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Vecchie Fiamme, Mani Bruciate
Vecchie Fiamme, Mani Bruciate
Vecchie Fiamme, Mani Bruciate
Ebook388 pages5 hours

Vecchie Fiamme, Mani Bruciate

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About this ebook

Lottando per bilanciare carriera e famiglia, la vita di una musicista viene improvvisamente complicata dal ritorno di un ex fidanzato, morto vent'anni prima. 
A 24 anni Tilda Parish aveva tutto: una band tutta sua e l'uomo della sua vita; ma il fato aveva altri programmi. Un incidente d'auto mortale ha tolto la vita al suo ragazzo e ha spinto Tilda in una spirale di dolore. Diciassette anni dopo, Tilda è sposata con una figlia tredicenne, ma la sua carriera da cantautrice è turbolenta ed instabile. Incapace di bilanciare la sua carriera precaria e gli obblighi verso la famiglia, Tilda prende la decisione di abbandonare la musica per sempre. Tuttavia, dopo aver bruciato la sua chitarra in un falò rituale, Tilda scopre che il passato non ha chiuso con lei. Segni della sua vecchia vita spuntano fuori misteriosamente e fantasmi del suo passato infestano il presente.  Una notte, Tilda affronta un intruso che crede sia uno stalker; ma la figura che esce fuori dall'oscurità quasi le fa fermare il cuore. Appare il suo ex fidanzato, quello morto tanti anni prima. Non è invecchiato di un giorno. Le dice che non ha mai smesso di amarla e che la rivuole indietro. Nonostante la sua morte e i diciassette anni che li hanno divisi, Tilda si rende conto che neanche lei ha mai smesso di amarlo. E adesso Tilda Parish è bloccata tra due mondi: quello di ogni giorno, con suo marito e la sua famiglia, e questo nuovo, inquietante mondo con il suo vecchio ragazzo che è ritornato dalle tenebre della morte per trovarla. Che cosa deve fare un'ex musicista?
LanguageItaliano
PublisherPerdido Pub
Release dateOct 27, 2014
ISBN9781633394780
Vecchie Fiamme, Mani Bruciate
Author

Tim Mcgregor

Tim McGregor es un guionista y autor de la popular serie de libros Bad Wolf.  Él vive en Toronto, Canadá con su esposa e hijos. 

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    Vecchie Fiamme, Mani Bruciate - Tim Mcgregor

    dopo

    1996

    L’amore ci distruggerà

    QUANDO TILDA PARISH APRÌ gli occhi, il mondo era tutto sbagliato, alla rovescia. Dovette sbattere le palpebre due volte prima di accorgersi che non era il mondo ad essere sbagliato, ma lei. L’auto si era ribaltata e Tilda era appesa a testa in giù e annodata alla cintura di sicurezza come un pipistrello impazzito.

    Sotto di lei, i resti del parabrezza, il vetro di sicurezza frantumato in mille pezzi sul tetto della macchina distrutta. Qualcosa di umido le gocciolava dal naso finendole negli occhi e quando si asciugò, le sue mani si riempirono di sangue.

    Gil? disse con voce incrinata. Si voltò verso il lato del passeggero, ma era vuoto.

    Gil non c’era.

    Gridò il suo nome ma nessuna risposta, nessun suono le giunse oltre a quello dell’acqua che si infrangeva contro il molo.

    Più tardi in ospedale, avrebbe avuto molti vuoti di memoria sull’incidente e su ciò che avvenne dopo, ma tutto ciò che l’aveva preceduto era chiaro e nitido nella sua mente. Piccoli dettagli le richiamavano alla memoria quell’ultima notte che avevano trascorso insieme, l’ultima notte prima che Gil morisse e prima che la sua vita venisse divisa in due, prima e dopo. A volte la memoria era una benedizione, ma altre volte era una condanna. Si aggrappava ad ogni dettaglio; voleva solo dimenticare tutto.

    Quella notte si era esibita sul palco dipinto di nero dell’El Mocambo, con la sua puzza di birre rovesciate e limette che avrebbero dovuto essere gettate il giorno prima e la cappa di fumo di sigarette che si surriscaldava sotto la luce dei riflettori.

    Gli Spitting Gibbons era la quarta band di Tilda in quattro anni. Il nome non aveva un significato particolare per nessuno, visto che l’avevano inventato una notte quando si erano sballati dopo le prove. Trovavano soltanto bello il modo in cui suonava. Oltretutto, aveva detto Tilda agli altri componenti, potevano sempre inventarsi una storia dietro quel nome, per le inevitabili interviste che ci sarebbero state dopo essere diventati famosi. La storia risparmiò loro la fatica perché gli Spitting Gibbons non sarebbero sopravvissuti per vedere il Natale.

    Tilda era sul palco, una figura esile di ventiquattro anni, labbra sul microfono e dita avvolte attorno ad un basso Fender. La voce roca, come un ragazzo del coro dopo aver fumato Marlboro Rosse senza filtro. Il chitarrista era un teppista irsuto che aveva seguito la scuola di Robert Fripp prima di dimenticare tutto ciò che aveva imparato per scoprire quel crunch amatoriale di bassa qualità. Il batterista era un polpo filiforme che suonava per non meno di altre quattro band in una volta, visto che era uno di quei periodi in cui trovare un percussionista decente era raro. Nessuno dei due ragazzi era granché da guardare, ma tanto meglio perché tutti gli occhi erano puntati su di lei. La sua testa si inclinava da una parte all’altra e il peso di quella Fender gravava sulle sue spalle magre. La sua voce si incrinava quando raggiungeva una nota alta, ma non le importava perché sapeva che veniva mascherata dal frastuono. Lento, poi veloce, forte, poi piano. A quei tempi molti musicisti ricercavano quella struttura, con il sound dei Pixies che ancora risuonava nelle loro orecchie dalla prima volta che li avevano ascoltati. Scendendo, il suo sguardo cadde sulla folla (diciassette persone avevano pagato, altre dodici si erano imbucate). Scrutò attraverso le luci della ribalta e il fumo per localizzare un certo viso tra tutti gli altri. Il suo.

    Gil Dorsey era appoggiato al bancone in fondo alla stanza con in mano una pinta di piscio che pretendeva di essere birra.  Sulla faccia aveva un sorriso compiaciuto così grande che si sarebbe potuto pensare che quel tipo smilzo avesse appena trovato un bigliettone attaccato sul fondo del bicchiere; ma non era per questo. Era per lei. La ragazza sul palco stava cantando per lui.

    Succede qualcosa quando un essere umano ordinario sale sul palco e canta. Chiunque esso sia, si trasforma lì sopra, sotto le luci e, che si voglia ammetterlo oppure no, ogni persona presente ha un’erezione. Anche i cantanti più brutti (per esempio quello dei Jesus Lizard, dei Dinosaur Jr. o dei Pogues) acquistano questo strano magnetismo quando stanno in piedi un metro più in alto degli altri e immersi nella musica.

    Tilda Parish non faceva eccezione. Quando camminava per strada, non era una di quelle che fermava il traffico, non attirava fischi. Carina? Certo. Un po’ di lentiggini punteggiavano le sue guance sotto gli occhi verdi e i suoi capelli castani erano tinti di nero con una scadente tintura fatta in casa.  Una persona che vedi per strada e di cui noti il sorriso, ma di cui non riesci a ricordare il viso cinque minuti dopo, anche se da ciò dovesse dipendere la tua vita. Lei era proprio così. E malgrado tutto va sul palco, attacca la spina e comincia a cantare? Tutti guardavano su, le bibite bloccate a metà strada dalle loro labbra. Perfino il buttafuori in stato semi-comatoso allentò il suo cipiglio per dare un’occhiata; e anche le ragazze etero convinte, avvinghiate ai propri fidanzati, reagirono con un accenno dei capezzoli inturgiditi. Tilda e Gil erano innamorati. Chi non lo era in quei giorni? E come diceva quel film: sinceramente, pazzamente, profondamente. Si erano incontrati quattordici mesi prima in un sudicio locale dove Tilda si stava esibendo con la sua band precedente, i Daisy Pukes. Stava scaricando la strumentazione dal furgone e lottando per trasportare dentro un amplificatore, quando sentì qualcuno chiederle se volesse un mano. Quando guardò su, vide Gil Dorsey.

    Lui sorrise e allungò la mano per prendere l’amplificatore, cercando di non cedere sotto quel peso. Tilda gli sorrise di rimando, afferrò la custodia della chitarra e lo guidò dentro.  Nessuno dei due credeva all’amore a prima vista, ma si scatenò qualcosa quando i loro occhi si incontrarono. Lei lo invitò al concerto e quando lui la vide sul palco per la prima volta, ormai era spacciato. Tre canzoni della scaletta dei Daisy Pukes e lui era davanti, con gli occhi incollati su quella ragazza magrolina che picchiava su un’acustica sunburst.  Dopo lo show lei gli chiese cosa ne pensasse e lui ammise di detestare il cowpunk.  «Cambierai idea» affermò Tilda. Quando lui finalmente lo fece, Tilda aveva già sciolto i Daisy Pukes per mettere su una nuova band con un sound diverso. Non importa. Per allora erano già pazzi l’una dell’altro.

    «È un po’ inquietante» aveva detto Tilda, e non per la prima volta. Quando trasportò la strumentazione nell’appartamento di Gil dopo il concerto di El Mo, stapparono una bottiglia di rosso spagnolo scadente e si tolsero i vestiti. La vista di Tilda sul palco non aveva perso neanche un po’ del suo potere, facendogli desiderare ardentemente di mettere le mani su di lei. Per quanto riguarda Tilda, lei amava essere desiderata così tanto, così disperatamente, come se ne dipendesse la vita.  Più di una volta non avevano neanche aspettato di tornare a casa e si erano avventati l’una sull’altro nel sudicio locale sul retro del pub. 

    «Che c’è di inquietante?» chiese Gil.

    Stesa accanto a lui nell’afa dell’appartamento, aspettando che il ventilatore rinfrescasse la sua pelle sudata ad ogni passaggio, Tilda gli baciò la spalla «Sei tutto ciò a cui penso ora» 

    Gil tastò il pavimento vicino al materasso finché non trovò il pacchetto di sigarette. Ne rimanevano solo due. Ne accese una da dividere con lei. «Sembri amareggiata»

    «Lo sono. Ero felicissima prima di incontrarti. Li evitavo i ragazzi, troppi problemi».  Prese la sigaretta e soffiò il fumo verso il ventilatore. «Ma ora? Cristo. Siamo davvero nei casini».

    «È questo che amo di te. Sei così romantica!»

    «Il fatto è che non ricordo di essermi mai sentita così con nessun altro. Così coinvolta, capisci? Non potrò sentirmi mai più così, non riesco ad immaginarlo» Tilda si mise seduta sul letto e schiacciò il palmo della mano sul suo petto. «Dovrei ucciderti adesso».

    «Uccidermi?»

    «Sì, nel sonno. Dopo mi suiciderei. Poi il proprietario della casa ci troverebbe un mese dopo, dopo aver buttato giù la porta per via della puzza. Ci troverebbe ad imputridire l’una nelle braccia dell’altro».

    «Sempre romantica». Lui si chinò e la baciò sul fianco. Sapeva di salato.

    Tilda si stiracchiò e andò al lavello per riempire un bicchiere d’acqua. La casa di Gil era piccola, un appartamento sopra un garage sulla Oxford. Dava di solventi e lubrificanti. Alcune tele erano impilate contro il muro e il pavimento rigato era punteggiato da pittura di ogni colore. Gil era un pittore e lo mostrava con orgoglio. Ogni straccio di indumento che possedeva era schizzato di colore, la maggior parte del quale era incrostato sotto le sue unghie e tra i solchi dei suoi polpastrelli. Non privo di talento, ma nemmeno Picasso. I lavori si accatastavano nell’angolo.

    Gil studiò Tilda da dietro mentre stava in piedi davanti al piccolo lavello. C’erano volte in cui, guardandola dal fondo di un locale mentre si esibiva, se lo sentiva nelle ossa che, tra i due, quella col vero talento era lei. Talento allo stato puro. Lo faceva sembrare facile tutto quel suono che si schiantava contro i muri e ti faceva tremare lo sterno. Le sue doti gli parevano insignificanti in confronto a quelle di Tilda e a volte, nei suoi momenti di debolezza, non la sopportava per questo. Vergognandosi della sua meschinità, mantenne il segreto. Per il momento, poteva permettersi di tener viva l’illusione di essere un pittore. Era ciò che aveva sempre voluto. Il giorno di fare i conti con i propri talenti e affrontare la realtà era molto, molto lontano. Per ora, lui aveva lei e lei aveva lui e se lo desiderava, aveva tutto il tempo per colmare il divario tra le loro abilità.

    Si puntellò su un gomito, sempre studiando la sua figura. La sua pelle umida rifletteva la luce rossa del neon che si infiltrava attraverso la finestra della cucina. «Dovrei dipingerti così. Avvampata dal bagliore rosso».

    «Come se avessi bisogno di un altro mio nudo. Dipingi qualcos’altro».

    «Tu sei tutto ciò che voglio dipingere adesso»

    «Un po’ ossessivo?»  Si girò, premendo con la schiena contro il bancone freddo. «Questo sì che è romantico».

    «Hai fame? Ci sono delle uova in frigo». Fece un cenno col capo al Kelvinator antiquato di fianco al lavello. «Facci qualcosa!»

    «Spiritoso»

    «Oh, e dai Til. Tutti sanno fare le uova strapazzate»

    «Non io, io non cucino»

    «Nemmeno per me?»

    «Gil, ti amo ma non cucinerò per te. O per qualcun’altro. Il giorno in cui mi troverai a fare la schiava in cucina, sarà il giorno in cui potrai infilarmi una pallottola in testa». Riempì di nuovo il bicchiere e tornò a letto. «Questo è il massimo delle mie abilità culinarie. L’acqua».

    Gil non rispose. I suoi occhi fissavano la finestra, lo sguardo distante.

    «Ehi» disse Tilda. «Dove sei?»

    Gil prese il bicchiere dalle sue mani. «Scusa, stavo vagheggiando»

    «Continui a farlo. Tutto bene?»

    «Sì. È solo che... la scorsa notte è stato strano.»

    «L’ho notato» Lei gli toccò il ginocchio, dove la pelle era graffiata. C’erano altri tagli e lividi sulle sue mani e i suoi stinchi. «Ti sei distrutto più del solito. Che cos’è successo?»

    «Niente» disse alzando le spalle «Solo, ehm... qualcosa a cui sono scampato per un pelo».

    C’era di più, Tilda poteva leggerglielo negli occhi, ma non voleva insistere. Gliel’avrebbe detto oppure no.  Negli ultimi sei mesi, Gil si era dato ad un hobby strano e a volte pericoloso: esplorare edifici abbandonati. Irrompeva in fabbriche deserte e case dichiarate inagibili per vedere cosa ci fosse all’interno. Tornava a casa sporco e pieno di lividi, intrattenendo Tilda con i racconti di come avesse strisciato nei tunnel o di come fosse quasi caduto rovinosamente da un pavimento marcio. Lei odiava il suo hobby e non ne capiva l’attrattiva. A qualunque cosa fosse scampato, doveva essere seria perché non le aveva detto una parola a riguardo.

    «Vorrei che la smettessi di farlo. È troppo pericoloso»

    «Penso che smetterò» rispose lui.

    Questo la sorprese. Era capace di essere ostinato, per il semplice gusto di farlo e non accettava facilmente i consigli, ma c’era qualcosa di diverso questa volta. Sembrava quasi umile, pensò, cosa che raramente aveva visto in lui. Era quasi morto la notte precedente ruzzolando in un putrescente edificio a rischio di incendio? Voleva saperlo, ma non le andava di chiederglielo. «Ehi» disse. «Ho qualcosa per te»

    «Davvero?»

    Non riusciva a smettere di sorridere. «Sì»

    «È la colazione?»

    «No, scemo» Gli dette un colpetto nella costola con l’alluce. «Ti ho scritto una canzone»

    Lui si mise subito seduto. «Sul serio? Suonala».

    Tilda si mordicchiò il labbro, prendendo tempo. Aveva scritto la canzone quattro giorni prima, ma aveva tenuto la bocca chiusa. La melodia era saltata fuori così, mentre improvvisava alla chitarra. Legò insieme qualche nota, un verso e metà ritornello come se fossero stati ad aspettare lì per tutto il tempo.  Il resto della canzone venne fuori e fu forgiata a freddo quel pomeriggio. Era una canzone d’amore, pura e semplice. Ancora peggio, era sincera. Lei odiava le canzoni d’amore, ce n’erano troppe, tutte insipide e crudelmente banali quando c’erano tante cose in più di cui parlare in una canzone. Si può immaginare la sua sorpresa quando, pizzicando innocentemente le note su quelle vecchie corde, dalla sua gola uscì proprio una canzone d’amore. Le sue dita si muovevano sulla tastiera come se conoscessero già gli accordi.

    Era inquietante la facilità con cui nacque. Si aspettava che la sua coinquilina scoppiasse a ridere e la prendesse in giro per una melodia così sdolcinata. Tilda non l’avrebbe neanche biasimata. Eppure, eccola. Improvvisò e la rifinì; non aveva mai scritto una canzone così velocemente. Semplici cambi di accordi, le parole poche e dirette. Arrossiva quando la cantava ad alta voce nella sua stanza, ma non poteva negare che il testo fosse accurato. Era una canzone d’amore su di lui.

    «Voglio sentirla», disse Gil quando Tilda ancora non si muoveva. Balzò dal letto, prese la chitarra dalla custodia e gliela mise in grembo. Una vecchia Gibson Hummingbird con la vernice piena di crepe sul corpo sunburst. 

    Tilda prese un respiro profondo e si immerse nella canzone. L’intera scena era indescrivibile, il riff e le parole erano chiaramente intese per lui, e soltanto per lui. Nient’altro da aggiungere. Lei teneva la testa bassa, gli occhi sulle corde. Incontrare gli occhi di Gil mentre suonava sarebbe stato troppo.

    Non guardò su finché non ebbe finito la canzone e finché le corde non tornarono silenziose.

    Gli occhi di Gil erano lievemente arrossati e dipinti di incredulità. «L’hai scritta per me?»

    «La odi?»

    «Oddio, no. La adoro!» Ora toccava a lui prendere un bel respiro. «Nessuno aveva mai scritto una canzone per me».

    Tilda fece spallucce. «Be’, sono felice di averti sverginato allora».

    «Dovresti registrarla». Gil si allungò per un bacio, schiacciando la chitarra tra loro. «È una canzone bellissima»

    «Niente registrazioni. Questa è solo per te»

    «Non essere timida. Potrebbe diventare una hit»

    «È troppo melensa. Sono contenta che ti piaccia, ma tu sei l’unica persona che mai la sentirà»

    «Allora è meglio che ti abitui a suonarla spesso, perché la amo»

    Lei rimise a posto la chitarra nella custodia. «Scusa, amore. Solo per le occasioni speciali».

    «Allora registrala per me, così posso ascoltarla quando voglio». Gil andò nell’angolo dell’appartamento dove era accatastata la sua roba. Dove la maggior parte delle donne lascia lo spazzolino o un cambio di vestiti a casa del proprio ragazzo, Tilda lasciava strumenti e amplificatori. Gil scovò il registratore, trovò il microfono e i cavi. «Per favore».

    Lei continuava a sollevare obiezioni, ma lui insistette e collegò il microfono al registratore. Le spinse di nuovo la chitarra tra le mani e si sedette, silenzioso come un topo in una chiesa, mentre lei registrava la canzone. Quando ebbe finito, Tilda tirò fuori la cassetta e disegnò tre piccoli cuori sull’etichetta adesiva.  «Non ci scriverò anche il mio nome sopra. Ma, senti un po’, non puoi farla sentire a nessun’altro. D’accordo?»

    «D’accordo»

    Si rannicchiò stretta contro di lui finché la loro pelle non diventò scivolosa per via del caldo nel piccolo appartamento. «Fa troppo caldo qui» disse Tilda.  «Andiamo sul tetto».

    «Va bene. Prendi il vino» Poi un sorrisetto malefico si dipinse sulla sua faccia. «Ehi, vuoi dare fuoco a qualcosa?»

    «Qualcosa tipo?»

    Lui accennò con la testa alla pila di dipinti. «Ho un po’ di schifezze di cui sbarazzarmi, ma non è quella la parte figa. Voglio mostrarti quello che ho fatto».

    STARE sul tetto era un sollievo, dopo la torpida sauna nell’appartamento, con un accenno di brezza che raffreddava il sudore lucente sulla loro pelle. Portarono su il vino, due tele e uno strano aggeggio che Gil aveva messo insieme alla buona.

    «Cos’è quella cosa?» chiese Tilda, appoggiando le cornici sul bordo basso del tetto.

    «Questo» rispose lui con un ampio sorriso, «è un lanciafiamme fatto in casa».

    L’aggeggio consisteva in una bomboletta di butano ficcata a incastro in una pistola per silicone. Un lungo accendino per barbecue era montato su un lato e una bacchetta che si allungava dal carrello forniva lo stoppino. Con un clic dell’accendino, lo stoppino si accese. Gil indirizzò l’apparecchio al cielo e premette il grilletto. Un’esplosione di fiamme ruggì nel cielo in un arco di due metri, brillante e infiammato. Gil rideva mentre spruzzava fiamme verso le stelle.

    Tilda aggrottò le sopracciglia. «Perché l’hai costruito?»

    «Perché posso» rispose lui con un’alzata di spalle. «Ecco, metti quel dipinto contro il muro»

    «Sta’ attento con quell’affare, potresti ferire qualcuno»

    «Sì» replicò Gil accennando con la testa al dipinto, «lui»

    Il dipinto che Tilda teneva su era un auto-ritratto di Gil in acrilico. Tilda lo ammetteva, non era il suo lavoro migliore. Sembrava che Gil si fosse sforzato particolarmente per rendere la sua faccia smunta e sgradevole.

    «Vuoi tirargli un colpo? È divertente»

    Tilda fece un passo indietro. «No, è il tuo giocattolo. Prima tu»

    Gil si mise il lanciafiamme fatto in casa alla vita, come una mitragliatrice. «Sayonara coglione», disse al dipinto e sparò. La fiamma colpì la tela finché non si bruciò accartocciandosi e cacciando fumo nero nell’aria.

    Lui abbassò la pistola e le sorrise. «Sono un genio. Sicura che non vuoi provare?»

    Sembrava davvero divertente. Tilda batté le mani. «Okay»

    Mettendosi la tracolla su una spalla, Tilda soppesò l’apparecchio tra le sue mani. Gil calciò via i resti bruciacchianti del dipinto e ne mise un altro al suo posto. Un altro autoritratto. Fece un passo indietro e disse: «Fuoco!»

    Lei mirò, poi si mordicchiò il labbro. «Mi fa strano dar fuoco alla tua faccia»

    «Incenerisci quel figlio di puttana, ok?»

    Tilda strinse la pistola per silicone e premette il grilletto. Urlò quando la fiamma sbuffò fuori come il fiato di un drago e incenerì la tela. Sembrava forte e pericoloso, ma doveva ammetterlo: era divertente.

    Gil le tolse il lanciafiamme e accese una sigaretta dallo stoppino prima di spegnerlo. Guardarono il fumo nero fluttuare dal dipinto bruciato. «Stavo pensando a quello che hai detto, a come uccidere il proprio amante possa essere romantico eccetera»

    «Troppo melenso?»

    «No, ma penso che ci sia una domanda migliore da fare»

    «Quale?»

    «Moriresti per me?»

    Tilda gli tolse la sigaretta dalle dita e si mise a rimuginare. «Mmmh. Sì. Lo farei. E tu moriresti per me?»

    «All’istante»

    Le sue guance arrossirono e qualcosa palpitò profondamente nel suo petto. «Ti amo»

    «Dovremmo sposarci» disse lui.

    Tilda fece un balzo indietro, come se si fosse scottata. «Vacci piano, tigre. Ho detto che morirei per te, non che ti sposerei»

    «Che stronza»

    Tilda rise, poi si asciugò il sudore dalla fronte. «Mi sa che ci siamo surriscaldati troppo con tutto questo fuoco. Andiamo da qualche parte a raffreddarci un po’»

    «Vuoi intrufolarti nella piscina dei vicini?»

    «No» rispose lei. «Andiamo giù al lago»

    NESSUNO dei due era in condizione di guidare, ma erano giovani e immortali. Tutti quegli avvertimenti da mamme preoccupate per la guida in stato di ebbrezza erano per altre persone. Altri automobilisti, altri bevitori. La generazione dei nostri genitori, che guidavano ubriachi tanto regolarmente quanto si lavavano i denti.

    Così andarono via, dirigendosi verso est su Lakeshore Boulevard nella Rabbit ammaccata di Gil. Sterzò sulla rampa di Cherry Street, la Volkswagen arrugginita che quasi prendeva aria quando colpiva quel terribile dosso prima del ponte. Lo stereo a tutto volume, quel vecchio pezzo dei Joy Division che conoscevano tutti, quello che tutti adoravano cantare ai propri amati. La metà dei lampioni erano spenti in quella strada tutta scorticata, il posto deserto. Gil accelerò, premendo sul pedale più forte di quanto avrebbe dovuto. Il vento umido proveniente dal lago soffiava attraverso i finestrini aperti.

    Gil imprecò, il piede sul freno. Tilda non seppe mai cosa colpirono o cosa cercarono di non colpire. Uno dei suoi vuoti di memoria riguardo l’incidente. Si ricordava un tonfo, poi la macchina che si girava e si rivoltava. Autista e passeggero venivano strattonati come le biglie in una bomboletta a spray. Buio.

    L’altro ricordo è il mondo sottosopra. La Rabbit sul dorso come una carcassa. Il vetro come ghiaccio sparso sulla plafoniera. Il sangue. Tilda a testa in giù allacciata alla cintura di sicurezza.

    Gil non c’era più. Odiava le cinture di sicurezza.

    Provò a gridare il suo nome, ma tutto quello che uscì dalla sua gola fu un rantolo umido, come in quegli incubi dove vorresti urlare ma non ci riesci.  Poi lo vide di sfuggita, lì oltre i denti frastagliati del parabrezza distrutto. Doveva essere stato sbalzato via. Barcollava verso di lei come un ubriaco ed era ricoperto completamente di sangue, tanto che lei pensò che si fosse svuotato una lattina di succo alla mela rossa sulla testa.

    Tirò la portiera ma era bloccata, così montò sulla pancia e passò dal finestrino. Le slacciò la cintura mentre lei faceva correre le mani sul suo viso e sul cuoio capelluto per scoprire da dove venisse tutto quel sangue. Parlavano, rapidamente e con urgenza, ma Tilda non sarebbe mai riuscita a ricordare cosa si fossero detti. Era un peccato, le ultime parole e tutto quanto. L’unica cosa che ricordava chiaramente era Gil che le diceva che avevano colpito qualcuno.

    Quello che accadde dopo rimase una nebbia di ricordi spezzati e supposizioni. Aveva iniziato ad andare nel panico, gridando che doveva uscire immediatamente da quella macchina. C’era qualcosa che non andava con la sua mano sinistra. Non riusciva a sentirsela. Lui le disse di calmarsi, non sapendo se spostarla o aspettare un’ambulanza.

    Gil si allontanò e Tilda ricordava di aver percepito la presenza di qualcuno. La persona che avevano colpito? Un altro automobilista che si era fermato per aiutare? Quando tornò da lei, la sua espressione era così sconvolta che la spaventò. Dalla confusione al terrore.

    Lui sussurrò il suo nome ancora una volta e poi sparì. Sparì come se la mano di Dio l’avesse tirato via, tanto fu veloce. Lei rimase lì stesa sul tetto, accasciata sulla plafoniera. Inutile. Urlò il suo nome finché la sua voce non cedette e tutto quello che poté udire furono le onde che si infrangevano contro il molo.

    QUANTO può essere spaventoso svegliarsi in ospedale? Nessun ricordo, nessun indizio sul perché ti trovi lì. Un milione di domande a cui nessuno nella stanza risponderà. Le stucchevoli maschere di compassione quando qualcuno corre a chiamare il dottore. Il dottore che finalmente dà delle risposte ma non quelle di cui hai bisogno. Elencò le ossa rotte e i legamenti strappati. Il polso distrutto. Dopo, un agente di polizia, ma tutto ciò che aveva erano altre domande. Tilda si rifiutò di parlare finché non avesse avuto delle risposte.

    «Dov’è Gil?» sibilò. «Sta bene?»

    L’agente strinse il cappello tra le mani. «Sono spiacente, signora Parish. È scomparso»

    Scomparso. Da non credere. Gil Dorsey fu dato per morto perché non riuscirono mai a ritrovarlo. Solo il sangue sulla strada, tutto lì. Il meglio che la polizia riuscì a mettere insieme fu che Gil si fosse allontanato dal catorcio vacillando, ferito e sanguinante e che fosse caduto dal molo nel lago.  Anche se l’agente non la informò di questo, la polizia si aspettava che i suoi resti venissero a galla più a ovest lungo i frangenti. Per gli annegati succedeva sempre così, e una volta che il signor Dorsey avesse fatto la sua apparizione, avrebbero potuto dichiararlo morto e chiudere il fascicolo.

    Non si risolse così. Ostinato da vivo, Gil lo rimase anche da morto e la polizia non poté mai chiudere il suo fascicolo. Non venne mai a galla da nessuna parte, rimanendo testardamente sul fondo del lago Ontario.

    E lei? Anche Tilda Parish affondò, come un transatlantico sventrato dagli iceberg. Cadde in una spirale di dolore così profonda che pochi dei suoi amici pensavano che sarebbe mai risalita per respirare ancora. 

    Due giorni fa

    1

    Sopravvivere

    RECUPERARE.

    Visto Tilda? Le iridi verdi sono le stesse, ma agli angoli degli occhi sono spuntate le zampe di gallina, quei piccoli contatori di chilometri che vengono incisi sulla pelle se si sopravvive tanto a lungo.  I capelli spazzolati all’indietro e legati in una coda di cavallo mentre rompe le uova nella padella e controlla il pane tostato che potrebbe bruciarsi se lasciato incustodito. Preparava la colazione e sperava che la caffettiera si sbrigasse con il caffè, così poteva versarsene una tazza. Per quanto odiasse andare di fretta la mattina, una volta ricevuta quella botta di caffeina, riusciva a gestire la situazione. Un’occhiata all’orologio ed era fuori dalla cucina, in fondo alle scale.

    «Shane! Molly! Sbrigatevi!»

    Mentre le uova sfrigolavano, Tilda tagliava a cubetti la frutta e faceva saltar fuori il pane tostato. Molly era schizzinosa quando si trattava della colazione. Tilda doveva prepararla nel modo giusto o non l’avrebbe mangiata. Un tratto che aveva ereditato da suo padre. Per quanto riguarda Tilda, lei avrebbe mangiato tutto, avendo imparato nel corso degli anni ad essere soddisfatta di qualsiasi cosa le si presentasse nel piatto o del cibo rifiutato e messo da parte da una persona troppo esigente.  Con le uova nel piatto e la frutta di Molly sul tavolo, Tilda gemette alla prospettiva di preparare il pranzo al sacco. Un’incombenza che detestava. Peggio ancora se per due pignoli.

    Poi il gatto, un Blu di Russia color carbone, sfiorò la sua gamba mentre raggiungeva a passi felpati il centro della cucina, e vomitò sul pavimento. 

    Shane scese per primo, infilandosi la maglietta nei pantaloni mentre lei ripuliva il disastro.

    Grosso e dall’ossatura spessa, Shane aveva il fisico del sollevatore di pesi. Aveva tutta la forza nella parte superiore del corpo, ma lottava con la pancia che iniziava a gonfiarsi con l’età. Avvicinandosi brevemente a Tilda per un bacio, le graffiò la guancia con la barba corta e si diresse verso la caffettiera. «Buongiorno, amore»

    «Non ti fai la barba oggi?»

    «Sono stato cacciato dal bagno. Di nuovo. Dormito bene?»

    «Meglio che ho potuto».  Tilda si sciacquò le mani sotto il rubinetto. La verità era che raramente dormiva bene, svegliandosi dal sonno profondo ogni notte. A volte era lo stress oppure il polso che faceva i capricci, a volte senza alcun motivo. Routine, così come lo era l’indagine di Shane sul suo sonno ogni mattina. Stessa domanda, stessa risposta. Shane invece dormiva come un morto e il risentimento di Tilda nei confronti della sua narcosi poteva diventare pungente. Ma bisognava riconoscerglielo, si informava sul suo riposo ogni mattina. Preoccupato, non sapeva come aiutarla. E nemmeno lei.

    Tilda si applicò alla preparazione dei sandwich. «Molly si è vestita?»

    «Sì, ma attenta a quello che dici». Avvicinò il caffè alle labbra e soffiò. «Il mostro si è svegliato».

    Tilda batté le palpebre guardando la tazza nella

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