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Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin
Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin
Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin
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Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin

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About this ebook

Cosa accade alla Matrice? Perché è al limite delle forze? Dalla rinascita di Patrich tutto è cambiato, egli scompare senza lasciare traccia.
I cavalieri sopravvissuti, allo scuro dei suoi piani, sono sfiduciati. Il gesto del custode è tuttavia disperato, un peregrinare verso l'ignoto, verso qualcosa che lo sta chiamando e che lo tortura senza tregua, attraendolo a sé e facendolo sprofondare in un abisso di incertezze.

Dello stesso autore:
Glenvion Vol.1 La Matrice
Hell Kaiser Vol.1 Lorian, L'alleanza dei caduti
Hell Kaiser Vol.2 Baal, L'apocalisse di Salomone
Memoria ( racconto breve di genere fantascientifico )
Pactum Sigilli

LanguageItaliano
Release dateJul 19, 2015
ISBN9781310378775
Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin

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    Glenvion Vol. 2 La Prigione di Sefrin - Alessandro Falzani

    Altre opere dell'autore:

    Glenvion Saga Vol.1 La matrice

    Hell Kaiser saga Vol.1 Lorian, l'alleanza dei caduti

    Hell Kaiser saga Vol.2 Baal, l'apocalisse di Salomone

    Pactum Sigilli

    Memoria

    Lì, sotto alcuni metri di terra umida riposava Patrich e con lui, nascosto nella lapide, il vello d’oro. Mentre Katena si spostava e a fatica si contorceva per raggiungerlo, pensava che lasciarglielo fosse stata la scelta migliore. Chi meglio di lui avrebbe potuto proteggerlo? Giorno dopo giorno, anno dopo anno, quando ve ne sarebbe stata necessità, avrebbe estratto il vello e aiutato i cavalieri a fortificarsi e questi a sconfiggere i mali del mondo. Ma non adesso, non oggi. Immediatamente un sorriso le illuminò il volto, lasciando che i suoi grandi occhi azzurri rinnovassero la luce che ormai aveva abbandonato Glenvion. Portò le mani tremolanti alla bocca e a stento trattenne un urlo di gioia. La bambina lasciò che la splendida rosa cadesse a terra, nel solco aperto, ormai privo di un corpo da custodire. Il vello d’oro aveva concesso un grande miracolo: la matrice, Katena, tornava a sperare, ora a proteggerla vi erano quattro cavalieri.

    Glenvion saga Vol.1 La matrice

    Copyright text 2015 Alessandro Falzani

    Copyright cover illustration 2015 Alessandro Falzani

    All rights reserved.

    Glenvion Vol. 2

    LA PRIGIONE DI SEFRIN

    Alessandro Falzani

    CAPITOLO UNO

    Le rose da poco innaffiate lasciavano sfuggire piccole gocce d'acqua che correndo lungo la superficie rossa e levigata, scendevano silenziose nel cerchio di terra, liberando una scia sottile e lunga e alleggerendo la punta del fiore di un peso talmente esile ma allo stesso tempo gravoso. Teresa pose l'innaffiatoio a terra, prese il vaso di rose e lo sistemò accuratamente vicino la finestra, perché la luce del caldo sole primaverile le scaldasse e asciugasse. Tornò a sedersi, era quasi ora di pranzare e dovette svegliarla, sebbene vederla dormire così beatamente era la cosa che più la tranquillizzava; le posò la mano dolcemente sul volto carezzandolo dallo zigomo al mento e subito il viso cinereo rispose con un movimento lento, voltandosi dall'altra parte.

    «Katena, su, avanti, è ora di pranzo, devi mangiare qualcosa» le sussurrò Teresa con grazia.

    La donna osservava l'ennesima flebo che inesorabilmente si inaridiva, non avrebbe atteso l'arrivo dell'infermiera, ormai era perfettamente in grado di sostituirla da sola.

    Negli ultimi tre anni i ricoveri per Katena si erano fatti sempre più frequenti, per un giorno, poi per due, adesso per periodi di dieci. Debilitata, stanca, provata, senza energie e demotivata. Teresa non riusciva a darsi una spiegazione, nessuna che fosse biologica ma in cuor suo sapeva esattamente di cosa si trattava e non aveva mai perso la speranza, nemmeno per un solo dannato giorno. La ragazza inspirò profondamente, l'altra aveva appena sostituito la flebo e lei aprì gli occhi vedendola in piedi, ancora lì vicino.

    «Non devi... stare sempre qui, non devi», disse Katena con un alito di sofferenza che sembrava fosse l'ultimo rimasto nei polmoni.

    «E dove dovrei essere? Sei la mia bambina, tutto quello che mi rimane, non potrei lasciarti sola, mai.»

    Teresa strinse le labbra, un'onda di ricordi si infranse nella sua mente, non ultimi, la morte dei suoi cari genitori. Riccardo era venuto a mancare per un infarto ma lei sapeva che il vecchio papà non aveva retto alla morte di Patrich. Alla morte, perché sino a quel punto si era spinta con il suo racconto; cos'altro avrebbe potuto dirgli? In realtà doveva considerarlo morto perché da quel dannato giorno le loro vite si erano fermate così come i loro cuori. Non ci era riuscito. Riccardo amava troppo il suo unico nipote ma dentro di se sapeva di essere responsabile di tutto, sin dal momento in cui gli aveva dato quella maledetta pistola: ogni cosa, azione, pensiero, sentimento, da quell'istante era stato diverso. La colpa era sua, questo pensava e se lo ripeteva ogni fottuto istante della sua inutile vita, sin quando smise di pensarlo e ci credette davvero, a tal punto che il suo cuore, improvvisamente, smise di battere. Era anziano certamente ma prima di quella storia pareva un bijou, regolare con i controlli e con l'alimentazione: non doveva morire, assolutamente. Da quel preciso istante, la mente di Teresa era stata pervasa da un altro pensiero, insistente e orribile, penetrante come un affilato pugnale: la madre. Matilde amava troppo il marito, forse più della figlia stessa, un amore impossibile da scalfire che insistente le martellava la mente e che talvolta la conduceva a compiere atti sconclusionati. Patrich, certo, il nipote gli mancava, era pazza di quel ragazzo ma... Riccardo, senza di lui aveva rifiutato la vita stessa, l'aveva odiata a tal punto che alla soglia degli ottanta anni aveva pensato che potesse bastare così e che tutto poteva essere dimenticato e cancellato con una massiccia dose di barbiturici. Teresa tornò alla realtà e i suoi occhi spenti regredirono nei ricordi dolorosi e nella tragica fine di una famiglia che altrimenti avrebbe definito normale: un sentimento di astio e fastidio le si disegnò sulle pieghe della fronte ed essere lasciata sola dai suoi genitori era una cosa che ancora faticava ad accettare, come del resto tutto quanto le era accaduto. Si accorse dello sguardo di Katena la quale aveva stampate sul volto le indelebili cicatrici del senso di colpa, ancora, dopo quasi tre anni da quando erano venuti a mancare. Ma la piccola non c'entrava, non doveva sentirsi responsabile, non doveva soffrire più di quanto stesse facendo. L'aiutò a sollevarsi, le mise il cuscino dietro la schiena, trovò la posizione per lei più comoda ma che già conosceva quindi alcuni minuti dopo entrò la donna che distribuiva i pasti. Questa rivolse alla ragazza un sottile e rassicurante sorriso, uno dei tanti che Katena si era forzata a sopportare nei suoi sempre più frequenti periodi di degenza, poi lesse attentamente un piccolo foglio ed estrasse un vassoio segnato da un numero, lo porse sorridente alla paziente e lei cercò di stringerlo tra le mani. Teresa l'accompagnò nel gesto, sebbene lei volesse essere autonoma non ne aveva affatto la forza, nemmeno per reggere un semplice vassoio. Osservò le pietanze, girò e rigirò il contenitore lanciando occhiate fugaci al contenuto e pregustando l'insipido sapore che già masticava, ancor prima di iniziare a buttar giù qualcosa. Scartò la forchetta di plastica e trafisse il tiepido pezzo di carne, deglutì prima il misero rimasuglio di saliva e poi si sforzò di mangiare più del solito: in fondo il petto di pollo era la cosa più commestibile che l'ospedale passava e le conveniva approfittare, domani sarebbe stato il turno della odiata minestra, nella quale l'ardua ricerca di un singolo pezzetto di patata o carota avrebbe costituito il miglior passatempo per lei. Teresa pazientò che finisse di pranzare o che per lo meno portasse alla bocca quante più forchettate possibili, le porse un po' di pane ma Katena era ormai sazia pur non avendo fatto più di cinque bocconi, poi le tolse il vassoio da sopra le gambe e tornò a sedersi accanto a lei. Forzarla oltre la sua volontà non aveva mai dato i risultati sperati; le labbra serrate e le sopracciglia rotondeggianti erano presagio di sazietà o talvolta rifiuto del cibo, quindi quel pasto poteva considerarsi un lauto pranzetto, almeno per Teresa. Rimasero in silenzio, la donna dei pasti sfilò davanti la porta e la ragazza notò come rivolgesse quel falso sorriso a tutti i malati nelle altre stanze; il silenzio tra le donne era lungo e penetrante, fatto di speranze e mere illusioni, una scena che ormai si ripeteva da troppo tempo e che rischiava di non avere fine. Ma forse oggi qualcosa sarebbe cambiato.

    Katena tornò sulla porta d'ingresso, la signora che spingeva il grande carrello non si vedeva più e lei sapeva che di solito verso l'una, qualcuno sarebbe passata a trovarla. A turno chi meglio poteva, cercavano di non lasciarla mai sola: oggi spettava a Stefano tenerle compagnia. Lei si era sforzata in tutti i modi di dirlo, non voleva perdessero tempo con lei, non voleva rubare altro della loro vita ma i tre cavalieri avevano fatto un giuramento solenne, di fronte alle tombe dei loro amici, di fronte all'intera Glenvion. Stefano entrò, il volto stanco, la mascella squadrata e gli zigomi spigolosi, due profonde occhiaie e una barba incolta di alcuni giorni, gli occhi spenti e spersi nella nullità delle sue azioni giornaliere. Cercò di sorriderle ma sapeva che nulla poteva essere nascosto alla mente della matrice, motivo per cui non celò la sua stanchezza e liberò il suo pensiero, colmo di domande e insoddisfazioni.

    «Ti trovo meglio, oggi stai davvero meglio!», disse con un filo di voce l'uomo.

    «Tu no, invece...», rispose secca la ragazza.

    Stefano scosse la testa,prese la piccola sedia posta all'angolo, si sedette e mise i gomiti sulle ginocchia, abbassò lo sguardo a terra, «conta solo che tu stia bene, che ti rimetta e torni alla tua vita, lo sai, è la cosa più importante, noi ci diamo da fare, non ci va male. In fondo riusciamo a vivere tranquillamente, abbiamo tutti un lavoro e...»

    «e nessuno di voi si è fatto una famiglia. Anzi, vi rifiutate di averne una.»

    Troncò Teresa, evitando alla ragazza un inutile spreco di fiato.

    L'uomo oscillò lentamente la testa avanti e indietro, sgranò appena gli occhi come se la sua mente gli stesse dicendo qualcosa e lui stesse ascoltando,si alzò, fissò un punto a caso sul pavimento e senza mai distogliervi lo sguardo disse, «sapete che non possiamo,anche se lo vorremmo è meglio per tutti non legarsi e...se un giorno dovesse...»

    Teresa colpì con la mano il vassoio, questo cadde a terra spargendo i resti del magro pranzo di Katena. Poi fissò Stefano, attese che lui rispondesse con i suoi occhi ma l'uomo non aveva il coraggio, non riusciva ancora a perdonarsi di non averlo salvato.

    «Smettila Stefano, smettila!! Vuoi capire che non sei tu il problema, lui ha deciso così, tu non sei responsabile della sua morte, non avresti potuto fermarlo; nemmeno io ci sono riuscita. Guardati come sei conciato,cosa vuoi fare?! Eh?! Ammazzarti anche tu!? Tu non hai colpe, mi senti, mi capisci? Una volta per tutte, non siete voi i responsabili di tutto questo!»

    Teresa urlò, sbattendo i pugni chiusi sul petto dell'uomo e un tamburellare cupo echeggiò nella stanza, l'altro le afferrò i polsi e poggiò la fronte contro la sua, lei si dimenava e l'uomo stringeva ancor più, egli serrò dapprima le labbra come a voler trattenere il suo pensiero infine le sussurrò, «io l'ho condotto da me, in Italia, quando è entrato in quella chiesa...io...dovevo andarmene, togliermi quella cazzo di spilla, qualsiasi cosa, qualsiasi azione avessi compiuto allora, lui, adesso sarebbe vivo. Johan ha avuto l'idea di attirarlo verso di noi ma io, non lui, ho pensato a come fare. Ho distrutto la vostra vita e quando alla fine avrei potuto almeno salvarlo ero troppo stanco e debole per farlo. Io sono colpevole di tutto questo, colpevole della fine che quest'ordine sta facendo. Colpevole dei nostri fallimenti e dello stato in cui versa Katena. Come puoi perdonarmi, Teresa? Come puoi chiedermi di vivere, se non sono stato capace di far vivere gli altri? Dovevo prendere il posto di Johan, avevamo calcolato tutto ma qui, ora, al mio fianco, doveva esserci tuo figlio, nel pieno delle forze e con una luce straordinaria negli occhi e doveva starci anche Katena, sorridente e capace di infonderci coraggio e voglia, voglia di andare avanti uniti e forti.»

    Poi lasciò i polsi della donna in uno scatto d'ira controllato,le mani tremolanti sospese a mezz'aria, quindi si sforzò di avvicinarle al suo volto e le carezzò le guance, la pelle delle loro fronti si sfiorò ancora e Teresa si lasciò sfuggire una lacrima senza mostrare il minimo cambiamento del volto. Un attimo fugace e quando i loro volti si allontanarono, la luce triste e cadente della stanza dipinse il rimorso ostinato sulle rughe, ai lati delle labbra dell'uomo.

    Si diresse verso la porta, poggiò una mano sulla maniglia, poi senza voltarsi concluse «...e invece guarda come siamo ridotti.»

    Uscì a testa bassa, l'incedere pesante, la mano scivolò sulla porta stancamente, si mischiò alla folla di malati e di visitatori che accalcavano il corridoio, inebriandosi dell'odore di alcool e del sussurrare di voci, quindi scomparve, così come faceva ormai da tre anni. Teresa restò sull'uscio, pose la mano sull'alone ancora caldo lasciato da quella di Stefano, poggiò la testa sulla parete e tiepide gocce d'acqua affondarono nel pavimento color azzurro oceano.

    ***

    Una notte tranquilla, stranamente aveva riposato bene, forse per il semplice motivo che non doveva condividere la stanza con nessun altro povero disgraziato o forse perché sapeva che il giorno seguente sarebbe toccato a Lucio cercare di tirarla su, tra i cavalieri era di certo il più burlone e simpatico e la risata era la sua stessa forza, l'unico antidoto che conoscesse contro i peggiori dei mali: lo sconforto e la sfiducia. Tuttavia, qualcosa doveva essere accaduto ultimamente, forse il giorno prima, perché Teresa e Katena non mostravano il minimo interesse per le sue battute, come tramortite da un evento disastroso.

    «Insomma, signore, mi dite che avete? Oggi mi sembra che tu stia meglio, dicono che domani potresti uscire, mi pare una buona notizia, no?!»

    «Si, ma quanto durerà? Quanti giorni passeranno prima che le forze se ne vadano ancora? Non posso credere che dipenda solo da questo...» disse la ragazza mentre estraeva un piccolo pezzetto luccicante da sotto il cuscino.

    Lucio alzò gli occhi al cielo, si grattò la testa, aprì le mani e rivolse i palmi all'aria, «e invece sai che è così. Non ci sono altre spiegazioni, sei la matrice e quando stai lontana dal Vello ti senti debole e stanca. Ora sappiamo solo questo e che anche un frammento del Manto serve a tenerti in forze, purché ti sia vicino, anzi, purché lo tocchi. Su dimmi, quando lo hai sfiorato stavolta?» Chiese Lucio estraendo un piccolo foglio dai pantaloni.

    «Ieri, non ho resistito più. Stefano era stato qui solo per pochissimi minuti, mi era parso davvero devastato, io non voglio più vederlo così...io so che se sto bene anche lui si sente meglio, quindi l'ho preso tra le mani e sono stata subito bene. Poco dopo pranzo stavo meglio e stamattina ho fatto lo stesso, solo che lo tengo ancora in mano.» Disse mostrando l'affusolata e lucente scheggia del Manto di Crisomallo.

    In quell'istante Lucio sussultò, ricordando l'ultima battaglia al fianco dei suoi amici, a quando impugnava le possenti pistole e alla precisione dell'ascia che il manico nascondeva: da quel momento non aveva più toccato quelle armi.

    «Ehi giovanotto!!» esclamò una voce anziana e squillante dalla porta di fronte alla loro stanza.

    Lucio alzò gli occhi al cielo come stesse imprecando tra sé e sé, fece cenno alle donne di aspettarlo ed uscì, dirigendosi nell'altra stanza. «Signora Mary! Oggi la trovo in gran forma!Allora chi aspetta nel lettone stasera?!»

    L'anziana donna mise le mani alla bocca, nascondendo qualche pensiero di cui lei stessa si vergognava, «sei sempre il solito sciocco! Magari potessi! Come sta la ragazzina?»

    Lucio mantenne il sorriso sulle labbra, cercando di dargli un tonò di spontaneità che la contagiasse, poi prese il lenzuolo ai piedi del letto e coprì i monconi di gambe della malata, Mary non si vergognava nemmeno più della sua condizione.

    «Sta benone direi, sa come sono le ragazzine: i maschietti, la pubertà... le loro cose...»

    «Stefano!», il richiamo furioso di Katena giunse a minacciarlo.

    «Mi scusi Mary, devo tornare di la...»

    «Lo so Lucio caro, va, va pure e grazie di essere passato a salutarmi, sai, ci tenevo, non so mai se mi sveglierò il giorno dopo.»

    Lucio la fissò con sguardo insistente, le strinse la mano, «si sveglierà signora, domani e poi ancora e ancora. Il cancro le ha portato via le gambe ma lei è tosta...è come piace a me, quasi quasi ci sto facendo un

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