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L'incredibile storia di Alex Z.
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Ebook365 pages4 hours

L'incredibile storia di Alex Z.

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About this ebook

Suo padre si scopò sua zia.

Lui incontrò una della sua età.

Ma prima si fece l'amica.

Poi si fece la madre.

L'incredibile storia di Alex Z. non è solo un romanzo.

È musica. È una rivista. È una storia d’amore, è un film. È vita.

E non è solo la storia a essere incredibile. È anche come è scritta. Uno dei romanzi più classici e innovativi. Tipo scritto male, quindi scritto bene. Come la bellezza della natura deve avere quel che di selvaggio.

Forse uno degli ultimi più grandi romanzi del XX secolo. Anzi, incredibile, appunto. Come l'autore. Alessandro Ernandez.

E questo è solo il primo.
LanguageItaliano
Release dateMay 15, 2014
ISBN9786050304503
L'incredibile storia di Alex Z.

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    L'incredibile storia di Alex Z. - Alessandro Ernandez

    mai.»

    Avevo più o meno 3 anni quando dissi a mio padre: «quand je serai grand et tu seras petit, je vais te massacrer (quando io sarò grande e tu diventerai piccolo, ti massacrerò).»

    Mio padre un giorno mi disse: «Tu morirai giovane».

    I miei ci tenevano a che diventassi qualcuno. Non riuscivano però a concepire che potessi diventare qualcuno in un campo diverso da quello in cui mi avevano immaginato. Non sono mai stato un sognatore. Raramente i bambini lo sono. Lo diventano adolescenti. Tuttavia, ciò che agli altri, più flemmatici, si presentava come un traguardo, per me era solo un punto di passaggio.

    Non conserviamo niente di ciò che non riteniamo importante. Ci sono avvenimenti nella nostra vita a cui non sappiamo sul momento dare il giusto senso, ma di cui non possiamo nel contempo trascurare la portata. Ma nessun episodio della nostra vita dovrebbe essere così squallido al punto da non meritare il nostro ricordo.

    Forse non morirò giovane, forse semplicemente finirò male. Dovrebbe essere questo l’esito delle mie prodezze? Certo, ma dopo essere nati, fino a che punto si è colpevoli delle proprie azioni?

    Ho sempre pensato che amore e morte siano i veri misteri e gli unici tormenti della nostra vita.

    Ho sempre pensato che non si ama per capire che cos’è l’amore, ma amando capiamo cosa non siamo se non amiamo.

    Che non serve a niente avere il resto del mondo quando ti manca l’unica cosa che vuoi.

    Vivere la vita attimo per attimo, ricordandosi che ogni attimo potrebbe essere l’ultimo

    L’amore è ciò per cui si vive, ciò di cui si muore.

    Mi piace pensare di aver visto passare la luce

    Potrò sbagliare la mia morte, non la mia vita.

    Perché, se proprio devo vivere, sarà soltanto a queste condizioni. (Ma nella versione inedita del mio pensiero, era perché era in quel modo, che volevo vivere)

    Abitavamo in Rue de Paris, al 170 bis, a Villeneuve St. Georges. La strada che costeggia la ferrovia e che, fermata dopo fermata, raggiunge tutte le città nuove dei nomi dei santi. Per un periodo avevamo anche abitato ad Orly, ma i miei ricordi non partono che dalla casa dalla quale sentivo i treni.

    Ero già nato quando i miei genitori si sposarono, tuttavia il loro è sempre stato un matrimonio d’amore. Proprio questo amore non aveva avuto la forza di resistere fino all’altare, macchiandosi così irrimediabilmente, tale da sembrare un matrimonio d’interesse. Sebbene i miei nonni materni, che erano all’antica, fossero in un primo momento alquanto contrari alla storia dei miei genitori, perché non vedevano mio padre di buon occhio, finirono per approvarla. Mi hanno sempre detto che la mia nascita, che per il fatto di essere avvenuta prima del matrimonio sembrava dovesse far precipitare i rapporti tra i miei e i miei nonni, li aveva convinti sulla serietà di mio padre.

    In realtà mio padre un giorno mi disse che aveva fatto capire a mio nonno che se non avesse accettato la loro storia non gli avrebbe più fatto rivedere la figlia. Mia nonna supplicò mio nonno di non procurarle un dispiacere così grande. Per il forte potere di persuasione che hanno le donne, mio nonno cedette.

    Oggi, scrivendo questo, mi chiedo chi sia la donna davanti alla quale deporrò il mio orgoglio.

    Sono nato il 15 gennaio 1975, 205 anni dopo la nascita di Beethoven.

    I numeri della mia data di nascita sono tutti dispari

    Mio padre era francese, mia madre italiana. In Francia i colleghi di mio padre lo chiamavano il siciliano; qui in Italia, il francese. Avevamo una Renault, che serviva a mio padre per andare a lavorare. La stessa macchina che usava mia madre la mattina per accompagnarmi a scuola, quando pioveva. Era bianca. Ho sempre amato questa macchina, forse per la leva del cambio. Credo che un giorno, quando dovrò comprare una macchina, comprerò una R4. Bianca.

    Ricordo poco mio padre e mia madre nella mia infanzia. Mia madre non era la donna più bella del mondo. Non era neanche la mamma più bella del mondo, come dicono i bambini nel loro limitato gergo, escludendo senza ragioni che la loro madre sia anche una donna. No, mia madre non lo era. Ma era mia madre. Smise di lavorare dopo la mia nascita. Tra l’altro mio padre non voleva che mia madre lavorasse.

    Mio padre la mattina presto andava al lavoro, e non tornava a casa che la sera tardi. Le mie avventure con lui sono comunque attestate da delle fotografie nelle quali non posso negare di esserci. Non ricordo tuttavia di essere stato presente emotivamente a tali circostanze. In effetti, ancora oggi mi chiedo cosa rappresentino i genitori per un neonato, dal momento che gli è impossibile capire la loro importanza per lui. Un bambino è il prodotto di volontà adulte. Con questo, voglio dire che non avrei amato meno due estranei che non erano i miei genitori se mi avessero fatto credere di esserlo.

    Il fatto è che, quando da neonato i miei genitori mi fecero sentire la loro presenza, io non potevo rendermene conto; ma da adolescente, quando ne ebbi realmente bisogno, non mi fu concessa. Insomma, le balle sulle crisi adolescenziali. D’altra parte credo che mi stessero inconsciamente abituando a fare a meno di loro, e anche loro dovevano pur soffrire per questo. Probabilmente doveva essere il preludio a quella fase inevitabile della vita che prepara in sordina la naturale separazione tra genitori e figli. Ma ne vale la pena?

    Più tardi scoprii in Nietzsche

    questo paradossale controsenso della vita, che la sociologia archivia come crisi familiare, che fa in qualche modo sentire colpevoli genitori e figli, ma che è una delle verità più nitide che siano mai state dette: si è imparentati di meno con i propri genitori. Se fosse vero il contrario si vivrebbe sempre con mamma e papà.

    Un paradosso non ammette la sua verifica? Forse qualcuno ha ringraziato Dio per avergli mandato Nietzsche.

    Quell’episodio con i miei nonni non fu l’unico della travagliata storia dei miei. Né, devo

    dire, fu il primo. Già precedentemente c’erano state delle forti tensioni tra mio padre e mia madre. Una sera, senza volerlo, dovevo apprendere da mia sorella delle cose su mio padre e mia madre che mi rattristarono, con lo stupore di chi non vuol credere ai propri occhi.

    All’epoca in cui queste cose mi furono dette, stavo a Palermo, ambiance di questa storia e metropoli suburbana delle mie fantasticherie di grande città, dove tutto è permesso e tutto è possibile, dove smog gas e cielo grigio diventano poesia agli occhi di qualche stralunato, solo per aver visto una fotografia cartolinata dal fotogramma accelerato.

    A Palermo – perché a T… non c’era l’università – fingevo di studiare lingue alla facoltà di Lettere e Filosofia, sebbene mio padre avrebbe voluto assolutamente che io mi iscrivessi in ingegneria, per quella assurda smania di grandezza che tutti gli uomini hanno, e che per lui doveva compiersi tramite me, dal momento che lui non c’era riuscito. Aveva atteso con impazienza la fine del liceo per quel momento, ne avrebbe gustato l’apoteosi. Lì il suo compito educativo sarebbe finito. Il resto, cioè la mia vita, si trattava di una formalità che per me era un dovere.

    Mia sorella era venuta da T…, una località in riva al mare, in Sicilia, dove i miei si erano trasferiti quando avevo ancora sette anni. Giudicavano Parigi troppo caotica, invivibile.

    Era una sera di inizio marzo, mi trovavo nella mia stanza. Mia sorella era venuta per fare un concorso. Venne a bussare alla porta; voleva che le prestassi non so più cosa. Senza dare troppo rilievo alle mie parole, le chiesi come stavano papà e mamma, attendendomi una risposta scontata. Invece mia sorella non poteva aspettarsi domanda più azzeccata, e non vedeva l’ora di mettermi al corrente di ciò che sarei stato sorpreso di sapere.

    I miei non attraversavano un periodo molto felice. C’erano state le solite questioni di famiglia, mio padre aveva avuto delle discussioni con un mio zio, marito della sorella di mia madre.

    Mio padre aveva ragione. Mia madre aveva detto di lasciar perdere, di chiudere un occhio. Tra l’altro mio zio aveva ammesso il suo torto, ma l’orgoglio maschile lo bloccava dal chiedere scusa direttamente a mio padre; così, credette di potersi scusare tacendo. Ma mio padre, che preferisce che gli si sputi in faccia piuttosto che un complimento non detto, non digerì molto bene il modo di fare di mio zio, sebbene gli fossero state spiegate le intenzioni.

    Mia zia, infatti, aveva chiamato mia madre al telefono (0923/564017, numero esilarante di alcune telefonate dei miei ex compagni di scuola che volevano sapere i compiti e come si facevano, mai compagne, perché?), e le aveva raccontato come stavano le cose. Mia madre pregò mio padre di capire le debolezze di quell’uomo. Mio padre replicò che non era un atteggiamento da uomo stare zitti. Interpretò il mutismo di mio zio come una mancanza di rispetto. Non ne volle più sapere. Così, all’insistenza di mia madre, velato dal rammarico di non trovarla come sua alleata, non tenne più. Accusò mia madre di difendere la sua famiglia, anziché schierarsi dalla sua parte.

    Seguirono giorni di silenzio.

    In uno di questi giorni, mentre mio padre era ancora al lavoro, mia madre scoppiò a sua volta. Tuttavia, al contrario di mio padre, la sua ira trovava sfogo attraverso la parola. Se la prese con tutti i parenti di mio padre. Fu una diffamazione.

    Per mia sorella quello fu uno dei periodi più importanti della sua vita. Quello in cui una madre scopre nella figlia un’amica. Felice di aver trovato una confidente tutta particolare, mia madre cominciò a raccontarle chi era la ragazza che stava in lei quando non era ancora nostra madre.

    Così venni a sapere da mia sorella che, a parte i piccoli flirt adolescenziali, mia madre aveva avuto delle storie prima di conoscere mio padre. Ed anche piuttosto serie. Mia madre aveva conosciuto un uomo, ed era rimasta incinta. Scoperto che quest’uomo la tradiva, lo lasciò. Mia madre abortì. Probabilmente non voleva che suo figlio fosse orfano ancor prima di nascere, oppure che avesse un padre bastardo. In tutti i sensi. Conobbe un altro uomo, e con questo non andò diversamente dal primo. Fortunatamente, questa volta non dovette abortire.

    Infine conobbe mio padre, che era reduce da infinite storie dongiovannesche, delle quali la più celebre nei suoi racconti serali della mia prima giovinezza, è quella di una ragazza che si era fatta mettere incinta da un tizio, per incastrare mio padre, e che una sera era venuta a bussare alla sua porta. Mio padre era stato a letto con lei, ma era sicuro di non essere stato lui (?). Rifilò un pugno alla ragazza, che non si fece più rivedere. Non so se quella ragazza dicesse la verità. Eppure ho buone ragioni per pensare di avere un fratello o un’altra sorella in qualche parte della Francia.

    Amore a prima vista. Mio padre e mia madre si innamorarono subito. È questo che mi hanno sempre raccontato. Io fui subito concepito. Ed è qui che veniva la parte sconvolgente del racconto di mia sorella.

    Accadde, quando non ero ancora nato – stavamo ancora in Francia –, che un altro mio zio, fratello di mio padre, che aveva sposato una donna ebrea, era stato invitato ad un matrimonio ebraico. A quel matrimonio erano stati invitati anche i miei. Mia madre, da buona cattolica, non volle andarci. Mio padre, per non mancare verso suo fratello ci andò da solo, un po’ seccato che mia madre avesse rifiutato.

    Mia madre raccontò a mia sorella che a quella festa, per la felicità, si ubriacarono tutti, chi più, chi meno. Fecero un’orgia. Si dice che mio padre sia andato a letto con mia zia e le due sorelle di mia zia. Mio zio si faceva masturbare da sua suocera. Quando tutti si ripresero dalla sbronza, mia zia andò a dire a mia madre che mio padre ci sapeva fare. Provocò uno scandalo. Mia madre volle avere ragioni da mio padre. Negò tutto. Mia madre lo voleva lasciare. Tutti i suoi parenti cercarono di convincerla a perdonare. Tra l’altro mia madre voleva abortire. Sarei andato a raggiungere il mio fratello non nato. Mia zia, la sorella di mia madre, che era l’unica a conoscenza del suo primo aborto, riuscì a dissuaderla dalla sua decisione. Ma mia madre voleva lasciare ugualmente mio padre. Ancora una volta mia zia riuscì nell’impresa di convincere mia madre. Questo figlio sarebbe cresciuto senza padre. Forse mia madre si rassegnò al fatto che tutti gli uomini sono uguali e che, se non avesse sposato mio padre, sarebbe finita comunque con uno come lui.

    Lo perdonò.

    Che fosse veramente successo questo o meno, a quella festa, è un mistero che conoscono i miei zii e mio padre.

    E mentre mia sorella mi raccontava tutte queste cose, dicevo a me stesso come era strano davvero, come si apprendono certe cose, nella vita. Mia sorella poi, chiese a mia madre come mio padre poteva aver fatto una cosa del genere. Al che mia madre, nella sua placida filosofia proverbiosa, aveva risposto con uno di quei misteriosi proverbi spiegavita che quando li senti ti uccidono: l’occasione fa l’uomo ladro.

    Così mia madre si era sfogata con mia sorella, mia sorella aveva appagato il suo eccitamento con me. Chissà perché le donne hanno questa forte e profonda necessità di dover parlare. Certo, ero rimasto un po’ stupito, senza parole, a quelle di mia sorella. Sicché, volli sapere se ciò che mi aveva raccontato corrispondeva veramente alla verità:

    «Sono proprio vere queste cose?», le chiesi. [continua verso la fine del libro]

    Di questa storia, a me, rimase e rimane, un’intensa riflessione.

    Comunque fosse andata realmente, e per quanto possa avere influito su di me una rivelazione del genere, oggi non posso avere dei miei un’opinione diversa da quella che avevo di loro qualche secondo prima di sapere tutto ciò. Mio padre non parlò a mio zio per ben tredici anni. Quando decise che la pena era scontata, ritornò lui da loro. Fu la prima volta che vidi mio zio. Avevo tredici anni. Quando mio padre mi ordinò di salutare, dissi: «Buonasera, signore». Poi mio padre mi disse che quel «signore» era suo fratello. Mio zio. E la signora che era con lui era mia zia. Notai che non avevo cugini (li avevano accompagnati dai genitori di mia zia, suocera pugnettara e maritino?). Mio padre e mio zio mi guardavano. Tutti mi guardavano. Aspettavano una risposta. Con la faccia meravigliata che assunsi in seguito a quella nuova notizia, proferii queste parole:

    «Se voi due siete d’accordo, per me va bene.»

    Miracolo delle sit-com americane. Nella giovinezza si è troppo presi, come in una partita di calcio si ignora ciò che succede fuori dallo stadio, dal vivere la propria vita appena scoperta, per dare importanza a tutto ciò che non ha a che fare con essa. Allo stesso modo, pensai che cosa questo nuovo zio poteva aggiungere alla mia vita. Non trovai nulla che di ciò che volevo. Di conseguenza, non mi diedi cura di dare una spiegazione a quella straordinaria notizia. Così, quando chiesi loro perché era dovuto stare via per tutto quel tempo, mi accontentai di accettare tutto quanto dicessero.

    Oggi ne conosco il motivo, ma non ho più sete di domande di quella suggestiva sera, in cui si consumò quella scena.

    Storie di altri tempi. Storie di quei famosi happy days. Ma di cui non mi dispiace non averne vissuto le emozioni.

    Ripenso a tutte le volte che mio padre mi spiegava i fatti della vita, i suoi modi di vedere le cose. Gli ho sempre creduto. Perché pensavo che dicesse quelle cose in maniera obiettiva, come migliore punto di vista per un fatto. Non ho mai pensato che un giorno avrei potuto dubitare delle parole di mio padre. Oggi, mi chiedo quanto valga la parola di un uomo, anche se questa persona è mio padre.

    Oggi potrei sapere la verità. Basterebbe chiederlo.

    Ma dentro di me, un bambino con gli occhi rossi e lucidi mi tira per la manica, e mi dice di condurlo lontano da quella domanda.

    Ripenso a quando, da bambino, costruivo storie immaginarie a casa dei miei zii. Mi vedevo in casa di questi zii che non avevo conosciuto per molto tempo. Se allora c’era un po’ di malinconia in quella rassegnazione, dopo il racconto di mia sorella, sono felice di aver vissuto con i miei (!).

    Non l’ho mai chiesto a mia madre; se aveva fatto altrettanto con mio padre.

    (i miei pensieri fluttuanti di quando, passando davanti alla camera da letto, trovavo i miei avvinghiati, certe domeniche mattine, sveglio presto perché non c’era scuola)

    Ma ero appena un bambino.

    Per quanto l’età dei bambini possa essere insignificante, è raro che si cresca senza che neanche un episodio della nostra infanzia abbia rappresentato qualcosa per noi.

    Il mio.

    Un giorno mi dissero che un giorno sarei diventato grande. Mi misi a piangere. Non volevo crescere più. Non volevo diventare grande.

    Accadde così.

    Da qualche tempo era ricominciato l’asilo, dopo le vacanze della pausa estiva. Avevo ritrovato il mio amico Pierre, che prendevo in giro per la sua omonimia con l’amichetto di Heidi, cosa che a lui non piaceva molto. Ma era abbastanza maturo per non dare peso alle mie frecciatine.

    Da quando era iniziato, avevo notato un bambino grassoccio, con le mani tozze, alto una testa più di me. Aveva le unghie sporche, i capelli sempre spettinati. La sua faccia non mi piaceva per niente. La sua brutta figura, il suo modo di comportarsi presuntuoso, la sua arroganza, mi fecero pensare ad uno di quei grotteschi personaggi dei cartoni animati giapponesi. Non piaceva neanche a Pierre. Parlavamo di lui come di un criminale. Spingemmo la crudeltà fino a giudicarlo un poco di buono, che non avrebbe certo finito bene i suoi giorni. L’infanzia ignora la pietà. Così, senza mai avvicinarlo, lo tenevamo d’occhio. Sfortunatamente, un giorno non potei evitare di incontrarlo.

    Eravamo nel cortile, durante la ricreazione. Non si deve credere che l’asilo sia tutto il giorno un divertimento. Durante la giornata i bambini sono costretti a tutte le attività ricreative che gli impongono le maestre. Giocare per loro è un dovere. «Gioca con i cubi». Ma se uno con i cubi non ci vuole giocare? Perciò la ricreazione è veramente uno svago. Stavo aspettando Pierre, che era andato al bagno, quando mi vidi arrivare davanti il bambino tanto discusso. Era accompagnato da altri due bambini. Erano i suoi vicari. Era un agguato. Iniziò un discorso tutto suo:

    «Pierre mi ha detto che ti faccio antipatia.»

    Gli dissi che era in errore, e che se aveva voglia di litigare oggi era il suo giorno fortunato.

    «Lo sai che sono più grosso di te, vero?»

    «Certo che lo so, sei tanto grosso che uno ti vede lontano un chilometro.»

    Scoprii il concetto della distanza. Il sorriso si cancellò dal suo volto.

    «E lo sai perché sono tanto grosso, io?»

    «Certo che lo so, perché mangi come un maiale.»

    I due babbei risero. Con uno sguardo irritato li fece smettere. Era stato ferito il suo onore, e probabilmente era la prima volta che qualcuno aveva osato rivolgersi a lui così impunemente. Era considerato il bambino più forte dell’asilo. Doveva difendere la sua reputazione.

    Riprese fieramente a sorridere, e mi guardava fisso. Io subivo in silenzio il suo sorriso malizioso. Già già. Un sorriso così non prometteva niente di buono. Finalmente parlò:

    «È vero: io mangio tanto. Però io un giorno diventerò grande, invece tu resterai sempre piccolo, non crescerai mai.»

    Dovevano averglielo detto a casa, per farlo mangiare in un momento in cui non voleva. (Mangia, così diventi grande). Avevo gli occhi gonfi dalle lacrime. Singhiozzavo. Non era vero, non poteva essere vero…

    «Non è vero! tu non diventerai mai grande, tu sei un bambino bugiardo!»

    Mi scaraventai contro di lui e lo afferrai per il grembiule. Lui si divincolò. Mi strattonò per il braccio, mentre io tentavo di colpirlo, strappandomi il grembiule. Caddi per terra, in una pozzanghera che la pioggia del giorno prima aveva formato. Rimasi per terra. I tre bravi si allontanarono, ridendo e prendendomi in giro.

    Ce l’avevo con il mondo. Ero stato tradito, preso in giro. Avrei urlato lo scandalo. Troppo intelligente per capire che se quel bambino fosse cresciuto anche io sarei cresciuto, promisi a me stesso che se anche mi avessero costretto non sarei cresciuto per niente al mondo, e che se volevo restare bambino, avevo tutto il diritto di farlo. La mia ingenuità mi dettava parole assurde. Nel mio candore non potevo certo prevedere che un giorno avrei fatto di tutto per staccarmi il più velocemente possibile dall’infanzia, nel momento in cui già l’adolescenza mi avrebbe mostrato nuove e più seducenti attrazioni. Ma in quella circostanza pensavo solo a riscattarmi. Dovevo assolutamente rifarmi.

    Per un quarto d’ora quindi pensai bene alla battuta che mi ripromettevo di dire al pallone gonfiato. Poco dopo ritornai. Avevo smesso di piangere, ma avevo ancora gli occhi lucidi.

    Caparbiamente mi presentai davanti a lui e gli dissi che se un giorno fossimo diventati grandi per davvero io sarei stato sempre più piccolo di lui, ma ciò non mi avrebbe impedito di rompergli il muso. Si misero a ridere.

    Ancora oggi non riesco a capacitarmi di come mi sia cacciato in quella situazione.

    All’uscita (la mattina mi accompagnava la mamma in macchina) il pulmino mi lasciò davanti casa mia. Pensai alla sgridata che mi sarei beccato quando, rincasando, mia madre avrebbe visto come ero conciato.

    Mia madre mi stava già aspettando davanti la porta, perché aveva sentito il pulmino arrivare. «Ma cos’hai combinato? Guarda, hai tutto il grembiule sporco». Quando le spiegai l’accaduto, andò su tutte le furie. Si stupì poi che nessuno all’asilo si era degnato di avvertirla, come avrebbero dovuto fare, anche se non fosse successo nulla. Tale negligenza la contrariò. La vittima delle sue sfuriate era una certa direttrice. Non capivo bene cosa c’entrasse con la storia che le avevo appena raccontato. Non conoscevo questa signora, ma a mio modo di vedere doveva aver fatto qualcosa di molto grave, certamente di più di quella che avevo fatto io, perché non avevo mai visto mia madre arrabbiata in quel modo. Tuttavia non tentai di spiegarmi che relazione potesse avere questa signora con la mia storia. Ero contento che per una volta non mi si rimproverasse. Abituato a mio padre che non perdeva mai occasione di darmele per colpe dei miei cugini, giacché a suo avviso ciò doveva servirmi da monito anche se non avevo fatto niente, ignoravo che per una volta un’altra persona – la direttrice – avrebbe pagato per me.

    Il giorno dopo non andai all’asilo. Ci andò mia madre, invece, dopo avermi lasciato da mia zia, l’unica sorella di mio padre, che all’epoca stava a Créteil, e che io chiamavo zia pomodoro, tata tomate, nel testo originale della mia infanzia francese. A volte restavo a dormire a casa sua, mi svegliavo la notte e, dopo essere passato per il frigorifero a prendere i pomodori pelati, glieli spappolavo sulla

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