era un luogo dove ero costretto a vivere,

    mio malgrado.

    Tutto era piatto e privo di vivo interesse.

    Adesso,

    bastava che il suo respiro sfiorasse la mia pelle

    per scatenare una miriade di sensazioni incontrollabili,

    che mi portavano a chiedermi

    come avevo potuto, anche solo sopravvivere,

    senza di esse...

    S. L. Sibyl

    Capitolo 1

    La vita e la morte confluiscono e non c'è né evoluzione né destino, soltanto essere.

    (Albert Einstein)

    Sentii la sveglia suonare, allungai la mano e afferrai il telefono per spegnerlo.

    Era buio.

    Controllai l'ora.

    Le cinque del mattino.

    -Mmh...- un mugolio provenne dalla persona che mi stava a fianco.

    Mi voltai e misi a fuoco l'immagine.

    Una cascata di riccioli rossi ricoprivano la schiena nuda della donna distesa alla mia sinistra.

    Sorrisi.

    Mi piaceva quando riuscivo a far coincidere il lavoro col piacere.

    Mi alzai e lentamente raccolsi i miei vestiti e anche qualcuno dei suoi. Accesi la luce e un altro mugolio di protesta ruppe il silenzio.

    -Alzati!- intimai.

    Lei mi guardò leggermente sorpresa.

    -Sai che ore sono?- la sua voce ancora rauca.

    -Le cinque... ho un appuntamento- così dicendo le lanciai addosso i suoi pochi abiti - vestiti e vattene!- rimarcai.

    -Gabriel… - una punta di delusione adombrava i bei lineamenti di quella donna.

    -Victoria, il tuo lavoro è finito, io devo tornare ai miei impegni, ho delle scadenze da rispettare e, soprattutto, degli orari. Quindi fa quello che ti ho detto...- ero freddo, distaccato. Non provavo nessun tipo di rimorso o rimpianto, il nostro era stato uno scambio di sesso per soldi, niente di più, niente di meno.

    Era così che avevo scelto di sfogare le voglie, nessuna ricerca strana nei locali o conoscenza in un qualsiasi posto. Prendevo il telefono, chiamavo un'agenzia, dicevo cosa volevo e pagavo; semplice, rapido e, soprattutto, senza strascichi sentimentali. Solo e soltanto sesso.

    Il denaro, quello certamente non mi mancava, avrei potuto comprarmi tutto quello che desideravo, ed era l'unica cosa veramente importante per me, il resto non contava. Da bambino avevo sofferto molto per la povertà in cui avevo vissuto e mi ero ripromesso che, da grande, non sarebbe più capitato. E così è stato.

    -Andrò a farmi una doccia, al mio ritorno non voglio trovarti qui! Spero di essere stato abbastanza chiaro in proposito!- così dicendo mi avviai verso la porta del bagno.

    Sentivo l'acqua scorrermi dolcemente addosso, era calda e rigenerante, anche il profumo del bagnoschiuma mi esaltava. Il senso di rilassatezza iniziava a prendere possesso di me, era quello che cercavo, la mente libera da ogni altro pensiero, l'unica mia preoccupazione doveva essere il mio obiettivo, ripassavo il piano nella mia testa all'infinito, fino a che non sarebbe diventato solamente un gesto meccanico. Gli imprevisti non facevano parte della mia esistenza, tutto veniva calcolato sin nei minimi dettagli, era fondamentale, ne andava della mia vita, nel senso letterale delle parole.

    Sentii la porta nell'altra stanza chiudersi sbatacchiando... finalmente se n'era andata, dovevo continuare a concentrarmi e non potevo farlo con lei qui.

    Guardai l'orologio.

    Mancava soltanto mezz'ora, poi sarei entrato in azione.

    Mi asciugai con cura, mi vestii e andai verso l'armadio.

    Ne estrassi una scatola di velluto nero, bassa e larga. Soffermandomi a osservarla, passai meccanicamente la mano sul morbido tessuto che rivestiva quel piccolo astuccio contenente la mia migliore e unica amica, la mia sola compagna di viaggio e di avventure: una pistola Glock 22 con silenziatore.

    Aprii la custodia e la vidi.

    Lucida, nera, perfetta in ogni sua parte. L'odore del lubrificante, mischiato con quello della polvere da sparo, pungeva alle narici.

    Questa pistola non era di metallo bensì di uno speciale materiale plastico, un visionario inventore austriaco era riuscito in quest'impresa assai strana e questo facilitava il mio compito, chissà se ci aveva pensato al momento della sua invenzione.

    Il telefono squillò.

    Sapevo già chi era, soltanto in pochi conoscevano il numero della scheda prepagata che avevo acquistato per quest'occasione, quindi risposi al secondo squillo.

    -Sei pronto?- non c'era bisogno di spiegazioni o di saluti, la voce decisa dell'uomo all'altro capo del telefono non avrebbe ammesso dinieghi in proposito.

    -Certo, tra qualche minuto sarà tutto finito.- La mia voce aveva un timbro fermo ma discostato, come se quello che stavo per fare non mi toccasse . E infatti così era.

    -Bene, non avevo dubbi. Sei sempre il migliore, dopotutto- il suo fare quasi paterno mi metteva i brividi, sapevo che tutti i suoi complimenti duravano il tempo di un battito di ciglia, sarebbe bastato pochissimo a invertire la rotta dei suoi pensieri -sarai a casa presto... allora.-

    Silenzio.

    Conoscevo Nathan da molti anni ormai e quello che avevo imparato era che non si poteva contraddirlo, era troppo potente e troppo egocentrico per accettarlo.

    All'inizio ero stato felice di essere stato scelto per far parte della sua organizzazione, ma adesso avevo capito il suo gioco e stavo molto più attento a quello che facevo.

    -Sarò alla base appena possibile!- rimarcai su quella parola, perché per me non si trattava di casa; gli risposi come un automa, era così che mi sentivo quando facevo qualunque cosa che riguardasse il mio lavoro, ossia per gran parte della mia vita.

    -Bene.- e chiuse la comunicazione.

    Sospirai.

    Presi la pistola, montai il silenziatore e la infilai nella fondina sotto al braccio sinistro.

    Indossai la felpa nera col cappuccio e un ulteriore cappello di lana che calzai fin sopra gli occhi. Mi misi i guanti di pelle, anche quelli rigorosamente neri e mi guardai allo specchio.

    Quello ero io. Un uomo che doveva restare senza volto. Un’ombra, qualcuno che non doveva dare nell'occhio. Qualcuno che non aveva sentimenti né rimorsi né, tanto meno, famiglia.

    Un altro sospiro uscì dalle mie labbra.

    Istintivamente mi passai la mano sul torace alla ricerca del mio ciondolo, lo trovai e lo strinsi, il rumore metallico della piccola catena a cui era attaccato mi riportò alla realtà: era tempo di agire!

    Aprii la finestra della mia camera e mi issai sul davanzale, salii in piedi sul cornicione e mi avviai, con molta attenzione, sino alle scale antincendio dove iniziai a salire con decisione i tre piani che mi separavano dal mio obiettivo.

    Arrivato alla giusta altezza mi trovai davanti la finestra che dava sul corridoio dell'ottavo piano, estrassi dalla tasca il ferretto per forzare la serratura, pochi piccoli movimenti e...

    TAC

    Lo scatto deciso mi segnalò che la vetrata era sbloccata.

    Guardai l'orologio: mancava un quarto d'ora alle sei, ero in orario perfetto.

    Il cuore iniziò a battere più rapido, sentii l'adrenalina scorrermi nelle vene.

    Entrai senza fare il minimo rumore; conoscevo a memoria l'ubicazione di ogni telecamera del circuito chiuso dell'albergo, sapevo come muovermi, mi bastava tenere la testa bassa e dare le spalle all'obiettivo e loro avrebbero avuto soltanto un’ombra scura e irriconoscibile su quei nastri. Seguii le indicazioni che mi portarono sino alla stanza 850.

    La card passepartout, che avevo rubato alla donna delle pulizie l'altra mattina, adesso fece la sua piccola parte.

    La infilai nell'apposita fessura e, silenziosamente, impugnai la maniglia girandola.

    Docilmente la porta si aprì e mi ritrovai davanti un grande letto, del tutto simile a quello della mia camera, sul quale giaceva un uomo profondamente addormentato.

    Estrassi la pistola.

    Puntai.

    -Mi spiace... niente di personale- sussurrai pochi istanti prima di premere il grilletto.

    Quelle parole accompagnavano ogni mia missione, era vero, niente mi legava a tutte le persone che avevo terminato, erano soltanto incappate in qualcosa o in qualcuno che non dovevano e in quei casi venivo mandato io per risolvere la situazione.

    La mia arma emise solo un leggero sibilo.

    Un piccolo scossone del corpo e una chiazza rossa iniziò a macchiare le candide lenzuola.

    Mi avvicinai.

    Constatai con un dito che non ci fosse più battito e gli strappai dal collo la catena col grosso crocifisso che indossava.

    Il microchip che stavamo cercando era nascosto lì dentro.

    Mi voltai, raccolsi il bossolo, chiusi la porta e recuperai la card, poi percorsi a ritroso il mio tragitto.

    Rientrai nella mia camera giusto in tempo per sentire il telefono dell'albergo squillare.

    -Pronto?- risposi con una voce sonnacchiosa. D'altro canto ero un bravo attore, faceva parte del mio lavoro esserlo e quel trucco rappresentava il mio alibi, quindi dovevo essere molto convincente.

    -Signor Gabriel Lynley? - la voce professionale del concierge era un po' troppo alta e mi infastidì -È il servizio di sveglia da lei richiesto: sono esattamente le sei e dieci.-

    -Giusto! La ringrazio per avermelo ricordato.-

    -Si figuri signor Lynley, buona giornata!- quel cognome era uno dei tanti che usavo, ne avevo a decine, l'unica cosa che non cambiavo mai era il nome, non volevo rischiare di non rispondere quando venivo chiamato.

    -E' iniziata molto bene, grazie!- e riagganciai. Il mio cuore si stava già calmando, le emozioni andavano e venivano come delle fresche ventate, duravano il poco che bastava per farmi sentire vivo, nulla di più.

    Il tempo di cambiarmi, di chiudere la valigia, praticamente lasciata intatta, ed ero già alla reception dove, dopo aver saldato il conto, mi feci chiamare un taxi per l'aeroporto.

    Seduto in macchina presi il cellulare, composi il numero e, pochi secondi dopo , sentii aprire la comunicazione:

    -Sono io- dall'altra parte solo silenzio, ma sapevo che mi stava ascoltando –Nathan, è tutto a posto, sarò a Chicago nel pomeriggio per consegnarti l'oggetto.-

    -Perfetto, sono molto orgoglioso di te.- la sua voce mielosa mi innervosì – ho pronto un altro lavoro da proporti e, se accetterai, ci saranno la bellezza di 1.000.000$ pronti a finire sul tuo conto, spero che non mi deluderai.-

    -Non credo di poter rinunciare a una cifra come quella. Ne parliamo a quattrocchi al mio arrivo.- chiusi la comunicazione, spensi il telefono e distrussi la piccola scheda telefonica che conteneva, per sostituirla con un'altra nuova di zecca, così come avrei fatto con la mia attuale identità.

    Mi attendeva un rilassante volo in prima classe, mi sarei fatto coccolare dalle hostess prima di riprendere possesso della mia vera vita e del mio nuovo impegno di lavoro.

    Capitolo 2

    Nonostante la vita sia un misto di dolore e tristezza,

    dobbiamo vivere aspettando la morte.

    (Paulo Coelho)

    Mi stavo guardando attorno, quella stanza la conoscevo bene, era asettica e impersonale, sembrava quasi nata per degli interrogatori e non avrei escluso che venisse utilizzata anche per quello.

    Una piccola telecamera era puntata verso la sedia dove ero seduto; il tavolo, completamente bianco, quasi si mimetizzava col pavimento e le pareti, l'unico tocco di colore era una pianta di ficus benjamin posto in un angolo, le cui rigogliose foglie contrastavano con tutto il resto, peccato che anche lui nascondesse una microscopica telecamera; a me non interessava, non avevo niente da nascondere, non con loro comunque, che sapevano già tutto di me.

    Il problema era la mia indole, ogni volta che entravo in un qualsiasi luogo il mio cervello cercava automaticamente le più vicine vie di fuga oppure i nascondigli dove avrebbero potuto essere rintanati dei nemici e, puntualmente, mi posizionavo nel punto in cui avevo una visuale migliore dell'insieme. Il mio lavoro aveva deformato radicalmente ogni dettaglio della mia vita, lo facevo da troppi anni ormai.

    -Ecco.- Con un gesto Nathan fece cadere sul tavolo davanti a me una cartella con dei documenti, la fissai qualche secondo, poi riportai lo sguardo sul suo volto, in attesa di spiegazioni –Si tratta di tre persone, due uomini e una donna, troverai tutto all'interno: foto e un po' di documentazione sulle loro vite. Hai tre mesi di tempo per prepararti e concludere il lavoro. Deve essere una cosa pulita, niente armi, dovranno sembrare banali incidenti. Leggerai le specifiche e le ragioni su quei fogli. Fammi sapere prima possibile se accetti o no- dopo pochi secondi di silenzio, nei quali sembrava stesse riflettendo, disse -riceverai un quarto della somma subito e un quarto per ognuno dei tre obiettivi, via via che procederai a terminarli. I soldi ti saranno accreditati nel tuo conto cifrato alle isole Cayman, com’è consuetudine.-

    -Un milione! Dev'essere una cosa grossa... - ci avevo già riflettuto, il denaro per me era sempre un buon incentivo, ma volevo tenerlo un po' sulle spine e capire come mai fosse così importante per lui. Pensai che con questi soldi avrei potuto ritirarmi, l’idea mi allettava; ero stanco di questa vita, sempre in giro, senza mai una vera casa in cui tornare. Certo non sarebbe stato facile uscirne, sapevo troppe cose, il compito più difficile era riuscire a sparire. Però ero abituato a farlo da anni, l'avrei fatto anche questa volta e sarebbe stata l'ultima.

    -Già!- iniziò a camminare avanti e indietro, era nervoso e non gli accadeva spesso. La cosa non mi piaceva, l'uomo davanti a me non era molto alto, era vestito di tutto punto, giacca alla coreana e pantaloni neri come la pece, che si abbinavano perfettamente ai suoi lunghi e lisci capelli, il tutto contrastava con la sua carnagione sin troppo pallida, che lo rendeva vagamente inquietante. Ogni suo movimento era studiato e calcolato, lento, elegante, quasi ritmato, tutto per farti sentire a tuo agio e farti abbassare un po' le difese; in realtà era un cacciatore che studiava la sua preda, ogni punto debole veniva scovato e utilizzato a suo favore.

    -Spiegami di cosa si tratta.- lo incalzai.

    -Dunque...- socchiuse gli occhi e unì le mani quasi in un gesto di preghiera -dovrai andare a Seattle.- Intanto avevo la destinazione, non male, quella città mi piaceva e non era troppo lontana da qui -lassù un idiota, quasi un anno fa, ha pensato bene di fare irruzione negli uffici di un'importante agenzia finanziaria e di sparare a tutto ciò che si muoveva. Loro gli avevano fatto perdere tutti i suoi soldi con degli investimenti sbagliati e lui si è vendicato.-

    -Interessante, ma questo cosa c'entra con noi?-

    -In quel fatto sono morte sette persone e ne sono rimaste ferite una quindicina, numerose testate di giornali hanno documentato, per mesi, l’accaduto. La moglie di una delle vittime ha deciso di far causa a TUTTE le fabbriche d'armi. Non sta a me spiegarti che, se vincesse la causa, sarebbe una rovina per noi, le armi sono il fulcro del nostro lavoro e la multa che sarebbero costrette a pagare quelle aziende sarebbe tale che, per molto tempo , noi non potremmo essere riforniti.-

    -E questi tre cosa c'entrano in tutto questo?- ancora non capivo il loro collegamento a tutta questa storia.

    - Loro fanno parte della giuria. Purtroppo non sono riuscito a pilotare tutta la scelta dei giurati; questi tre sono assolutamente contro l'uso delle armi, in qualunque caso. Il rischio, che io non posso e non voglio correre, è che riescano a convincere il resto dei giurati a condannare queste fabbriche e far modificare la legge sul libero acquisto di pistole per difesa personale; sarebbe inconcepibile una cosa del genere.- mi fissava con fare speranzoso, sapeva che ero l'unico che avrebbe fatto un lavoro VERAMENTE pulito. Io guardavo quel plico, che ancora non avevo aperto, valutando cosa fare.

    -Accetto- dissi di getto, l'idea di ritirarmi mi faceva sempre più gola, perché non assecondarla?

    -Bene...- il viso di Nathan si illuminò, per quanto possibile, ma solo per un secondo -vuoi che mandi qualcuno per darti una mano, almeno per le ricerche?- non terminò la frase perché vide la collera salire in me in un istante.

    -Sai che io lavoro DA SOLO!!-

    -Gabriel ti prego, da quando Patrick...-

    SBANG!

    La sedia dove ero seduto cadde all'indietro, mi ritrovai in piedi con la faccia a pochi centimetri dalla sua.

    -Non pronunciare quel nome!- urlai, la mia mano destra andò istintivamente a tastare il piccolo ciondolo sotto la mia camicia -LUI è un problema mio! Non voglio nessuno tra i piedi, mi sarebbe solo d'intralcio! Ci siamo capiti?- anche se lui incuteva timore, sapeva quanto potevo essere pericoloso io, per cui abbassò la testa in segno di resa -Bene!- continuai con la voce più calma e una posizione più rilassata -studierò queste carte e tra una settimana partirò per Seattle. Ti aggiornerò appena avrò qualcosa da comunicare.- mi voltai per uscire da lì, ma la sua voce mi bloccò.

    -Gabriel...- aveva un'intonazione quasi paterna e questo mi fece rivoltare lo stomaco -prima o poi dovrai affrontare la cosa, sono passati quattro anni.-

    Ripresi a camminare e, senza voltarmi, uscii sbattendo la porta.

    ***

    Erano passati cinque giorni dal mio colloquio con Nathan, era il tempo minimo che mi prendevo per rimettere in sesto la mia mente dopo ogni lavoro.

    Poco, tanto?

    Non saprei, ero sempre stato bravo a reprimere gli episodi spiacevoli, almeno fino a quattro anni fa, mentre adesso...

    Ero sdraiato sul divano di quello che consideravo il mio appartamento, era abbastanza piccolo, aveva una camera, un salottino, cucina e bagno, niente di più; ci stavo talmente poco che era più che sufficiente.

    Ogni mia missione iniziava così, questa fase era fondamentale per la preparazione di ogni mia mossa futura.

    La comoda tuta da ginnastica che indossavo mi aiutava a rilassarmi e a concentrarmi su quello che stavo per fare.

    Avevo tra le mani la cartellina che mi aveva consegnato Nathan.

    La scritta D.I.V.A. risaltava al centro della copertina, a sfiorarla era quasi a rilievo.

    L’acronimo D.I.V.A. stava per Department Investigation Valz Administration, una divisione super segreta del FBI. A dire il vero lavoravamo con e per il governo, ma ci occupavamo di quelle faccende non proprio legali a cui loro andavano incontro; il tutto sotto la spettacolare dicitura Top Secret. Tutta l'organizzazione era gestita da Nathan Valz, coadiuvato dai suoi fratelli Andrew e Sam. La famiglia era di origine austriaca, i nonni emigrarono in America negli anni Venti in cerca di fortuna, trovandola; gli era bastato essere intraprendenti e privi scrupoli, doti che avevano trasmesso anche ai nipoti, ovviamente.

    L'aprii.

    Le prime pagine contenevano la documentazione e la spiegazione di quanto mi veniva richiesto. Lessi velocemente, dicevano le stesse cose che Nathan mi aveva anticipato, come se avessero potuto discostarsi.

    Poi la prima foto.

    Ritraeva un uomo sulla sessantina, doveva pesare intorno ai cento chilogrammi, era stempiato e i pochi capelli che gli erano rimasti erano ormai grigi. Aveva occhi piccoli, di un celeste sbiadito, nascosti da spesse lenti di occhiali da vista che li facevano sembrare ancora più piccoli.

    Voltai pagina e trovai tutto quello che avevano appurato su di lui.

    Nome: Nicolas Anderson

    Nato a: Houston, Texas

    Residente a: Seattle, Stato di Washington, al 252 di St. Charles street (vicinanze Century Link Field Stadium). Trasferimento dalla sua precedente residenza avvenuto per cause di lavoro.

    Età: cinquantanove anni

    Peso: centocinque kg

    Altezza: m 1,78

    Lavoro: impiegato alla biglietteria dello stadio di football.

    Varie: single, cardiopatico, esegue frequenti visite presso il Seattle General Hospital. Soffre di una cardiopatia congenita che lo limita molto negli spostamenti. Deve prendere quotidianamente numerose medicine per tenere sotto controllo l'ipertensione arteriosa e l'aritmia.

    Interessante pensai.

    Voltai pagina ed esaminai una nuova foto. Ritraeva un secondo uomo, più giovane del precedente, dai lineamenti orientali, anche lui portava occhiali da vista, ma più piccoli e meno appariscenti dell'altro soggetto. Fisico asciutto, mani curate, probabilmente faceva un lavoro d'ufficio.

    Tentavo di carpire ogni minimo particolare dalle foto, per cercare di notare anche quello che un occhio meno esperto non avrebbe evidenziato.

    Andai a leggere i suoi dati.

    Nome: Shiro Nakamoto.

    Nato a: New York, da genitori giapponesi trasferitisi in America negli anni Settanta, quando la madre era in attesa di lui. Con la nascita del bambino fecero richiesta del visto di lavoro (entrambi erano occupati in un ristorante giapponese a Manhattan), che ottennero senza grossi problemi ma, non appena il figlio si laureò in economia, nel 1992, decisero di fare ritorno nella città natale di Osaka , dove tutt'ora vivono.

    Residente a: Seattle, al 986 della 6 th Avenue, a pochi isolati dalla Smith Tower.

    Età: quarantotto anni

    Peso: sessantotto kg

    Altezza: m 1,71

    Lavoro: è contabile presso un'azienda che gestisce l'importazione di mobili orientali direttamente dall'Asia, la Oriental Import, al top nel suo settore. La sede è situata al ventiduesimo piano della Smith Tower Office Space- 506 Second Avenue - Seattle, WA 98104

    Varie: single; è una persona molto abitudinaria, con piccole paranoie su orari e itinerari da rispettare minuziosamente. Le sue giornate sono programmate e non sgarra mai.

    Altra cosa piuttosto interessante, direi fu il mio pensiero.

    Terzo e ultimo obiettivo.

    Il viso che stavo osservando era di una sorridente ragazza sui vent'anni, con occhi marroni molto profondi ed espressivi, un viso a cuore incorniciato da una cascata di capelli castani, si potevano notare delle piccole sfumature mogano dove la luce del sole vi batteva in un modo più diretto. Stringeva al petto dei libri, il che mi fece supporre che fosse una studentessa, sullo sfondo si poteva distinguere l'ingresso del campus della University of Washington (come immaginavo). La sua figura era snella, forse un po' troppo, non aveva l'aria di voler dare nell'occhio; il suo abbigliamento era studiato per non valorizzare in alcun modo le sue forme: un paio di jeans, scarpe da ginnastica un po' consumate e un maglione sformato di un colore che non le si addiceva.

    Il suo viso era attraente anche se non particolarmente affascinante, erano le sue piccole asimmetrie a stuzzicarmi, il labbro di sotto leggermente più sporgente di quello superiore oppure quella minuscola fossetta, appena accennata, che compariva sulla guancia destra e assente sulla sinistra, probabilmente il risultato di una caduta quando era piccola.

    Le sue mani erano minute, con dita lunghe niente affatto curate, qualche unghia era spezzata, presumibilmente lavorava per potersi mantenere agli studi; coscienziosa, timida, solare, allegra. Questo era quanto ero riuscito a evidenziare.

    Volevo leggere qualcosa che la riguardasse, quindi voltai pagina.

    Nome: Elisabeth Margaret Burns, ma preferisce farsi chiamare Beth.

    Nata a: Colville, stato di Washington

    Residente a: Seattle, presso il campus universitario.

    Età: ventitré anni

    Peso: cinquanta kg

    Altezza: m 1,67

    Lavoro: studente e laureanda in giurisprudenza alla University of Washington, lavora part-time presso un piccolo bar, il College Inn Pub, il che le consente di seguire le lezioni e mantenersi.

    Varie: anche se timida riesce a integrarsi agevolmente coi suoi coetanei. Non è fidanzata ma ha moltissimi e fidati amici. Uno di costoro è il gestore del locale, un certo Jarvis Hawkman, suo amico d'infanzia, facente parte di una piccola comunità di nativi americani che occupa alcuni territori a pochi chilometri da Colville. Lui ha qualche anno più di lei ed è fidanzato da anni con Caroline Carter.

    Beth non ha orari prestabiliti, si muove e lavora in base ai corsi che desidera seguire, il lavoro e lo studio.

    Questo complica le cose, pensai, beh, non tutte le ciambelle riescono col buco, stavolta dovrò impegnarmi.

    Presi la mia vecchia chitarra classica, era il mio unico hobby e mi aiutava a riflettere; ricordavo come se fosse ieri, invece che quasi tredici anni fa, il giorno che avevo deciso di comprarla usando i primi soldi che ero riuscito a racimolare, ed ero in compagnia di Patrick.

    Una fitta al cuore... perché Nathan aveva dovuto nominarlo?

    Perché?

    Basta!

    Non volevo e non dovevo pensarci!

    Strimpellai qualche accordo e la stanza si riempì di note. Senza che me ne accorgessi avevo già preso la mia decisione. Afferrai il telefono e digitai un numero che negli anni mi era diventato familiare, pochi secondi dopo una voce maschile molto cortese attivò la comunicazione: -Aeroporto di Chicago. Desidera?-

    -Buongiorno, vorrei prenotare un volo per Seattle, il prima possibile, a nome...- un attimo per scegliere, era stata una decisione talmente improvvisa che non avevo pensato a che nome usare -Gabriel Pierce, grazie!- cosa stavo facendo? Perché avevo usato il mio vero nome? Iniziavo a credere che questa vita mi stesse dando definitivamente alla testa.

    -Signor Pierce... c'è un volo fra quattro ore, se le va bene.-

    -Perfetto!-

    Capitolo 3

    E' sincero il dolore di chi piange in segreto.

    (Marziale)

    Era sera e le luci di Seattle iniziavano a intravedersi all'orizzonte. La mia partenza era stata immediata, avevo una valigia sempre pronta per qualunque evenienza, mi sarebbe bastato il minimo indispensabile, il resto l'avrei comprato sul posto.

    Ero sdraiato sulla mia poltroncina in business-class e mi stavo gustando le ultime gocce del mio Martini, cullato dal leggero ronzio dei motori dell'aereo; eravamo in maggio, le temperature erano diventate accettabili anche nel nord degli Stati Uniti, certo la città dove stavo andando non era rinomata per il clima, la pioggia era predominante in quasi tutte le stagioni, ma almeno avrei scansato il freddo.

    Una hostess mi fissava, mi aveva sfiorato la spalla più volte durante il volo e, porgendomi il drink, mi aveva anche passato un biglietto col suo numero telefonico. Che stupida, se solo sapesse chi sono veramente; forse avrei potuto stare al suo gioco e approfittare della situazione. La guardai un'altra volta: era bionda, portava i capelli legati in una stretta crocchia alta, il viso era dolce e leggermente truccato.

    Era carina.

    Buttai uno sguardo alle sue mani.

    Nessun anello.

    Aveva al collo una fine collanina con una piccola mela di swarovski, che si appoggiava proprio al centro della scollatura.

    Alzai un angolo della bocca in un sorriso asimmetrico che di solito aveva presa sulla donne.

    Lei sgranò gli occhi ed entrò in iperventilazione: appunto.

    La voce dell'altoparlante annunciò di allacciare le cinture di sicurezza, eravamo in fase d'atterraggio e riportai subito la mia mente alla realtà. Come mi ero ripromesso molto tempo fa, niente relazioni che potrebbero portare complicazioni, la mia vita era già fin troppo incasinata, non avevo intenzione di crearmi altri problemi.

    L'aeroporto Tacoma International era sotto di noi, si poteva vedere la grande torre di cristallo completamente illuminata che troneggiava sul terminal centrale.

    All'arrivo noleggiai subito un’auto, qualcosa di anonimo e poco appariscente , e mi diressi all'albergo; avevo prenotato una stanza in un quattro stelle a una pari distanza dai miei tre obiettivi.

    Domani avrei aperto le danze!

    ***

    Stavamo correndo, riuscivo a sentire il respiro accelerato di Patrick alle mie spalle e distinguevo esattamente i pesanti passi dei nostri inseguitori. Mentre fuggivamo non potevo fare a meno di chiedermi come avessero potuto scoprirci, ci eravamo appostati da pochi minuti quando tutto era andato a rotoli; dopo una breve sparatoria avevamo deciso di darci alla fuga, erano troppi e non avremmo mai potuto avere la meglio.

    Sentivo che il fiato iniziava a mancarmi, quando all'improvviso...

    BANG!

    Uno sparo, soltanto uno.

    Un gemito arrivò alle mie orecchie.

    Mi voltai.

    Vidi gli occhi del mio amico spalancati.

    Il sangue sulle sue mani che si stringevano il petto.

    -PATRICK!- urlai.

    Mi svegliai di soprassalto, il cuore mi batteva all'impazzata, ero in un bagno di sudore. Mi presi la testa tra le mani, per quanto tempo ancora sarebbe andata avanti questa storia?

    Continuavo a rivivere quella scena quasi tutte le notti e i suoi occhi sbarrati mi accompagnavano per gran parte della giornata, prima o poi sarei dovuto andare a fondo in quella storia: glielo dovevo.

    Strinsi il mio ciondolo con forza e le sue ultime parole mi tornarono alle mente.

    -Ricordati, Gabriel. Un giorno capirai quello che ti ho detto e allora, soltanto allora e non prima, potrai far buon uso di questo.- in quel momento mi dette la sua catenina, pochi secondi dopo i suoi occhi blu si spensero per sempre e tutto quello che mi era rimasto di lui, della nostra lunga amicizia, rimaneva nei miei ricordi e in questo piccolo oggetto dal quale non mi separavo mai.

    Una doccia.

    Ecco quello che dovevo fare, una bella doccia rigenerante e poi mettermi al lavoro.

    Ero appostato fuori dal palazzo dove abitava il mio primo obiettivo. Ero vestito con un paio di jeans e una t-shirt nera, sulle spalle un piccolo zaino dove tenevo tutta la mia attrezzatura; indossavo anche un cappello da baseball per nascondere i miei indomabili capelli biondo-ramati.

    Erano le 08,45 del mattino e l'uomo in questione era appena uscito svoltando in direzione dello stadio. Si muoveva adagio, sembrava affaticato. Presi appunti nella mia agenda, preferivo ancora la carta alla tecnologia, per alcune cose mi dava più sicurezza. Riposi il taccuino nello zaino e le mie mani sfiorarono il tessuto scuro dei guanti che portavo sempre con me; li presi e li infilai, nessuna impronta, in nessun caso.

    Con molta calma mi avvicinai al portone del palazzo. Non potevo certo mettermi a scassinare una serratura in pieno giorno e in mezzo alla strada, non sarebbe stato affatto prudente; così utilizzai un sistema infallibile suonando a caso qualche campanello della pulsantiera e, quando le voci infastidite di altri condomini mi chiesero chi era, bastò rispondere:

    -Pubblicità in cassetta!- con voce squillante.

    I brontolii non mancarono in sottofondo, ma il rumore metallico dello scatto della serratura non mancò di avvisarmi che la via era libera.

    Cercavo l'interno C3, terzo piano, porta C. Salii gli scalini a due a due, di solito nessuno fa le scale, tutti prendono l'ascensore. Troppo moto potrebbe uccidere!

    La porta davanti a me aveva una vecchia serratura, niente di complesso, bastarono pochi secondi per farla scattare; si aprì con un leggero cigolio e mi ritrovai in un piccolo soggiorno. L'arredamento era vecchio e consumato, il divano, di un improbabile verde sbiadito, era posizionato proprio davanti al televisore, un datato modello a tubo incastrato in una libreria piuttosto sfornita. Oltre un tavolo a penisola si intravedeva la luce che proveniva dalla portafinestra del piccolo angolo cottura tirato a lucido, si sentiva ancora nell'aria l'odore del caffè appena fatto e quello dei croissant scaldati nel forno. Il mio stomaco brontolò, era il suo modo di ricordarmi di non aver fatto colazione.

    Sulla parete sinistra del salotto c'erano due porte identiche. Aprii quella che mi era più vicina, era la camera, al centro della parete di fronte c'era un letto a una piazza e mezza, perfettamente rifatto, pochi raggi di sole filtravano dalle serrande parzialmente abbassate della finestra, mi affacciai, davano sulla strada principale. Sul comodino accanto al letto erano disposti ordinatamente quattro flaconi di medicine, tutti per regolare ipertensione arteriosa e cardiopatia, vicino un bicchiere con un po' d'acqua.

    Scattai qualche foto, soprattutto ai farmaci.

    Entrai nel bagno.

    Anche questo era datato, le pareti erano rivestite da piccole mattonelle verde-acqua, mentre il pavimento era di color grigio scuro e molto consumato, alcuni tappetini coprivano i punti peggiori ma non miglioravano di molto l'insieme. Mi avviai spedito all'armadietto dei medicinali, era stracolmo di ogni tipo di flacone, li fotografai tutti minuziosamente.

    Tornai nel soggiorno e iniziai a posizionare un paio di micro-telecamere dove non avrebbero dato nell'occhio, stavo per mettere una ricetrasmittente nel telefono portatile quando questo si mise a squillare, immediatamente partì la segreteria:

    -Risponde la segreteria telefonica del signor Anderson, al momento non sono in casa, lasciate un messaggio dopo il bip.-

    Il tu-tu-tu-tu della linea interrotta mi diceva che, chiunque stesse chiamando, aveva già concluso la sua telefonata; io ripresi il mio lavoro e applicai la cimice all'apparecchio.

    Ogni congegno che avevo accuratamente dissimulato era collegato direttamente, tramite frequenze criptate, a un ricevitore sul mio computer. Questo registrava, riportando gli orari 24h su 24, su un hard-disk e io potevo analizzare il materiale eliminando le ore di inattività nella casa e memorizzando solo ciò che mi era utile.

    Adesso dovevo uscire di lì.

    Recuperai lo zaino, infilai un paio di occhiali scuri e mi ributtai nel caos del traffico cittadino.

    ***

    Questo era il mio lavoro, ricercare, spiare, analizzare per poi colpire, non potevano esserci errori, nessun dettaglio era lasciato al caso e, se anche questa fase era un po' noiosa, era fondamentale per la riuscita di tutto; quindi, senza perdere altro tempo, mi diressi verso la casa del secondo obiettivo.

    A quest'ora era sicuramente al lavoro.

    L'iter era lo stesso, il suo appartamento era al piano terreno, con un accesso indipendente e un po’ nascosto. Entrai senza problemi.

    Il contesto che mi si parò davanti era completamente diverso dal precedente. L’ingresso si sviluppava in un salone arredato in stile minimalista giapponese molto essenziale, i colori predominanti erano il bianco e il nero, lo yin e lo yang, appunto. Alla mia sinistra un tavolo accoglieva un telefono e un'orchidea con i fiori bianchi striati di lilla, tutto era disposto in un ordine quasi maniacale; il divano nero, accompagnato da grandi puff in tinta, aveva di fronte un basso tavolo da caffè dove troneggiava un vaso di vetro con tre tulipani bianchi; perfino i telecomandi erano disposti in ordine di grandezza, a scalare dal più grande al più piccolo.

    Alcune stampe, raffiguranti paesaggi giapponesi o giardini zen, davano un tocco di colore alle pareti. La luce entrava da una grande portafinestra, sempre sulla sinistra, che conduceva a un piccolo giardino privato.

    Paraventi in legno e carta di riso dividevano la sala dalla cucina, anch'essa tutta bianca ed estremamente ordinata. Sembrava di sfogliare una di quelle riviste d'arredamento in cui ogni arredo è nel posto che era stato studiato per lui e guai se veniva spostato da lì.

    La camera e il bagno erano oltre la cucina, lungo un piccolo corridoio. Nella prima, il letto futon era proprio al centro della stanza mentre un armadio con le ante a scorrere copriva l'intera parete di fianco alla porta.

    Nel secondo mi sorprese il contrasto tra il pavimento, completamente nero, e i sanitari bianchi e lucidi; nessun medicinale particolare era presente negli armadietti, soltanto una confezione di aspirine e qualche blando antinfiammatorio. Niente che potesse tornarmi utile, presi nota mentalmente.

    Tornai sui miei passi e installai le telecamere e la spia telefonica.

    Il mio stomaco brontolò, di nuovo.

    Guardai l'orologio che segnava mezzogiorno passato.

    Dovevo pranzare e avevo già un'idea di dove sarei andato.

    ***

    Il College Inn Pub era un locale caratteristico in stile coloniale, molto accogliente sia fuori che dentro. A quell'ora gli studenti si accalcavano al bancone per accaparrarsi qualcosa da mettere sotto i denti e tornare il prima possibile nelle aule per seguire le lezioni pomeridiane. Il mio ingresso passò quindi inosservato. Lei non c'era, l'avevo notato all'istante; dietro la macchina da caffè espresso all'italiana si intravedeva la figura maestosa di un uomo, il braccio che porgeva le tazze era di carnagione olivastra, tipica dei nativi americani; supposi si trattasse di Jarvis. Al suo fianco una bellissima ragazza, anche lei con gli stessi tratti tipici; li osservavo muoversi in uno spazio così ristretto e la prima cosa che mi era saltata all'occhio era l'estrema sincronia, come se potessero leggersi nella mente cosa stava per fare l'altro, indice di una conoscenza profonda; ne ero quasi ipnotizzato e un vago senso di malessere mi nacque nel profondo.

    Adocchiai un tavolino in un angolo appartato, l'ultimo lungo la parete di fondo, da dove potevo vedere bene sia l'ingresso, sia il banco, nonché il resto del salone. Era perfetto.

    Mi accomodai e iniziai a sfogliare il menù.

    Mentre ero ancora assorto nella lettura, mi sentii osservato e alzai la testa.

    Una ragazza stava in piedi accanto al mio tavolo, indossava un grembiule bianco con una grande tasca sul davanti, in mano stringeva un notes e una penna.

    Sorrideva.

    I suoi lunghi capelli neri erano stretti in una coda alta e gli occhiali, dalla montatura un po' troppo spessa, le davano un'aria da secchiona. Sembrava simpatica nel complesso.

    -Salve, mi chiamo Melissa. Sa già cosa posso portarle?- la sua voce era dolce e cordiale, inclinò leggermente la testa sulla spalla destra e accentuò il sorriso.

    -Sì!- risposi -vorrei un sandwich al tonno, dell'acqua naturale e una macedonia. Grazie!- i miei pranzi si assomigliavano tutti, non ero un bravo cuoco e lasciavo alla cena le scelte più elaborate.

    -Perfetto. Le porterò tutto il prima possibile.- e, detto questo, si allontanò.

    Il cibo, tutto sommato, era stato ottimo; il pane era fresco e la frutta era matura e saporita. Il tempo era passato e gli studenti che affollavano il locale piano piano se ne erano andati, trascinati dai rispettivi impegni. Oltre a me erano rimasti solo altri cinque ragazzi, tutti seduti allo stesso tavolo completamente ricoperto di libri.

    Il proprietario del pub, la sua ragazza e la cameriera che mi aveva servito, erano al bancone che chiacchieravano tranquillamente, ridendo di qualche battuta che non riuscivo a sentire. Decisi che, nell'attesa, avrei potuto prendere appunti su ciò che avevo fatto durante la mattinata, così tirai fuori il mio taccuino e mi misi a scrivere.

    Non mi resi conto del tempo che era passato quando fui distratto da una risata cristallina che non avevo ancora sentito. Alzai lo sguardo e la vidi.

    Il mio obiettivo era a pochi metri da me e rideva serenamente col suo capo/amico. I suoi capelli castani erano raccolti in una morbida treccia dalla quale sfuggivano delle ciocche che le incorniciavano il volto. Indossava un paio di jeans sbiaditi e una maglietta di cotone bianca, calzava le stesse scarpe da ginnastica della foto in mio possesso, erano un po' sformate ma avevano l'aria comoda.

    Mentre la guardavo annotavo queste osservazioni, tutto poteva tornarmi utile, ancora non avevo idea di come comportarmi in questo caso. Certo non avrei potuto intrufolarmi nel suo appartamento all'interno di un campus universitario, avrei di sicuro attirato l'attenzione.

    Continuavo a osservarla con la coda dell'occhio; aveva appena dato una spinta al suo amico di sempre mettendo su un finto broncio che aveva fatto scoppiare a ridere gli altri.

    -Jarv smettila… non puoi sempre prendermi in giro!- disse facendo l'offesa, le guance arrossate, l'inclinazione in basso dell'angolo sinistro della bocca e quella piccola ruga tra le sopracciglia.

    -E perché dovrei farlo- sghignazzava l'altro -è così divertente!-

    -Ufff...!- girò sui tacchi ed entrò in una stanza sul retro.

    Pensai che per oggi avevo fatto abbastanza, dovevo studiare i miei appunti e controllare che le apparecchiature che avevo piazzato funzionassero correttamente. Mi alzai e andai alla cassa a saldare il conto. Melissa tirò la somma e con un sorriso cordiale mi disse:

    -Spero di rivederla presto!-

    -Arrivederci, allora!- non sapeva cosa avrebbe comportato quello che mi aveva appena chiesto.

    Uscii dal locale ancora un po' confuso sul da farsi, ma chi lo aveva detto che i migliori piani si formavano immediatamente nella testa?

    Al momento non avevo nessuna idea su come procedere, mentre mi incamminavo verso la mia macchina calcando ancora di più la visiera del cappello sulla fronte. Una ventata più fredda mi fece rabbrividire, l'estate sembrava ancora lontana nonostante fossero i primi di maggio.

    Poi un profumo irresistibile, qualcosa che ricordava le fresie ma più fresco, più invitante, e una voce gentile.

    -Mi scusi?- gridava un timbro femminile alle mie spalle. Non poteva dire a me, nessuno mi conosceva, nessuno poteva chiamarmi; continuai per la mia strada senza voltarmi.

    Quel profumo si fece improvvisamente più intenso, mi dava quasi alla testa, poi una mano si poggiò delicatamente sulla mia spalla.

    Un brivido mi percorse velocemente la schiena.

    -Mi scusi?-

    Mi voltai e rimasi senza fiato.

    Era lei.

    Mi stava ancora toccando la spalla quando i nostri occhi entrarono in collisione.

    Non capivo, cosa ci faceva qui?

    Perché mi aveva seguito?

    Il mio sguardo si fece interrogativo. Lei arrossì violentemente e si portò una mano a coprire una guancia, mentre, nell'altra stringeva qualcosa... la riconobbi subito, era la mia agenda, i miei preziosi appunti! Il cuore iniziò a battermi all'impazzata, come avevo potuto dimenticarmi una cosa del genere?

    Dove avevo la testa?

    -Ha dimenticato questo!- mi disse allungando la mano verso

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1