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Vanezio con la V
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Vanezio con la V

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About this ebook

Nell'ultima notte dell'anno 1973 un bambino di pochi mesi viene abbandonato sulle scale della chiesa di Santa Maria in Provenzano a Siena.

Vanezio, questo il nome del protagonista, ispirato a Panezio, uno dei più famosi cavalli del Palio di Siena, si inventerà la sua famiglia ideale fra una strada e una piazza, in mezzo all'affetto di alcuni buontemponi e perdigiorno.

Sarà l'inizio di un percorso di vita dagli esiti inaspettati, nel quale si intrecciano i destini degli altri protagonisti della storia, dalla tragica fine della madre del bambino, alla sarta-janara Sunta, che a suo modo cercherà di proteggerlo, a suo padre Filippo, a Fiume, il nonno "goliardo" che per primo farà conoscere al protagonista il calore di un affetto gratuito e vero. Vicende drammatiche, talvolta scabrose, sogni e magia si incontrano nella piccola città toscana, che come ai tempi di Montaperti riunirà, stavolta in una vicenda personale, storie non solo senesi.
LanguageItaliano
Release dateAug 15, 2014
ISBN9786050317589
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    Vanezio con la V - Barbara Cucini

    Ringraziamenti

    Parte Prima

    C’era una volta un gigante. Era fatto di vento, se ne stava seduto su un prato, in mezzo al verde e ai tulipani gialli e rossi. Aveva uno strano vestito bianco, con dei fiori dorati disegnati sui polsini della giacca. Era quello strano vestito a dargli la forma di un uomo. Del viso si vedevano solo gli occhi, del colore del cielo.

    Sorrideva il gigante, ironico e sicuro. Imbrigliato com’era in quel vestito, che chiaramente non era il suo, sembrava dire a tutti, con quel suo sorriso, che nessuno può fermare il vento. Chi può saperlo meglio del vento?

    Era un sorriso bellissimo. Nessuno sa perché il gigante sorride in quel modo. 

    Lui non lo dice. Sorride e basta.

    Sabato

    La zia terrona della Lilli, come si divertiva ad apostrofarla la nipote, si chiamava Assunta, stava a Siena da quasi trent’anni. Veniva da Chianche, paesino di poche anime, affacciato sulla gola del Sabato.

    La sua casa di bambina era poco distante dai ruderi del vecchio castello medievale, del quale si conservano ancora le torri angolari cilindriche, proprio di faccia alla piazzetta sospesa sulla rupe vulcanica, sotto la quale si apre la valle e si rincorrono le dorsali delle colline circostanti, ora chiare, ora scure, a seconda che lo sguardo incontri i noceti e i castagneti o la roccia nera del monte, verso Tufo e le sue cave di zolfo.

    Aveva giocato, Assunta, nel piazzale del castello in rovina, sotto il sole cocente di agosto, fra le ortiche e le lucertole, con i suoi compagni bambini, gli stessi che qualche anno dopo avevano incominciato a guardarla di traverso, ad evitare i suoi occhi chiari e taglienti, che tutto d’un tratto facevano loro paura. Ora di anni ne aveva sessantadue. Era partita dal paese suo invecchiata, grossa e pesante, con i lunghi capelli già grigi. A Siena era Sunta, Sunta la sarta.

    Infaticabile, taciturna e schiva si era guadagnata l’affetto e la stima della gente, nella sua piccola bottega in Via del Moro, di fianco al chiostro della chiesa di San Cristoforo. Il suo negozio era una stanzetta di poco più di venti metri quadri, con un tavolo da lavoro, un divanetto a fiori rosa e la macchina da cucire Singer nera incorporata in un mobiletto di legno, dal quale usciva il filo collegato al pedale di ferro nero. Sul lato destro della porta, entrando, c’era un appendiabiti di legno, con grucce di legno. Noce. Accostate al tavolo da lavoro due sedie impagliate vecchie quanto la loro proprietaria, a vederle. Questa prima stanza era collegata da una scala alla cucina con bagno e camera, al piano di sopra, che erano da sempre la sua casa nella città toscana. Sei milioni l’aveva pagata quella piccola casetta, dieci anni prima, ed oggi già valeva molto di più. 

    Per Sunta quella casa aveva significato la libertà e una nuova vita, nessun aumento di prezzo avrebbe potuto raggiungere il valore che la sua casa-bottega aveva per lei. 

    Cuciva vestiti da quando era bambina, gliel’avevano insegnato la mamma e la nonna. All’inizio cuciva i bottoni, poi era passata al taglio delle asole, poi ai rammendi, e su su fino a imparare l’arte del taglio, del cucito e del ricamo. Con la macchina da cucire era tutta un’altra vita, ci si poteva anche campare. Menomale.

    A trentacinque anni era ancora zitella, irrimediabilmente ormai. Soffriva per le dicerie della gente ed era convinta che quelle fossero la causa del fatto che prima i ragazzi, poi gli uomini della sua età, l’avevano tenuta a distanza.

    Avevano paura, avevano paura d'a janara. E lei si era lasciata andare, poco prima dei trent’anni, era ingrassata, era diventata vecchia e brutta come una strega. 

    Ma non era una strega, lei lo sapeva, lo sapevano le donne della sua famiglia, che le avevano insegnato come si preparano le medicine con le erbe, la teriaca, rimedio per tutti i mali, come si risistemano le ossa che sono andate per sbaglio fuori posto, come si scacciano i vermi con lo zolfo e la cenere. 

    Nella sua famiglia di guaritrici ce n’erano state parecchie, il timore della gente a quel tempo era rispetto, anche se di volta in volta qualche parroco zelante provava a sabotare l’attività di famiglia con anatemi e minacce più o meno velate. La gente smetteva di bussare alla loro porta per un po’, ma poi tutto riprendeva come prima.

    I mariti erano fieri delle loro donne, e guai a chi le avesse offese anche semplicemente col sospetto, non ci sarebbe stato bisogno di nessun sortilegio per punire l’oltraggio, questo era certo. Per lei non era stato così, a volte pensava che se avesse avuto una sorella, invece che quattro fratelli, sarebbe stata meno sola e meno indifesa. 

    I fratelli erano tutti più grandi ed erano stati fortunati perché erano partiti per l’America. Due per la verità, Vito e Antonio. Giuseppe era finito a lavorare in una cava di marmo a Carrara, dove si era fermato con la nave, e da lì non si era più mosso. Era il papà della Lilli. Angelo no, non era stato fortunato: era morto a vent’anni, di pleurite, mentre era a casa in licenza, durante la guerra. Nemmeno la nonna era riuscita a salvarlo.

    E così nessun uomo era rimasto a proteggere la più piccola dalla cattiveria e dall’invidia della gente, giusto il tempo per conoscere l’amore, formare una famiglia, cominciare la vita adulta in maniera normale, in modo poi da potersi difendere da sé, da lì in avanti. La sua condizione di zitella poi, aveva peggiorato ulteriormente le cose e alimentato ancora di più le maldicenze. Assunta non riusciva a voler male a nessuno, e a un certo punto capì che men che meno doveva voler male a se stessa. Scrisse a Giuseppe: Fratello vienimi a prendere, mi raccontasti di quei signori di gran classe che avevano le cameriere, io vado a fare la cameriera nella casa di uno ricco, ma qui non ci voglio stare più

    Assunta arrivò a Siena con una raccomandazione del fratello, non da una famiglia facoltosa, ma alla casa lavoro delle sordomute, come maestra di ricamo. Prese in affitto la casa-bottega, che dopo vent’anni divenne sua.

    Liliana era l’unica nipote vicina, i figli di Vito e Antonio nemmeno parlavano l’italiano, erano americani d’America e a Siena c’erano stati una sola volta da turisti, con la famigliola al seguito e non parevano aver gradito molto la parentela con la zia sarta. Erano rimasti in città una settimana, ma lei li aveva visti soltanto all’arrivo, per la visita di cortesia. Liliana invece le voleva bene, non che venisse spesso a trovarla, ma nelle rare occasioni di incontro fra le due c’era un’intesa immediata, un capirsi con poche parole, un legame che trascendeva la frequentazione. 

    Sunta non si spostava volentieri, a volte Giuseppe era venuto a prenderla e l’aveva portata a Carrara. Sunta stava una settimana, dieci giorni dal fratello e si godeva la compagnia dei nipoti, la Lilli, Gabriele e Marco, che erano più piccoli di Liliana. Facevano delle lunghe passeggiate, i due ragazzini la seguivano volentieri e ascoltavano le sue storie. Alcune le conoscevano a memoria, ma se le facevano raccontare di nuovo. La zia voleva andare sempre al Carrione, piccolo ma potente fiume nel centro della città, si appoggiava al muretto che costeggiava la strada e guardava l’acqua scorrere. Stava anche dieci minuti senza parlare, osservando la corrente, e piano piano le si illuminava lo sguardo e a un certo punto le compariva sulla faccia un’espressione felice, come una bambina di fronte al regalo più desiderato. Marco e Gabriele restavano in silenzio, la passeggiata al Carrione era come un rito da rispettare. A loro piacevano le facce strane della zia Assunta davanti al fiume.

    - E’ un vero spettacolo!- aveva commentato Gabriele, ormai grande, in una delle ultime uscite, come se avesse riconosciuto la poesia in quei gesti sempre uguali.

    - Io penso al Sabato - diceva Sunta - non sono più tornata al mio paese dopo che la nonna è morta, e mi manca. Questo fiume qui è come un pezzo di Sabato - jamm’ - diceva, e insieme tornavano a casa.

    Era sabato quando Lilli arrivò all’improvviso a bottega, con la faccia stravolta, nonostante cercasse di apparire normale. Aveva bisogno di un favore, ma Sunta capì subito che non era uno dei soliti piaceri che le chiedeva, che c’era dietro qualcosa di grosso e per lei estremamente importante. Ebbe paura, istintivamente, prima ancora che Liliana le raccontasse cos’era successo. Liliana si sedette sul divanetto rosa, scostò con cura un paio di camicie imbastite dal cuscino e prese in mano la tazza di caffè caldo che la zia le porgeva.

    - Zia mi devi aiutare. Non si tratta di me, ma fai conto che lo sia. La mia amica Giulia, te la ricordi? Sta passando l’inferno, ci ho pensato e ripensato, è l’unica soluzione, deve venire via da casa in tutti i modi, e in fretta!

    - Aspetta ‘na criatura?

    - Sì, ma è un casino, è sola, completamente sola, non ha un lavoro, se il padre lo scopre l’ammazza garantito. Mi devi aiutare... - Come ti devo aiutare Lilli?- lo sguardo di Sunta era fisso sulla nipote, diceva più di mille parole, diceva non mi chiedere pozioni o unguenti, non me li chiedere, e al tempo stesso era un invito a parlare, parlare presto, fatti vedere, fammi vedere chi sei... Non avrebbe mai preparato rimedi del genere, ma una richiesta simile da parte della nipote, l’avrebbe delusa e ferita profondamente.

    La stanza era scomparsa, Liliana era persa in quegli occhi, si erano dilatati all’infinito, sembrava che tutto contenessero. Percepiva che lì si sarebbe giocato il suo futuro rapporto con la zia, ma non capiva la determinazione e la paura di quello sguardo, non ne capiva il perché. - Zia prendi la Giulia, solo per un po’, falla lavorare, intanto prendiamo tempo e cerchiamo una soluzione per dopo. So che non hai bisogno di aiutanti, so che sei abituata a star sola, ma so anche che riesci a capirla, se c’è qualcuno che può capirla sei tu...

    Vita, con la V

    Vanezio aprì un occhio. Era già mattina, percepiva chiaramente la luce del sole attraverso le persiane chiuse. La voce di suor Amalia si faceva sempre più vicina su per le scale, mentre lo chiamava. Niente da fare, toccava alzarsi. Vanezio aprì anche l’altro occhio, un secondo prima che la suora, nel suo abito nero e svolazzante, entrasse dalla porta della cameretta e, rapidissima, raggiungesse la finestra per aprirla. La luce inondò la stanza e gli fece male agli occhi. Gli occhi di Vanezio non vedevano i colori, il suo mondo, da che aveva memoria, era sempre stato bianco nero e grigio, più chiaro o più scuro, ma mai a colori. Le suore lo avevano trovato una fredda sera di dicembre, avvolto in un fagotto, proprio davanti alla Collegiata di Santa Maria in Provenzano. Aveva appena iniziato a nevicare, era stato davvero un miracolo che le tre sorelle si trovassero ad attraversare la piazza, dopo la veglia di preghiera nella vicina chiesa di San Francesco. Non era quella la strada più diretta per il loro convento, dall’altra parte della città. Ma si erano lasciate tentare, chissà come è bella la facciata bianca di Provenzano con la neve che scende! Si fa prima da via dei Rossi, però. Invece passarono da lì, e da lì ripartirono in tutta fretta col loro tesoro verso il Pronto Soccorso di Piazza Duomo. Il pediatra non c’era a quell’ora, lo andarono a chiamare; insieme al pediatra arrivarono anche i carabinieri. Il bambino aveva, dissero i dottori, sì e no sette mesi, pesava sette chili, misurava 72 centimetri. Non presentava problemi di rilievo se non una lieve ipotermia, alla quale venne posto subito rimedio. Se le suore fossero arrivate qualche minuto prima probabilmente avrebbero visto chi l’aveva lasciato. A parte la coperta marrone a bordi neri di lana grezza nella quale era avvolto, e sulla quale si leggevano i segni lasciati dalla piastra di un ferro da stiro, il bambino era vestito con una tutina fatta ai ferri, a righe bianche e rosse, quasi fosse stato un decoro natalizio. Capelli in testa non ne aveva e gli occhi erano grigio scuro, profondi come la notte. Li spalancò sul viso di suor Amalia quegli occhi, quan do lo prese in braccio. E lei, la più giovane delle tre suore, non scordò mai più quello sguardo, se lo tenne dentro tutta la vita. Vanezio invece lo tenne per alcuni anni. Fra la tutina a righe e la coperta di lana c’era un foglietto, scritto con grafia incerta e grossolana. A Vanezio voletelo bene piccinino che la mamma un ce la e nemmeno il babbo. Vanezio si mise a sedere sul letto e si stiracchiò. Non aveva proprio voglia di alzarsi, non aveva voglia di andare a scuola, la scuola non gli piaceva, lo annoiava. Faceva la seconda elementare, alla scuola pubblica. Quattro ore tutte le mattine, ma che ci andava a fare? Ormai a scrivere aveva imparato e sapeva contare fino dopo mille! Ma suor Amalia diceva che era per il suo bene, che si doveva impegnare.

    - Impara ad amare quello che fai - aveva sentito questa frase centinaia di volte.

    - Ma se una cosa non mi piace come faccio ad amarla? Se un mi garba un mi garba, scusa!

    E lì cominciava la predica sul futuro radioso che lo attendeva se si fosse comportato diligentemente e rispettosamente, sulla brutta sorte che gli sarebbe toccata invece se avesse deciso di restare ignorante.

    - E poi Vanezio a scuola ci devi andare, è un tuo preciso obbligo. Se te la fai piacere duri anche meno fatica. Impegnati e poi vedrai!

    - Vai in bagno a lavarti, svelto - disse la suora, alzando le coperte - poi torna qua che diciamo le preghiere. I vestiti sono sullo sgabello. Pulisci le orecchie, mi raccomando. Sorrise suor Amalia mentre guardava la figura magra ed esile uscire dalla stanza, la sua andatura sciancata e svogliata, con le spalle curve in avanti e le braccia penzoloni. Com’era cambiato! Da piccolo era paffutello, verso l’anno di età lo chiamavano il gladiatore, aveva dei cosciotti pieni e sodi. Cordoro lo chiamava così. Cordoro amava i soprannomi. E adesso quegli stinchi secchi e infreddoliti non andavano più d’accordo col vecchio soprannome. Anche gli occhi avevano cambiato colore verso l’anno di età, il grigio aveva lasciato il posto all’azzurro. Del grigio di origine avevano mantenuto il magnetismo, nel viso magro adesso più che mai si vedevano solo quelli. Aveva la pupilla sottilissima Vanezio, i suoi sembravano gli occhi di un gatto. L’acromatopsia l’avevano scoperta quando aveva quattro anni e mezzo, all’asilo, coi disegni dai colori tutti sbagliati. I nomi che lui dava ai colori non corrispondevano al vero e mai coincidevano, ma non era daltonismo. Sembrava un paradosso, del viso di Vanezio si notava il colore, l’azzurro particolare degli occhi, freddo e intenso come il ghiaccio azzurro degli iceberg col cielo coperto, quasi fosforescente nelle giornate di sole. Il viso di Vanezio erano gli occhi, non si faceva più caso al resto se lo si guardava in faccia. Dopo poco Vanezio fece capolino dalla porta aperta della camera e si avvicinò al letto. Si inginocchiò rivolto verso il quadro appeso sopra alla testiera del letto ad una piazza, una Madonna ricamata da Suor Benedetta, una Madonna col bambino. Quella era la sua mamma e il cittino che teneva in braccio era lui da piccolo. Anche se la suora non voleva sentirglielo dire. - Il bambino

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