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Naufragi
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Naufragi

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L'epopea della conquista del Nuovo Mondo nel racconto dell'unico conquistador che non conquistò mai nulla, ma che visse quasi dieci anni in balia degli Indios, attraversando a piedi da costa a costa gli odierni Stati Uniti d'America. Partito dalla Florida nel 1527, Cabeza de Vaca raggiunse il Messico, ritrovando gli Spagnoli, solo nel 1536 e da allora fu una delle voci che si levarono più insistenti in favore di una coesistenza pacifica con i nativi. I Naufragi sono la cronaca in prima persona di quella straordinaria ed incredibile avventura. Il testo è presentato nella preziosa traduzione dell'umanista veneto Giovan Battista Ramusio, contemporaneo di Cabeza de Vaca.
A cura di Daniele Lucchini.
LanguageItaliano
PublisherFinisterrae
Release dateAug 17, 2015
ISBN9781329481619
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    Naufragi - Álvar Nuñez Cabeza De Vaca

    di Álvar Nuñez Cabeza de Vaca

    Colophon

    Finisterrae 9

    Titolo originale dell’opera: Naufragios

    Prima pubblicazione: Zamora, 1542

    Prima volta in Finisterrae: 2008

    Versione italiana di Giovan Battista Ramusio

    A cura di Daniele Lucchini

    In copertina: Daniele Lucchini

    Un mondo nuovo, 2001 (particolare)

    © 2008 Daniele Lucchini, Mantova

    www.librifinisterrae.com

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9781329481619

    Epigrafe

    Camminare non è semplicemente terapeutico per l'individuo, ma è un'attività poetica che può guarire il mondo dai suoi mali.

    Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?

    Prefazione

    Álvar Nuñez Cabeza de Vaca fu probabilmente l'unico conquistador a non avere mai conquistato nulla e ad essere stato anzi alla mercé degli Indios per quasi dieci anni. Già abbastanza per farne un personaggio straordinario, ma la sua grandezza sta anche in motivi ben più nobili. Esploratore indefesso, curioso, dotato di incomparabili pazienza e capacità di sopportare le disavventure, rassegnato e fiducioso ad un tempo nei disegni della Provvidenza, Cabeza de Vaca fu quasi un novello Ulisse per il quale la scoperta e la comprensione di quell'inimmaginabile mondo sotto gli alieni cieli americani finì per venire prima di ogni altra considerazione.

    Nato tra il 1490 e il 1500 a Jerez de la Frontera, per altri a Siviglia, in Andalusia, da famiglia di alto lignaggio e di tradizione militare e marinara, il suo destino non poté non inserirsi nella scia delle grandi esplorazioni oceaniche dell'epoca. Ben poco si sa della sua giovinezza, ma nel 1527 lo si trova, con il ruolo di tesoriere maggiore, al seguito della spedizione guidata da Pánfilo de Narváez allo scopo di esplorare e conquistare l'interno della Florida. In realtà l'inettitudine del comandante castigliano trasformò l'impresa in una tragica disfatta senza ritorno: tutti gli oltre trecento uomini ai suoi ordini, appena giunti sulla costa, perirono tra naufragi, malattie, stenti e agguati degli indigeni. Tutti all'infuori di quattro: Cabeza de Vaca, gli hidalgos Dorantes e Castillo e il moro convertito Estebanico. In un impensabile viaggio a piedi, nell'arco di oltre nove anni e sempre in balia dei nativi, essi attraversarono da costa a costa l'attuale sud degli Stati Uniti, fino a raggiungere nel 1536 il Messico, dove ritrovarono finalmente gli Spagnoli. Rientrato in Europa, Álvar Nuñez diede conto della sua incredibile avventura all'imperatore Carlo V nella relazione nota con il titolo di Naufragi.

    Alla fine del 1540 il sovrano lo rimandò nelle Indie come governatore della regione del Rio de la Plata. Giunto all'immenso estuario del fiume, il Nostro decise di risalire a piedi nell'entroterra per esplorare la zona. Il conseguente ritardo di quasi un anno nell'insediamento alla carica assegnatagli e la benevolenza nei confronti degli indigeni fecero sorgere forti malumori, che in non molto si risolsero con un colpo di mano da parte degli alti gradi spagnoli. L'ormai ex governatore fu imprigionato e rimpatriato con le accuse, montate ad arte, di abuso di potere e di ostilità alla corona; la loro gravità era tale che, una volta al di qua dell'oceano, fu addirittura confinato ad Orano, nell'odierna Algeria, per essere riabilitato solo dopo otto anni da Filippo II, erede di Carlo V.

    Neppure dell'ultimo periodo si hanno notizie certe: pare morisse in miseria a Siviglia dopo il 1557.

    L'epopea della Conquista, non solo brutalità

    L'immaginario della Conquista è da sempre tinto di toni cupi; grande enfasi si dà, soprattutto oggi in epoca di enorme confusione culturale, alla sanguinaria e spietata rapacità degli Spagnoli. E certo, benché essi non arrivassero necessariamente tra popolazioni pacifiche e bonarie, molti episodi devono aprire lo spazio a importanti riflessioni. Tuttavia sarebbe un grave errore storico ignorare quanto il dibattito sull'espansione nel Nuovo Mondo fosse vivo e aspro già tra gli stessi protagonisti.

    Se da un lato personaggi come Cortés o Pizarro bene incarnarono il tipo dell'uomo d'armi che non si ferma davanti a nulla pur di arrivare a sottomettere e a far bottino, dall'altro proprio uomini come Cabeza de Vaca o Bartolomé de las Casas fin da subito condannarono apertamente la via degli hidalgos e prospettarono la necessità di una via pacifica, fondata sulla capacità di persuasione più che sul filo della spada.

    Possiamo facilmente immaginare che la differente sensibilità del Nostro sia stata acuita dalla sua straordinaria esperienza; per lui la comprensione degli indigeni era addirittura la sola speranza di sopravvivenza negli anni in cui ne fu dapprima schiavo e poi compagno di peregrinazioni. E tuttavia la lucidità delle osservazioni contenute nei Naufragi e le stesse accuse che gli furono mosse da militari e corona ci dicono quanto la convinzione dell'urgenza di espansione e convivenza pacifiche gli fosse radicata anche al di là delle contingenze in cui egli si venne a trovare.

    L'autore argentino Alejandro Dolina in un'intervista radiofonica ha definito Cabeza de Vaca il più grande camminatore che la storia abbia mai conosciuto, affermando che in questo egli portasse la sua disposizione. L'uomo che va a piedi, sempre per Dolina, non è in grado di offendere, è così lento ed esposto che non può costituire minaccia; alla sua debolezza può essere scudo solo la capacità di osservare, di capire e di farsi benvolere. Álvar Nuñez indubbiamente apprese tutto ciò durante il proprio viaggio, ma è assai difficile pensare che tale disposizione non fosse già nel suo animo.

    D'altronde ne era sicuro anche il già citato contemporaneo Bartolomé de las Casas, il frate ribattezzato apostolo degli Indios per la sua ferma condanna delle nefandezze dei conquistadores e per la sua costante difesa dei diritti dei nativi. Nei suoi scritti maggiori il religioso citò ampiamente i testi di Cabeza de Vaca per dimostrare come gli Amerindi fossero per certi versi addirittura più 'civili' dei nuovi arrivati e come fossero già spontaneamente pronti ad accogliere con le buone il Cristianesimo, riconoscendo da sempre l'esistenza di un dio unico creatore dell'universo. Perché allora, secondo il frate, non prendere ad esempio l'insegnamento dello sfortunato esploratore di Jerez de la Frontera e non accostarsi loro con la sola parola del Vangelo?

    Se è vero che la storia ci racconta quanto poco furono ascoltate dai connazionali le voci di Nuñez e di fra' Bartolomé, è altrettanto innegabile la forza che esse ebbero sui locali. Risulterebbe infatti ben arduo spiegare il profondo grado d'integrazione tra culture native e dei conquistatori, al punto che oggi si può tranquillamente considerare l'America Latina come la nuova Europa, immaginandola portata solo in punta di spada.

    La presente edizione

    Dopo avere valutato l'opportunità di una traduzione in italiano corrente, si è preferito proporre la pregiata versione dell'umanista veneto Giovan Battista Ramusio (1485 - 1557), inserita nelle sue Navigazioni e viaggi, che è contemporanea all'originale. Benché essa sia talvolta incongruente nella grafia dei nomi propri e di luogo, sceglierla ci è parso più rigoroso dal punto di vista storico.

    Daniele Lucchini

    gennaio 2008

    Proemio¹

    Santa, cesarea e cattolica Maestà

    Tra quanti principi sappiamo aver calcato la terra, penso che nessuno possa reggere il confronto con colui, a cui con tanto sincero desiderio e con tanto grande diligenza gli uomini vogliono obbedire, quale siete Voi oggi, Maestà. Ma ora lo si potrà vedere bene, e non senza ragione; né gli uomini sono così ciechi da seguire senza motivo questa strada, ché vediamo che non solo coloro cui naturalmente spetta tale obbedienza, ma che anche gli stranieri si danno da fare per compiacervi.

    Ma assodato che la volontà di servirvi è a tutti conforme, prima che ciascuno possa portarvi vantaggi, c’è però una gran differenza, non imputabile ad alcuno, ma solo alla sorte; nessuno ne è responsabile se non i disegni di Dio. Da ciò viene che uno se ne esca con servizi maggiori di quanto pensasse e che un altro, al contrario, non possa portare testimonianza della propria diligenza e che questa sia così sopraffatta da non poter essere apprezzata.

    Per parte mia posso dire che il giorno in cui, per mandato di Vostra Maestà, partii dalla Terraferma pensai che le mie opere e imprese fossero famose come quelle dei miei avi e che non mi fosse necessario dire nulla per essere contato tra coloro che con estrema fedeltà e cura ottemperano agli incarichi di Vostra Maestà, ottenendone le grazie.

    Ma poiché né il mio impegno né la mia diligenza riuscirono in ciò per cui eravamo partiti per soddisfare Vostra Maestà, né permise Dio, a causa dei nostri peccati, che alcuna delle armate partite per quelle terre scampasse a tanti pericoli ed una fine tanto miserabile e disastrosa, non sono riuscito a prestare miglior servizio che fornire a Vostra Maestà relazione dei dieci anni in cui andai ramingo e cencioso per terre straniere. Così che possiate conoscere quali animali si allevino e di cosa si viva in quelle province, e i costumi dei molti e barbari popoli con cui ho parlato e sono vissuto, e tutte le altre particolarità che ho potuto osservare; di tutto ciò Vostra Maestà sarà pienamente soddisfatta, ché, anche se le speranze di uscire vivo da quella situazione siano sempre state molto poche, fu invece sempre molto grande la cura di tenere precisa memoria di tutto, cosicché, se un giorno Dio nostro Signore avesse voluto riportarmi dove ora sono, potessi testimoniare la mia fedeltà a servire Vostra Maestà. E ho scritto tutto con un dettaglio tale che, benché si leggeranno cose nuove e per qualcuno difficili da credere, dovrà essere tutto preso per vero; e mi voglia credere Vostra Maestà, che ho spesso preferito non dilungarmi troppo in determinate cose.

    Vi supplico dunque di accogliere questo mio scritto in nome del mio servizio, poiché esso è tutto ciò che un uomo nudo poté portare con sé.

    Capitolo I

    In cui si racconta di quando partì l’armata e degli ufficiali e delle persone che ne facevano parte.

    A' decesette di giugno del 1527 partì del porto di San Lucar di Barrameda il governator Panfilo di Narvaez, con potestà e mandato dalla Maestà Vostra, per conquistare e governar le provincie che sono dal fiume delle Palme insino al capo di Florida, tutte in terra ferma; e l'armata che il detto governatore menava seco erano cinque navilii, ne' quali andavano da seicento uomini. Gli ufficiali, perché d'essi s'ha da far particolar menzione nel libro, erano questi: Capo di Vacca per tesoriere e agozino maggiore, Alonso Enriquez contatore, Alonso de Solis per fattore di sua Maestà e per riveditore; ed eravi ancora per commissario un frate dell'ordine di San Francesco, chiamato fra Giovanni Gottierrez, e seco altri quattro frati del medesimo ordine.

    Arrivammo primieramente all'isola di San Domenico, dove ci fermammo da quarantacinque giorni per provederci d'alcune cose necessarie, e principalmente di cavalli. Quivi ne mancarono più di centoquaranta de' nostri uomini, che volsero restare per le promesse e partiti che li fecero quei del villaggio. Indi partiti arrivammo a San Giacomo, che è porto nell'isola di Cuba, e quivi riposatici alcuni giorni, il capitano si rifece di gente, d'arme e di cavalli. Avvenne in quel luogo che uno gentiluomo chiamato Vasco Porcalle, vicino alla villa della Trinità, che è nell'isola medesima, offerse al governatore di dargli alcune vettovaglie che egli avea in detta villa della Trinità, la quale è lontana cento leghe dal detto porto di San Giacomo, onde il governatore partì con tutta l'armata alla volta di quella villa. Ma, arrivati a mezo il cammino ad un porto che chiamano il capo di Santa Croce, parve al governatore che fosse

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